Leviathan (2012)
si genera da un gorgoglio indistinto, da un ribollire liquido che
presto si fa ferro ovattato ed eco tambureggiante: è l’alba,
è il momento di venire alla luce in un mondo di tenebre e
salsedine, di croci piumate che volano sopra di noi, e Lucien
Castaing-Taylor con Véréna Paravel fanno da psicopompo verso una
dimensione intrappolata in un loop, la vita sopra l’acqua e la
morte sotto si avvinghiano nello sciabordare del mare, mai, o quasi
mai, nel cinema abbiamo avuto l’onore di sentire davvero
quello che i nostri occhi vedono. Leviathan è
indubitabilmente un manifesto su come deve essere trattata la realtà
nella settima arte, però c’è ben altro perché
disintegrando i canoni del documentario si arriva perfino ad un
superamento della suddetta realtà. È una cosa
incredibile: nell’assistere al film germogliano una miriade si
sensazioni/suggestioni che rendono lo spettatore parte integrante del
processo filmico, è esattamente questo che il sottoscritto
intende per “vedere un film”, essere ingranaggio del meccanismo,
farsi spazio di proiezione a se stante, e allora, per una serie di
sesti sensi intraducibili a parole, si avverte all’interno
dell’enciclopedia Leviathan una miscela di voci e grida come
se fossimo in un body horror cronenberghiano articolato nella viscidità dei crostacei pescati o come se vivessimo il rimbombo
del metallo incubico e sferragliante di Tsukamoto, e ciò è
stupefacente perché la coppia registica, due folli sprovveduti
che di mestiere fanno gli antropologi, di sicuro non aveva in mente
di fare un film che potesse evocare certi stati percettivi legati ad
un cinema di finzione, è semplicemente la forza di questa
realtà colta nella sua pienezza ad aprirci la porta in
quell’universo da cui provengono tutte le infinite altre storie.
Girato con una manciata
di GoPro disseminate lungo la barca e costituito da un montaggio che
ha come nume tutelare Philippe Grandieux (non per niente amico del
duo), Leviathan si profila fin dalle prime immagini come un
viaggio straordinario nel cuore argenteo della Visione, non vi è
alcun rivolo narrativo qui dentro, nessun tentativo di voler
raccontare, quello a cui assistiamo è uno spettacolo impetuoso
e ammutolente dove una violenza tremenda si divora qualunque filmetto
vietato ai minori di, e c’è, soprattutto, un orrore atavico,
lo stesso raccontato da Mellville e da Verne, che ci mette faccia a
faccia con quello sconfinato catino d’acqua salata che ancora
accudisce i nostri avi ancestrali (la bocca di una razza agonizzante
è la nostra bocca), ed è un confronto dal quale usciamo
irrimediabilmente sconfitti, devastati dall’imponenza del mare che
per la prima volta da quando il cinema è tale si rivela per
quello che è: un antro di mostri. Castaing-Taylor e Paravel
dirigono un’opera memorabile, un capolavoro audio-visivo capace di
fare del cielo l’oceano e viceversa, un film che si tuffa
nell’abisso facendocene sentire il suono (clamoroso lo stordente
apparato acustico), sicuramente una delle esperienze più
potenti che il cinema mi ha permesso di vivere.