martedì 26 aprile 2016

Leviathan

Leviathan (2012) si genera da un gorgoglio indistinto, da un ribollire liquido che presto si fa ferro ovattato ed eco tambureggiante: è l’alba, è il momento di venire alla luce in un mondo di tenebre e salsedine, di croci piumate che volano sopra di noi, e Lucien Castaing-Taylor con Véréna Paravel fanno da psicopompo verso una dimensione intrappolata in un loop, la vita sopra l’acqua e la morte sotto si avvinghiano nello sciabordare del mare, mai, o quasi mai, nel cinema abbiamo avuto l’onore di sentire davvero quello che i nostri occhi vedono. Leviathan è indubitabilmente un manifesto su come deve essere trattata la realtà nella settima arte, però c’è ben altro perché disintegrando i canoni del documentario si arriva perfino ad un superamento della suddetta realtà. È una cosa incredibile: nell’assistere al film germogliano una miriade si sensazioni/suggestioni che rendono lo spettatore parte integrante del processo filmico, è esattamente questo che il sottoscritto intende per “vedere un film”, essere ingranaggio del meccanismo, farsi spazio di proiezione a se stante, e allora, per una serie di sesti sensi intraducibili a parole, si avverte all’interno dell’enciclopedia Leviathan una miscela di voci e grida come se fossimo in un body horror cronenberghiano articolato nella viscidità dei crostacei pescati o come se vivessimo il rimbombo del metallo incubico e sferragliante di Tsukamoto, e ciò è stupefacente perché la coppia registica, due folli sprovveduti che di mestiere fanno gli antropologi, di sicuro non aveva in mente di fare un film che potesse evocare certi stati percettivi legati ad un cinema di finzione, è semplicemente la forza di questa realtà colta nella sua pienezza ad aprirci la porta in quell’universo da cui provengono tutte le infinite altre storie.

Girato con una manciata di GoPro disseminate lungo la barca e costituito da un montaggio che ha come nume tutelare Philippe Grandieux (non per niente amico del duo), Leviathan si profila fin dalle prime immagini come un viaggio straordinario nel cuore argenteo della Visione, non vi è alcun rivolo narrativo qui dentro, nessun tentativo di voler raccontare, quello a cui assistiamo è uno spettacolo impetuoso e ammutolente dove una violenza tremenda si divora qualunque filmetto vietato ai minori di, e c’è, soprattutto, un orrore atavico, lo stesso raccontato da Mellville e da Verne, che ci mette faccia a faccia con quello sconfinato catino d’acqua salata che ancora accudisce i nostri avi ancestrali (la bocca di una razza agonizzante è la nostra bocca), ed è un confronto dal quale usciamo irrimediabilmente sconfitti, devastati dall’imponenza del mare che per la prima volta da quando il cinema è tale si rivela per quello che è: un antro di mostri. Castaing-Taylor e Paravel dirigono un’opera memorabile, un capolavoro audio-visivo capace di fare del cielo l’oceano e viceversa, un film che si tuffa nell’abisso facendocene sentire il suono (clamoroso lo stordente apparato acustico), sicuramente una delle esperienze più potenti che il cinema mi ha permesso di vivere.

sabato 23 aprile 2016

Security

Il vigilantes di un supermercato coglie in flagrante una ladruncola.

Non sarebbe un peccato mortale glissare su questo sconosciuto corto tedesco diretto da un tale di nome Lars Henning perché, senza troppe circonlocuzioni, Security (2006) è talmente esile, monodimensionale ed elementare da mettere in crisi anche il più prolisso dei recensori. Chi scrive preferisce allora soffermarsi sull’impalcatura eretta dal regista (anche sceneggiatore) e sul colpo di scena che rovescia – letteralmente – i ruoli degli unici due personaggi in scena. All’incirca, assistendo agli ultimi cinque minuti del film, sono sorti i medesimi dubbi partoriti dalla visione di un altro cortometraggio inessenziale come Still Life (2005), per sommi capi: quanto credito si può dare ad un’idea che si limita esclusivamente a far leva su un capovolgimento narrativo? A priori la risposta non sarebbe granché conciliante con chi tale idea l’ha pensata, cioè: vogliamo, ora e sempre, un cinema che sia capace di sorprenderci senza trucchetti o escamotage superficiali, che ci indichi la strada senza guidarci su binari predeterminati, e non importa se si tratta di un film di Lav Diaz o di un corticino teutonico, ciò che si chiede è una circuizione pacifica, placida invasione reciproca. In Security non vi è nulla di quanto ho appena blaterato e, sapete che c’è?, probabilmente va bene in egual maniera: sarà il garbo europeo abbastanza lontano dal dozzinale o sarà che ‘sto benedetto effetto sorpresa con tutte le limitazioni del caso fa il suo dovere, fatto è che al lavoro di Henning si guarda con un certo sorriso, reazione naturale ad un’operetta senza pretese che sa accaparrarsi il rispetto minimo senza il quale rischierebbe di scivolare nell’incolore.

venerdì 22 aprile 2016

A Hijacking

Oceano Indiano: su una nave mercantile danese irrompono i pirati somali.

R (2010) ha rappresentato una discreta codifica del reale attraverso un cinema narrativo, e grazie ad un tale approccio il film ha potuto esaltarsi per mezzo delle sue soffocanti spirali drammatiche, vere e proprie trasposizioni infernali all’interno di un carcere in Danimarca. Due anni dopo Tobias Lindholm, uno che solitamente sceneggia per Vinterberg, ci riprova senza il collega Michael Noer e dà alla luce Kapringen, opera che si ispira a fatti realmente accaduti e che cerca di assumere i medesimi connotati del film precedente; anche qui Lindholm abbonda di camera a mano per buona parte del girato riprendendo i suoi attori (due di essi reduci proprio da R) nelle anguste stanzette della nave trasmettendo un senso di claustrofobia e un puzzo di sudore che se proprio non ti si appiccicano addosso perlomeno sono capaci di sfiorare anche gli animi meno sensibili. Ciò che essenzialmente cambia è la struttura della storia che in A Hijacking trova forma in un pingpong tra l’imbarcazione dirottata dai pirati e tra gli uffici della compagnia di navigazione dove il CEO aiutato dai suoi collaboratori tenta di negoziare via telefono con i banditi.

Se sul cargo c’è una certa fibrillazione implementata dal metodo di Lindholm, in Europa, all’interno della sede, la vicenda dell’amministratore delegato all’affannosa ricerca di denaro per soddisfare le richieste piratesche non ha la medesima forza di quella che riguarda il cuoco nel cuore dell’oceano. Le porzioni da thriller diplomatico mal si coniugano con i segmenti sulla barca, chiaro che Lindholm si è volutamente adoperato nel far risaltare il più possibile la divergenza tra i due mondi (anche cromatica: neon vs. penombra), però visto nell’insieme il continuo botta & risposta non riesce a celare delle debolezze che si riconducono a diversi ordini: tipo quello del “sano” coinvolgimento (l’interesse scema nell’osservare gli ostacoli che si presentano durante la trattativa fra buoni e cattivi), quello della tensione (troppa disparità fra i somali armati di fucile e gli uomini in giacca e cravatta dall’altra parte del globo) e quello della descrizione (mi riferisco soprattutto alla scrittura del personaggio principale ammantata di sentimentalismo [la faccenda della moglie e della figlia] e alla non-scrittura di tutti gli altri che sono davvero, troppo, esili).

L’accenno al fatto che i rapitori siano nella stessa condizione dei rapiti è, appunto, solo un accenno che scaturisce da un breve dialogo tra Mikkel e Omar e che non viene approfondito più di tanto, peccato perché uno scavo in questa direzione avrebbe potuto dare al film un attestato di ricerca oltre al compitino facile facile. Bruttino anche il finale a mio avviso, l’inserimento (forzato) di un colpo di scena del genere produce l’effetto contrario: l’impennata drammatica risulta artificiosa (tutto il contrario di quanto succedeva in R), e per un film che vorrebbe masticare il reale è inamissibile concedersi uno scivolone di tal fatta.

mercoledì 20 aprile 2016

Why Don't You Play in Hell?

Oramai completamente sdoganato nel mondo occidentale, Sion Sono ha aumentato a livelli disumani la propria produzione. Solo che nel 2015, ad esempio, si contano ben sei film (di cui uno per la tv) ed è per questo che inevitabilmente non tutti i tasselli del lievitante mosaico soddisferanno in toto il nostro palato, più che altro a furia di tenere ritmi di questo tipo il circo di Sono si sta trasformando in una fabbrica sforna-prodotti, e una fabbrica significa commercio, e commercio vuol dire soldi, tanti, e tanti soldi equivalgono a poco vero cinema. Sarà la scoperta dell’acqua calda ma ci sono prove concrete: dei lavori pre-Why Don’t You Play in Hell? (2013) Be Sure to Share (2009) e The Land of Hope (2012) erano due film pessimi dove il puzzo dell’incasso si diffondeva minuto dopo minuto, e lontani chilometri dall’irruente torrenzialità del giapponese. Un tempo il sottoscritto si esaltava come un bambino al cospetto di una pellicola di Sono (vedi Himizu, 2011) e poco gliene calava se nella sua proliferante filmografia qualche figlio fosse uscito un po’ così, adesso, al contrario, data la notorietà che ha raggiunto, storco il naso di fronte alla catena di montaggio messa su, mi pare fisiologicamente impossibile stare dietro a così tanti progetti, il rischio, che si tramuta in effettiva verità, è di non riuscire a raggiungere uno standard qualitativo comune per tutti.

Espulsi questi ovvi pensieri, prosieguo nella banalità: ricorrendo ad un’abusata litote mi sento di dire che Jigoku de naze warui non è poi male. Si tratta di una buona brochure dove poter ritrovare tutto l’orientamento autoriale di Sono, nell’ordine: è comunque presente anche qua il ritratto di una famiglia atipica stravolta e travolgente, certo non si mira alla sua disintegrazione come in passato, ma che ci sia “qualcosa” di strano lo si capisce subito, d’altronde il massacro ad opera della madre è la miccia che accende la storia. Poi siamo di nuovo a confrontarci con un oggetto che categorialmente è difficile catalogare, ritengo infatti che l’inclassificabilità sia uno dei maggiori pregi di Sono perché ogni volta dimostra, appunto, quanto le etichette servano a poco e che se si può parlare di libertà allora, con lui, siamo sempre nel posto adeguato. Da non sottovalutare, inoltre, il substrato autobiografico che, più o meno apertamente, si ripresenta anche nei film precedenti (pare che lo script in questione sia stato scritto molti anni prima, e allora ci si pone una domanda: quante saranno le sceneggiature che il buon Sion conserva nel cassetto?), ma che qui è proprio forte: a chi non è venuta in mente la sovrapposizione tra il regista Hirata e Sono stesso? Per chi non lo sapesse il Signore del Caos ha iniziato la carriera girando in Super 8 o qualcosa di simile (cfr. il big bang Love Song, 1984) proprio come la scapestrata banda dei Fuck Bombers. Infine rinveniamo dei piccoli tic diventati marchi di fabbrica: c’è un’altra Mitsuko dopo le omonime in Strange Circus (2005), Cold Fish (2010) e Guilty of Romance (2011), un nome che a questo punto diventa l’epifania muliebre per eccellenza, ci sono all’incirca i medesimi attori che da anni lavorano con Sono creando perciò un recinto autoreferenziale anche nel materiale umano, non mancano riprese gemelle (nuovamente persone catturate frontalmente che corrono/camminano per strada) e amori insensatamente folli, e, in generale, una tendenza all’eccesso sentimentale che non è mai eccessivo.

Ma l’elenco della continuità artistica mi rendo conto che non ha un valore particolarmente decisivo nell’esegesi di Jigoku de naze warui. Perché per coloro i quali lo hanno visto, sanno che al suo interno si dispiega una riflessione sul cinema portata, e non poteva essere altrimenti, al parossismo. Se continuiamo a guardare il passato Sono non è esattamente nuovo ad incursioni nell’area meta, abbiamo avuto delle briciole con Keiko desu kedo (1997) e con Into a Dream (2005), tuttavia il discorso in Why Don’t You Play in Hell? ha un altro spessore, decisamente fondante. Personalmente in taluni frangenti ho trovato un po’ telefonata la smaccata contrapposizione fra pellicola e digitale didascalizzata dalle battutine dei protagonisti o dai siparietti stonati con il vecchietto proiezionista, ad ogni modo è innegabile che l’orgia sanguinolenta del prolungato finale trasporti oltre l’estremo il ragionamento teoretico. Con il suo stile Sono aggiunge al già numerosissimo dibattito realtà vs. finzione una voce che dovrà e potrà essere ricordata: il cinema, con il suo dio invocato da Hirata, si può manifestare a noi umili fedeli in tutta la sua imponenza riuscendo a mostrarci il possibile blitz del suo occhio nel tessuto del cosiddetto reale, sostando e sguazzando nell’atto falsificante in guerra con la concretezza della carneficina (a tal proposito bella l’utopica standing ovation ai partecipanti incerottati del film nel film), in una specie di loop perpetuo: l’ultimo “taglio” è urlato dalla vera (?) equipe del film.

martedì 19 aprile 2016

Catedral

Dal 1961 Justo Gallego Martínez, ex monaco spagnolo, sta costruendo con le proprie mani, mattone dopo mattone, vetrata dopo vetrata, una cattedrale presso Mejorada del Campo, comune non distante da Madrid. Justo, classe 1925, non ha mai avuto alcuna formazione ingegneristica (pare che non abbia avuto alcuna formazione tout court), e il suo folle(ttiano) progetto non ha altra base su cui posarsi che non sia la fede smisurata verso Dio. Alessio Rigo de Righi e Aliocha Allard si cimentano in questo documentario breve dal sapore molto herzoghiano (e in mano ad un professionista Catedral [2009] chissà cosa sarebbe potuto essere: inevitabilmente dell’altro, nel bene e ne male), film centrato sull’uomo e sulla sua enorme ambizione pari, se non maggiore, al voler trasportare una nave sopra un monte o al voler convivere con degli orsi selvatici. È una pazzia ammirevole quella che filtra dalla tenacia di Justo Gallego e a mio avviso è utile sfrondarla da tutte le implicazioni religiose: non mi pare fondamentale considerare l’edificazione della chiesa un sintomo di totale devozione nei confronti del proprio credo, una visione più laica spinge il sottoscritto a meravigliarsi al cospetto di una perseveranza, di un impegno, di un sacrificio squisitamente terreno.

Casualmente, nello stesso anno di questo Catedral, un regista di nome James Morgan si è a sua volta introdotto nella faticosa esistenza di Gallego realizzando il corto El loco de la Catedral. Confrontando i due lavori, per forza di cose molto simili, si può notare un diverso approccio normativo; Rigo de Righi e Aliocha optano per una prassi meditativa dove alle suggestive immagini della cattedrale vengono alternate le elucubrazioni di Justo che non riguardano direttamente l’innalzamento dell'edificio bensì il suo pensiero sulla vita, la fede, il mondo, ecc. Morgan invece veste i panni del diligente documentarista e snocciolate varie informazioni si mette ad intervistare anche le persone che ruotano intorno a Justo scoprendo un Personaggio come il cognato o venendo a conoscenza delle confidenze fatte dalle comari che giocano a carte. A Catedral manca un po’ una sana e semplice porzione divulgativa, soprattutto perché la vicenda sotto esame è talmente [usate l’aggettivo che più vi aggrada] che si vorrebbe entrare in possesso del maggior numero di delucidazioni possibile (partendo dalla più stupida: come accidenti ha fatto ad erigere il tetto?), una tale assenza di sottolineature è medicata dalla fascinazione visiva, ma l’impressione che la questione sia lontana dall’esser stata esaurita permane anche dopo i titoli di coda.

lunedì 18 aprile 2016

Marilena from P7

La morte di Cristian Nemescu avvenuta nel 2006 ha spinto gli addetti ai lavori ad affermare che in quell’incidente stradale il cinema europeo aveva perso uno dei virgulti più promettenti appartenente ad una nuova corrente artistica al tempo ancor più interessante, e il riconoscimento postumo per California Dreamin’ (2007) in quel di Cannes non ha fatto altro che confermare i pareri positivi sul giovane rumeno scomparso a ventisette anni. Ma il percorso che lo portò alla realizzazione del primo e ultimo lungometraggio è stato scandito da una manciata di corti che trovano punto d’arrivo in Marilena de la P7 (2006), opera di passaggio dai cimenti giovanili verso il gran debutto che copula amorevolmente con i tòpoi del cinema rumeno contemporaneo, e perciò anche qui la traiettoria di movimento affonda nel realismo, in una ricerca che accomuna tutti gli autori della Romania i quali riprendono ciò che i loro occhi vedono o hanno visto, e raccontano quello che la Storia ha lasciato, dei vuoti incolmabili e dei dolori trasmigrati alla generazione odierna; orbene, a prima vista Nemescu non fa altro che imbracciare la sua cinepresa e seguire un ragazzino di nome Andrei che passa le giornate a bighellonare con gli amici mentre intorno a lui il quartiere degradato offre il peggio che ha da dare: grigiore, cemento, zii ubriaconi, papponi, puttane. Lo spaccato sociale è perciò così delineato e se fosse rimasto in primo piano invece di scivolare ben presto sullo sfondo come in effetti accadrà, il mediometraggio sotto esame non si sarebbe ricordato ad imperitura memoria, invece Nemescu è bravissimo a svincolarsi dalle ganasce dell’”impegno politico” per guarnire il film con temi di una vastità tale da sconfinare nell’universale.

Perché si parla di amore in Marilena de la P7, con un tatto e al contempo con un’incisività che generano un’immediata empatia con Andrei e le sue mire sentimentali. Il conflitto è forte: in un posto dove non c’è spazio per il cuore (né sul marciapiede né in casa [i genitori]) fiorisce un romanticismo infantile che si scontra con la realtà seguendo direttive adolescenziali, quindi utopistiche, smanioso di voler conoscere il corpo-Donna innamorandosene da lontano, da sopra un tetto, in un’isola di innocenza destinata a scivolare giù, nella strada (il primo sogno). Nemescu supera le paludi di un’ostinata drammaticità (cosa che a mio avviso è da imputare al connazionale Mungiu) adoperando la panacea di tutti i possibili mali: l’ironia intelligente, nello specifico tagliente, che delinea l’incontro impossibile tra un bambino e una prostituta e, di riflesso, lo sgretolarsi del Primo Amore di fronte all’ineluttabilità del sangue, versato a sua volta per cause affettive. La succitata ironia trova sfogo in intuizioni semplici, anche artigianali se vogliamo, eppure d’una brillantezza appagante dove il regista sciorina talento, inventiva, voglia di sorprendere con improvvisi split screen (l’alternanza dello schermo frazionato prima con le meretrici che fanno sesso e dopo coi ragazzetti che si masturbano nei loro letti è geniale) e soprattutto con l’intraprendenza di chi non si accontenta di svolgere il compitino e sovrappone i registri, tinge la periferia rumena con pennellate surreali (Marilena e il potere di mandare in cortocircuito gli impianti elettrici e quelli… cardiaci), apre finestre oniriche di deliziosa ingenuità (l’invasione “aliena” ancora più geniale), e poi con avidità risucchia tutta la leggerezza fino a quel momento rappresentata inscenando la fine dell’estraneità di Andrei dal mondo degli adulti, una maturazione fulminea, luttuosa: la prima cicatrice che non se ne andrà facilmente e che farà male per molto tempo ancora.

sabato 16 aprile 2016

The Last Time I Saw Macao

LA POSSIBILITÀ DI UN CINEMA

Apice (per quanto potuto vedere) dell’esplorazione fisica e mentale di Macao da parte del duo Rodrigues & Rui Guerra da Mata che già si erano mossi in un territorio sì concreto ma aperto all’impossibile (Alvorada Vermelha, 2011), A Última Vez Que Vi Macau (2012), a cui seguiranno sempre nella medesima diade Portogallo-Cina anche se probabilmente con metodi e tempi differenti Mahjong (2013) e IEC Long (2015), è la possibilità di un cinema narrativo che scopre [1] un metodo di affabulazione capace di prescindere dall’attorialità. Esagerando forse un goccio potremmo vedere il film come un atto d’eversione che schiaffeggia il cinema tradizionale, l’idea scaturente è in sostanza che per raccontare una storia non c’è più la necessità dei corpi materiali, la malleabilità del digitale permette in post-produzione di estendere, comprimere, rovesciare e terremotare il significante, quella che vediamo è fiction moderna in tutta la sua adattabilità: il reale così risemantizzato si intensifica, si carica di un altro sensibile, gua(r)da i f(i)umi della suggestione. Questo procedimento non può che creare ammirazione nello spettatore attento perché se c’è un luogo nel cinema che può farsi forum sul contemporaneo visivo quello è proprio The Last Time I Saw Macao.

Come riportato nel commento ad Alvorada Vermelha il co-regista João Rui Guerra da Mata ha passato l’infanzia a Macao. Il “dettaglio” non è chiaramente di poco conto visto che l’opera è attraversata da una faglia che frattura, risalda e mescola il passato con il presente. La sfumatura biografica (comunque presente con delle vecchie polaroid che presumibilmente ritraggono lui e la sua famiglia) si dissolve in uno smarrimento personale/diegetico/temporale. Vediamo il presente, incarnato dall’assenza scenica di Guerra da Mata, che vaga in una Macao ormai completamente deportoghesizzata (ammesso che, per stessa ammissione del regista, sia mai stata portoghese) dove le briciole di una possibile presenza lusitana sono date, oltre che dai feticci odierni come Cristiano Ronaldo, dalle scritte delle strade sui muri in doppia lingua o dalle lapidi del cimitero. La coesistenza di un prima durato quattrocento anni e di un dopo molto più recente, giusto tre lustri, origina un testacoda stordente, una congiunzione astrale che fa da apripista ad una fine, dell’anno e magari di una vita: “e poi ho capito perché sono tornato a Macao trent’anni dopo”.

Espandendo lo spettro interpretativo è ravvisabile un’ulteriore concomitanza, quella categoriale. Se da una parte il film è per l’appunto non catalogabile poiché frammentato, disperso e simulatore di apparati documentaristici, dall’altra, in uno slancio nostalgico, si ostina a strutturare il racconto per mezzo di un finto scheletro crime. Finto perché appare evidente fin da subito quanto lo strano filo conduttore nei fatti non conduca a niente, è un valido escamotage indecifrabile (e la gabbietta cosa sarà? Non ditemelo, non mi interessa saperlo) atto ad innervare lo studio della coppia registica: rifacendosi al passato e al presente, avvalendosi delle loro epifanie, e rimodulando le prassi visivo-narrativo, hanno fornito una lezione che va anche al di là del cinema: il futuro non può che essere nell’integrazione.
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[1] In realtà non scopre niente perché come da sempre è solo l’avanguardia che può “scoprire” nuove forme, nuovi codici. Rodrigues è molto bravo, ma qui, come giustamente riportato da Sangiorgio (link), aleggia potente il cinema di Chris Marker.

venerdì 15 aprile 2016

Der Verdacht

Il marito viene sospettato dalla comunità di aver ucciso una giovane ragazza, la moglie vuole credere alla sua innocenza.

La prima constatazione, banale come tutte le prime constatazioni, è che, visto l’assunto su cui si poggia, Der Verdacht (2008) di Felix Hassenfratz avrebbe potuto “dare” molto di più se il contenitore fosse stato quello del lungometraggio. Questo giovane regista tedesco intesse la struttura narrativa affidando alla coppia protagonista il compito di trainare la storia, attraverso la freddezza di lui, l’ambiguità del comportamento e il sentimento incondizionato di lei si dovrebbe costruire mattoncino dopo mattoncino un impianto thriller a cui non si chiede la soluzione bensì l’estensione di un filo tensiogeno che avvolga il film, succede però che l’occhio di bue che illumina l’uomo e la donna palesa un’evidente difficoltà a scendere sotto la superficie delle cose e l’effetto immediato è una banalizzazione di concetti che sulla carta avrebbero il compito di fornire sussistenza teorica: si veda la frettolosità con cui viene affrontata la sfera sentimentale con relativa poca credibilità alla cecità amorosa di lei, senza dimenticare un debole rimando a problemi famigliari che avrebbero visto un atteggiamento ostile del padre della ragazza nei confronti del panettiere poiché non originario del luogo, anche qui la tematica è presa e piazzata lì senza un approfondimento degno, collage sequenziale per delineare un percorso artefatto.

Non va granché bene nemmeno l’idea che il giudizio di un intero paese possa sentenziare la colpevolezza di un imputato a prescindere dalle prove pesanti a suo carico. Manca una cappa oppressiva e discriminatoria nei riguardi del presunto reo, la comunità come Giudice non funziona anche perché di essa ci vengono mostrati pochi componenti (solo quelli che cantano nel coro religioso), di conseguenza la morsa accusatrice non stringe quanto potrebbe. Ad Hassenfratz non chiediamo di essere Vinterberg né, dato il contesto teutonico, Haneke, chiediamo però almeno il compimento delle ipotesi: può andare bene lasciare chi guarda nel dubbio amletico del “è stato lui/non è stato lui”, oltre alla mera patina investigativa permangono delle falle, sia negli intrecci psico-sentimentali che vedono la moglie fervente sostenitrice dell’innocenza, sia nella collettività come tribunale che non concede possibilità di appello.

giovedì 14 aprile 2016

The Ambassador

Documentario d’inchiesta – se così può essere definito – orchestrato da un uomo a cui deve puzzare la vita: il suo nome è Mads Brügger, viene dalla Danimarca, campa facendo il giornalista senza farsi mancare incursioni nel mondo della tv e del cinema (sia The Red Chapel [2009] che The Ambassador [2011] hanno racimolato premi e nomination qui e là), e per motivi che ci restano oscuri un bel giorno ha deciso di mettere in piedi un reportage sulla compravendita di diamanti in un Paese come la Repubblica Centrafricana che dalla fine di Bokassa in poi è solo uno staterello nel bel mezzo del continente africano. Così, ventuno anni dopo Echi da un regno oscuro (1990), l’occhio di un altro europeo penetra in questa terra ricca di risorse (diamanti e petrolio), spolpata dalle potenze occidentali e non (Cina e Francia) e ammorbata dalla tipica povertà che ci si immagina in un posto del genere, ma Brügger non ha le intenzioni di Herzog, e il film che imbastisce ha un forte retaggio televisivo dove spadroneggiano telecamere nascoste, telefonate registrate e una narrazione esterna, il che, per fare un accostamento non proprio dei migliori, rende The Ambassador un’opera vicina ad un servizio delle Iene o a qualche trasmissione simile. Ovviamente Brügger lustra la confezione rendendola appetibile e commestibile: (de)scrive una storia di intrighi e ingorghi diplomatici piena (anche in abbondanza) di sotterfugi, mazzette, loschi politici, faccendieri, omicidi, e monta il tutto istituendo una sequenzialità da spy-story con tanto di suspense conclusiva.

L’idea che sottende il film non è malvagia e a dare un contributo importante ci pensa lo stesso Brügger che sembra nato per fare l’impostore (tecnicamente la copertura che adotta per entrare nel giro illegale dei diamanti è l’apertura di una fabbrica di fiammiferi), e l’atteggiamento, il modo di porsi, l’abbigliamento, lo rendono piuttosto credibile, cioè: si crede senza fatica al personaggio che ha cucito su di sé. In fatto di credibilità sorgono invece dei dubbi riguardanti l’attendibilità dei meccanismi concreti che portano Brügger a testimoniare i vari step del percorso verso la meta a cui tende; l’ombra dell’artificio si allunga sulle scene dove Monsieur Gilbert si fa tranquillamente riprendere mentre mercanteggia con l’attore-regista-diplomatico, vero che potrebbe trattarsi di una hidden cam ma la pulizia dell’immagine e del sonoro fa pensare il contrario, inoltre c’è da sottolineare come i ganci portoghesi di Brügger che hanno fornito i supporti logistici ed economici per il “viaggio d’affari” avrebbero potuto tranquillamente fare una ricerca su Internet del proprio assistito e scoprire chi davvero era e che cosa davvero faceva. Non so, nel progetto complessivo ci sono delle bugne su cui non è semplicissimo soprassedere, anche se comunque ogni possibile obiezione si riduce all’urgente interrogativo di fondo: quanto può interessare un film che racconta il degrado dell’establishment centrafricano e dell’attività predatoria nella suddetta nazione attuata da sciacalli che badano solo al tornaconto monetario? Dite voi, a mio avviso non c’è un’impellente asportazione di materiale tricotico in merito.

martedì 12 aprile 2016

Cemetery of Splendour

Una forte continuità lega gli esemplari che popolano la filmografia di Weerasethakul, vedere Rak ti Khon Kaen (2015) è vedere Tropical Malady (2004) o Syndromes and a Century (2006), il punto è che qui l’atto di vedere si risemantizza, ogni film del regista thai non è più soltanto fruizione poiché un cinema del genere si fa compenetrante, è organismo attivo che pigia arrugginiti interruttori celebrali, è manifestazione di alterità, dialogo con l’impossibile, cartina geografica di un mondo che semplicemente non conosciamo. Nessuna sviolinata: quello che accade in Cemetery of Splendour è… no, non ha senso cercare un rifugio nella comodità dei fatti annotati, Weerasethakul è uno dei pochi registi (e non si dice “è l’unico” perché si è sempre un po’ codardi) in grado di polverizzare i meccanismi appiattenti del cinema e soprattutto sa andare oltre, ma è un oltre vero, senza retorica alcuna: i suoi film ti aprono e nell’incontro con una realtà così altra accompagnata dalla stupenda constatazione che ci possono essere visioni sempre più ulteriori, se ne esce arricchiti. Vedere ha perciò un nuovo senso: è esperienza, l’extracorporeo che si incarna, la morte che appaia la vita, quanta sfuggevole grandezza dentro una baracca nei pressi di una foresta.

Meglio o peggio de Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti (2010), continuazione o meno di Mekong Hotel (2012), Cemetery of Splendour è nuovamente una tavola rotonda di entità impalpabili, un forum dove Apichatpong persegue la propria idea di reale fuso nel sogno, le dicotomie si fanno unicum (pensiamo alla protagonista che trova vicinanza [ma non amore probabilmente] in una persona così diversa da lei come l’americano Richard), si scambiano (le divinità diventano ragazze qualunque, una ragazza qualunque diventa una dea capace di leggere il pensiero), e negli incessanti nonché vertiginosi cortocircuiti spicca la figura di Itt che mi pare possa incarnare e ovviamente eterizzare (passatemi il termine) il cinema di Weerasethakul, Itt sta al confine (come il soldato che è stato), galleggia tra la dimensione del sonno e quella della veglia, ed ha anche la capacità di reincarnarsi (sebbene non vi sia un decesso), di invadere il corpo della medium (come se fosse il nostro) e di permettere che il suo sguardo possa andare al di là del presente e sfondare il tempo, quindi, nella lunga e bellissima scena che si conclude con la catarsi della latente tensione sessuale tra la donna e il ragazzo, non più la giungla ma quello che c’era prima (non più gli scavi, di nuovo: quello che c’era prima o che ci sarà; chissà cosa…)

Così Weerasethakul tradotto da me e preso da qui:

rispetto ai miei lavori precedenti penso che la dimensione onirica in Cemetery of Splendour sia più personale. Qui, dal momento che penso di star lavorando meno a livello intellettuale e più su quello emotivo, sono molto interessato alle limitazioni del cinema, ai suoi codici e alle possibili sperimentazioni sulla forma. Per questo ho girato l’intero film nella mia città natale, sentivo che la città era cambiata così velocemente. Con l’ascesa del potere militare nel Paese, sento che le persone sono confuse su come sarà il futuro e hanno bisogno di scappare. Un modo per fuggire è quello di sognare, di dormire e trovare una realtà diversa.

lunedì 11 aprile 2016

Raak

Giocattolino olandese aggiudicatosi l’Orso d’Oro a Berlino 2007 che fa leva su un meccanismo narrativo utilizzato in lungo e in largo in ambito cinematografico, sorta di falsa progressione che riparte ogni volta dal via, da queste parti abbiamo potuto vedere qualcosa di equipollente con Timecrimes (2007) o con Lights Out (2010) (ma gli esempi sono davvero molteplici e ad ognuno di voi ne verrà in mente qualcuno), Raak (2006) si affida a tale dispositivo per l’esposizione dei fatti. Chiaro che il suddetto Hanro Smitsman, regista che nel curriculum ha un paio di titoli sulla carta interessanti, non osa particolarmente nell’area strutturale, è anche vero però che con una durata inferiore ai dieci minuti un po’ di “maniera” la si può anche accettare a cuor leggero. Perché dribblando la derivazione teorica che fonda il corto, in questo breve ritratto di vite tira un’aria frizzantina che non vuole certo nascondere un diffuso malumore trasversale, un’insoddisfazione che sembra propagarsi dalla madre verso il figlio e che trova in quest’ultimo una chiave di volta catartica.

Se così possiamo intendere Rik, l’ultimo gesto, recidivo e solo abbozzato poiché non ripreso nel suo compimento, scardina il loop che ingabbia il film mostrando quindi una via di fuga (drammatica in un contesto tragicomico) incapace però di rivelare un’effettiva uscita dal cerchio; prima che da quel cavalcavia precipiti o meno un sasso compaiono i titoli di coda accompagnati da una subdola nenia, che cosa sia successo (o stia succedendo!) sosta nel limbo delle storie mai raccontate, quelle che in fondo ci piacciono di più.

sabato 9 aprile 2016

Night Moves

Kelly Reichardt è sempre lì a raccontarci di un’altra America, e non è soltanto una questione di temi o di modi, prima di ogni cosa è la geografia a segnare uno scarto decisivo con l’idea stereotipata che il cinema americano ha esportato oltre l’Atlantico, un po’ come i racconti cult di Breece D’J Pancake, la visione della Reichardt è l’unico (per quanto possa ricordarmi) caso di cinema narrativo statunitense radicato in un contesto rurale (è sempre l’Oregon) che ci restituisce una nazione finalmente più umana; di conseguenza l’intera filmografia è percorsa da vibrazioni umaniste interrate in un solco molto europeo, minimale, scarno: Old Joy, opera del 2006 la cui sinossi poteva ridursi a tre o quattro parole, è tuttora un manifesto di intimità applicata alla settima arte, quando il non esplicitare praticamente niente riesce comunque a fecondare l’interiorità.

Una premessa così ovvia non poteva che servire a paragonare l’attuale rovescio della medaglia: mi è parso che Night Moves (2013) abbia una profondità inferiore ai lavori che l’hanno preceduto. Ora, con “profondità” si dice tutto e niente, ne sono consapevole, ma ciò a cui tento di rifarmi non è tanto uno spessore concettuale, perché se così fosse il film sotto esame è quello che potenzialmente nella carriera di Kelly Reichardt presenta un’organicità superiore alle altre pellicole, no, quello che non pare così profondo è quella traiettoria sensoriale che faceva tintinnare le nostre corde. Il colpevole principale di questo mancato magnetismo è la tendenza della regista ad affidarsi mai come prima di Night Moves al Racconto, ad una successione calcolata di step che sedano ogni possibile moto astraente. È tutto estremamente pragmatico: ancor prima della messa in scena: c’è il trattare faccende come ambientalismo ed ecologia, la concretezza, perciò, di una politica e al richiamarsi ad essa, quindi materiale odierno, pressoché cronachistico, niente a che fare con l’errabondare di Meek’s Cutoff (2010) [1]. Poi la presenza di una relativa esplorazione (anche umana) si fa dato di fatto: apprendiamo il divario tra idealismo e l’inefficiente applicazione di esso (il capo della fattoria dirà che l’aver fatto saltare in aria soltanto una diga è stata un’azione pressoché inutile), al pari dei drammatici esiti causati dal dilettantismo dei tre personaggi, e proprio qui si consuma una tragedia che suona a mio modo di vedere come un’intensificazione un po’ stonata, mi riferisco all’omicidio di Dena dal carattere estemporaneo, troppo, poche le premesse che potessero indurre Josh ad un atto simile, una stecca figlia diretta dell’impianto espositivo che, vista la sua natura, necessita per lo sguardo spettatoriale di una coerenza razionale in tutta la durata del film.

Ma queste conclusioni rimangono insoddisfacenti, si entrerà anche nei meandri del de gustibus tuttavia di fronte ad un bivio che mette da una parte un cinema ordinato e fondato su codici abbastanza abituali con annesso svolgimento del temino, e dall’altra ipoteticamente un cinema asciugato dei molti artifici banalizzanti che lavora molto bene nell’area percettiva, io non posso che imboccare la seconda strada, quella che di certo non porta a Night Moves.
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[1] Non c’entra nulla ma lo dico ugualmente: se esiste un film che può essere accostato a Jauja (2014) quello è proprio Meek’s Cutoff, certo inferiore e meno radicalizzato, eppure edificato su presupposti non troppo dissimili.

venerdì 8 aprile 2016

Futures Market

Quando gli dei vogliono aiutare i mortali mettono i sogni nelle loro teste, e quando invece vogliono punirli fanno in modo che i sogni divengano realtà.

Atipico documentario spagnolo diretto da Mercedes Álvarez, regista da tenere sott’occhio, che effettua un’analisi sulla crisi globale tramite un approccio multidisciplinare che mescola economia, filosofia e sociologia, tutte materie ricondotte nel contenitore cinema per il quale la Álvarez riserva un soddisfacente tatto visivo. Mercado de futuros (2011) non contempla didascalie e quindi è più che mai compito nostro rintracciare il senso d’insieme: si parte con lo smantellamento di una vecchia casa dove una ditta specializzata recupera le varie cianfrusaglie disseminate nell’abitazione e le stipa all’interno di alcuni camioncini, subito dopo la mdp si intrufola in una specie di fiera dell’immobiliare altolocato carpendo le conversazioni degli addetti ai lavori o di quest’ultimi che parlano con i possibili clienti; le offerte sono rivolte ad una imprenditoria di livello, si parla di Dubai come il Paradiso su cui adesso vale la pena investire o di sconfinate spiagge limitrofe pronte per essere urbanizzate; è evidente che la vicinanza tra lo smembramento della casa precedente e l’immediata penetrazione in un business con cifre da capogiro provochi una contrapposizione che verrà anche riproposta in seguito e che diventerà il cuore dell’opera: vedremo delle bambole appartenenti a quell’appartamento ammucchiate per terra e vendute all’asta, mentre successivamente, durante una conferenza, verrà esaltata la figura della Barbie come modello di profitto; e ancora: se nella city, in un ufficio simile ad un girone infernale, agenti di borsa e broker (sono sinonimi?) si affannano a vendere e/o comprare azioni, titoli o chissà quali altre diavolerie, al contempo in un rione periferico un rigattiere classe 1918 espone la sua merce senza però riuscire a concludere nessun affare.

Il motivo portante del film è questa discrepanza tra un pensiero votato al raggiungimento del massimo profitto (gli stralci dei congressi sono degli indottrinamenti in questa direzione) tanto che i risultati si riscontrano nelle proposte lussuose di un turismo a cinque stelle (palafitta nell’oceano con pavimento in vetro, quattrocento dollari a notte), e una condotta esistenziale che si accontenta delle briciole, della compravendita con pochi zeri, dell’autosostentamento (un contadino e il suo piccolo polmone verde nel cuore della città). Poi ci sono anche dei rigagnoli che si allontanano dall’antitesi illustrata per concentrarsi in elucubrazioni sul tempo e sulla memoria che donano sì un tocco naif all’opera ma che forniscono anche una somministrazione di informazioni così ampia da lambire la vaghezza, a queste si aggiunge un profuso soffermarsi su ogni scena portando il minutaggio a sfiorare le due ore, non bisogna spaventarsi però, Futures Market raggiunge l’accordo fra disamina del sistema e studio artistico. Lo spirito d’iniziativa è lodevole.

giovedì 7 aprile 2016

Hope

Si vede che Pedro Pires non è uno sprovveduto nel fare quello che fa, anche un occhio come quello del sottoscritto (che poco sa del dietro le quinte di un un’opera) comprende il livello qualitativo degli strumenti utilizzati, non solo: Pires, francese di nascita ma canadese di fatto, dimostra una certa personalità patinando il suo cortometraggio in un mo(n)do che si avvicina moltissimo al videoclip. Ora, questa tendenza di Hope (2011) ad assomigliare ad un prodotto visivamente legato all’area musicale si allontana non di poco da certi ideali che almeno io ritengo indispensabili per parlare di un cinema “buono”, non vorrei generalizzare e quindi passare per un superficiale ma per quello che ho potuto vedere l’arte del videoclip si basa sulla laccatura dell’immagine, sulla sua intensificazione, sulla ripetizione atta a creare rime ottiche, tutte azioni che Pires compie in Hope e che seppur legittime si scontrano con il mio gusto personale.

È vero che da un certo periodo preferisco una forma di narrazione che si allontana dai canonici meccanismi affabulativi, ed è per tale motivo che ho apprezzato opere come Pigs (2011) o Pude ver un puma (2011), ma Hope, sebbene in apparenza abbia dei connotati non così dissimili dai lavori appena citati (anche qua il racconto non esiste e si punta più sul suggestionabile che sull’illustrabile), non ha la stessa energia ed il motivo lo rintraccio nel discorso della profusa estetizzazione che ammanta il film. È tutto molto perfetto, dal seppiato allo slow-motion, al pari di quanto tutto è finto, plastificato, confezionato per essere un’istantanea che non sa penetrare nelle stanze buie ed umide della nostra mente. In estrema sintesi, colpito da una fulminante afasia, penso che ad Hope manchi un’anima.

martedì 5 aprile 2016

Le mille e una notte - Arabian Nights: Volume 2 - Desolato

Non c’è nessun incipit per O Desolado, nessuna guida che possa indicare una traiettoria comune, per questo il secondo capitolo della trilogia di Miguel Gomes contiene tre sottosezioni maggiormente eterogenee se parificate a quelle precedenti dove invece la dualità realtà/fantasia applicata al topic della crisi economica forniva dei parametri interpretativi più accessibili. Qui l’apertura è ampia e, almeno chi scrive, ha faticato di più a scovare un filo conduttore che fosse in grado di cucire il tessuto narrativo, anzi diciamo che la fatica è stata vana poiché ritengo, alla fin fine, che non vi sia un motivo di studio così localizzato come per Inquieto, sì la “desolazione” del titolo è forse rinvenibile nell’ultimo episodio anche se probabilmente ci sarebbe da discutere su cosa sia percepibile come desolante (tutta la vicenda condominiale per me lo è), mentre nei primi due non vi è granché che riporti nel suo interno il nome del film, piuttosto questa prima coppia appare legata da una sottile connessione civile che potrebbe riguardare la nostra epoca, quella dei processi mediatici che eleggono il crimine a show e il criminale a personaggio. Tuttavia non sono affatto convinto di una tale esegesi e per tale motivo ritengo che, in ultima battuta, l’unico atteggiamento che si può avere verso O Desolado è prendere atto della natura ribelle che lo permea e dell’unica legge che può osservare, quella della forza narrante libera di scorrazzare nei luoghi delle storie-non-ancora-raccontate.

Sul primo segmento, la vicenda del vecchio senza budella, mi viene difficile fare un approfondimento: non c’è metafora, non c’è un’idea traslabile oltre lo schermo (se non quella citata sopra: l’assassino che diventa star, ma è così tenue…), è la parentesi più asciutta ed austera finora vista in questa opera extralarge; un vecchio gironzola in un territorio brullo ed inospitale armato del suo fucile. Punto. Per la sottrazione, per la cornice naturalistica e per quella soprannaturalistica (il killer sembra riuscire a teletrasportarsi) viene alla mente il Dumont di Hors Satan (2011), ma, per continuare a ripetermi, non c’è un forte aggancio verso qualcosa di altro, lo sfondamento concettuale è assente ed affiora da parte di Gomes il piacere di raccontare solo per il gusto di farlo, tanto che a chiudere la porzione giunge un quadretto nonsense di alcuni boy scout che si cimentano in varie esercitazioni. Lo stesso non si può dire della parte successiva, una perla di cinema giudiziario postmoderno che sembra uscita dalla penna di un Grisham posseduto dallo spirito di Kafka, c’è di tutto: un anfiteatro come tribunale, i colpevoli, gli indiziati e le vittime insieme sulle gradinate a testimoniare una catena di eventi assurda e completamente fuori controllo (tanto da far piangere l’inflessibile giudice) dove più ci si inoltra nel suo dispiegamento e più si intorpidisce, i personaggi, le macchiette, i fantocci (della vacca), le assenze (il cinese: il colpevole?) portano dentro al film la pluralità della storia costituita da tante altre sottostorie, è qua la congiunzione con O Inquieto, sia nella multinarrazione che nel potente carico allegorico, in una parola: ottimo. Ad abbassare la qualità generale ci pensa la sezione finale dove è probabile che, nell’ottica de Le mille e una notte, Shahrazād abbia rischiato grosso al cospetto del Re Shāhrīyār. Sintetizzando, il sottoscritto ha ravvisato un Gomes piuttosto innocuo che non riesce ad essere pungente nel ritratto di desolazione umano/condominiale che si prefigge di illustrare. Potrà essere gradevole il rapido avvicendarsi degli abitanti della scala, ma tutto si ferma alla superficie mostrandosi in una veste estetica che non porta niente di originale (quanti scenari rionali abbiamo visto nel cinema? Parecchi, perfino in quello italiano), ed anche la presenza del cagnolino Dixie non va al di là di quello che viene inscenato (non sono riuscito a vedere il cane come un collante che tiene unite queste persone dalla vita agra), e pure il finale, sebbene caruccio finanche inaspettato, non riesce a fungere da panacea.

Il film di intermezzo è un lavoro diverso dal precedente, i tre capitoli che lo costituiscono sono dotati di una difformità reciproca e di un’indipendenza da un possibile senso riunificante. Con l’assenza quasi totale della metafora è un qualcosa che si avvicina al realismo l’approccio scelto dal regista lusitano, ciò è legittimo e rientra nella versatilità a cui Gomes ci ha abituati nel corso della sua carriera. Se posso muovere una critica lo faccio mettendo a paragone O Inquieto con O Desolado, quest’ultimo rimane a mio modo di vedere alcuni gradini sotto proprio a causa di un mastice non pervenuto, la coesione assente dei vari frammenti ci restituisce un cinema sempre alto ma non fino all’Iperuranio. E ora pronti per l’ultima tappa: Incantato.

lunedì 4 aprile 2016

3some

Valencia. Ménage à trois fra tre aspiranti artisti. Giovinezza e sessualità.

Il titolo americano è molto (ma molto) più allusivo ed esplicito di quello originale (Castillos de cartón, 2009), quasi infastidisce per il modo spudorato con cui tenta di accaparrarsi l’attenzione (il termine “threesome” riporta automaticamente in territori hard) fornendo, in aggiunta, un’ulteriore strizzatina d’occhio con il numero anteposto alla parola che assomiglia di più ad un linguaggio da sms (e quindi atto a fornire un taglio “giovanile”, sortendo però un effetto deleterio, pressoché di ridicolo); sulla scelta del titolo d’esportazione il regista madrileno Salvador García Ruiz non avrà particolari colpe, di certo, almeno per il sottoscritto, l’impatto non è stato dei migliori visto che si poteva intuire ancor prima di pigiare play che un film del genere fosse talmente esile da obbligare il marketing a puntare tutto sulle parentesi erotiche (e le immagini scelte da piazzare sulla locandina sono eloquenti). In effetti il sesso ha un compito base nella storia ed è attraverso di esso che García Ruiz modella le personalità dei tre virgulti sotto esame, l’intenzione è quella di fare un film di formazione avvalendosi di un apparato lussurioso capace di segnare la crescita personale di Marcos, Jaime e Jose (senza accento, è la femmina), e se allarghiamo la visuale oltre la sfera sessuale si nota che il regista (non sceneggiatore) delinea un percorso di maturazione (ad alto tasso di prevedibilità, ma è il male minore) che culmina con lo sfaldamento del triangolo.

Sì, questi sono i piani concettuali e, se vogliamo, neanche poi malaccio sebbene in odore di Bertolucci, altro discorso è però la concretizzazione di tali mire ed è qua che cominciano i dolori, fin dall’inizio: la celerità con cui i tre finiscono a letto già durante il prologo non persuade affatto nel credere-a-quello-che-si-vede, una certa rigidità (corroborata da una patinata messa in scena non distante da qualunque prodotto televisivo, e infatti García Ruiz è attivo pressoché esclusivamente nella tv) pianta le tende e qui si stabilizza fino alla fine; l’intimità, la passione, il sentimento sono elementi monodimensionali, di una sottigliezza cronica, a cui manca come l’aria del vero e proprio pathos, e, purtroppo vista la loro centralità, ne risentono pesantemente le scene senza veli, surrogati softcore di pallida freddezza su cui viene ricamato un sottoevento che davvero sembra pescare dalla cinematografia porno: uno dei due ragazzi è impotente, mentre la ragazza non riesce a raggiungere l’orgasmo. Che coincidenza il loro incontro, allora. La prevedibilità citata prima non si attesta soltanto in ciò che accade fra le lenzuola poiché è proprio dal superamento del deficit erettivo che Marcos trova realizzazione anche nel campo artistico, la rivalsa è però preavvertibile fin dal primo coito (Jaime che copula, Marcos che guarda) e l’impressione che gli sviluppi non sarebbero stati sorprendenti trova conferma con il blando prosieguo della vicenda.

Il consiglio è quello di non cedere ai bisbigli concupiscenti della confezione, non è che non ci siano, è che sono viti arrugginite di un’impalcatura friabile, ci vuole poco che la costruzioni crolli giù come il più classico dei castelli di carta.

domenica 3 aprile 2016

Interior. Block of Flats Hallway

Si finirà con l’essere monotoni nell’asserire che la cinematografia rumena di oggi esprime in ogni suo esemplare un disagio sociale che ha radici ben piantate nella storia del paese. Così, anche da una manifestazione minore come può essere questo Interior. Scara de bloc (2007), è possibile carpire quanto e perché le cose non vanno all’interno della nazione, e di come in fondo ciò che viene raccontato qui possa essere traslato in molti altri pianerottoli del mondo. Quello di Ciprian Alexandrescu è un lavoro di stampo teatrale, una black comedy condominiale che sotto lo strato di leggerezza non disdegna delle frecciatine adibite a punzecchiare la coscienza spettatoriale: innanzitutto c’è di che insospettirsi sul fatto che un giorno qualunque un cadavere possa comparire sul ballatoio del proprio palazzo (morto, o presunto tale, fuori campo per tutta la durata del corto), in seconda battuta emerge il cinismo con cui gli abitanti dello stabile (almeno due o tre di loro già visti all’opera in altri film rumeni) si rapportano con la funerea scoperta; in realtà non sono cinici né indifferenti alla morte, bensì non ne vengono toccati (e lo si intende dalle parole del piccolo videoamatore che ammette candidamente di non avere nessuna paura di una salma), è una routine, una “normalità”, tanto che una volta smentita la supposta identità del corpo esanime i condomini si ritirano negli appartamenti raccomandandosi di non usare a sbafo il parcheggio privato.

L’inezia costitutiva del film non permette chissà quali rimandi allegorici, in fondo si tratta soltanto di un gruppetto di persone protagoniste di un breve siparietto che di certo non si ricorderà troppo a lungo, però Alexandrescu nel suo piccolo è riuscito a rimanere nella scia del cinema rumeno che proprio in quell’anno dirompeva definitivamente sugli schermi più prestigiosi con 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni, e lo ha fatto rivelandosi per quello che è: decorosa piè di pagina di un movimento che continua a sfornare prodotti in grado di aggraziarsi le giurie più prestigiose, Il caso Kerenes (2013) è l’ultimo in ordine cronologico degli esempi da ricordare.

sabato 2 aprile 2016

Forza maggiore

A coloro i quali non hanno visto nient’altro di Ruben Östlund che non sia Forza maggiore (2014), e ciò è plausibile dato che questo è l’unico suo film giunto nel Belpaese, dico subito che il regista svedese ha fatto di meglio, quel meglio è Play (2011). Perché il cinema di Östlund, forte del retaggio stilistico del connazionale Andersson, è improntato all’implosione della cosiddetta classe media attraverso un taglio sardonico e tra virgolette spietato. Un po’ come Seidl, anche lui ha sempre utilizzato i canoni dell’ironia contaminata per parametrare le miserie dell’uomo odierno posto nell’abbiente società, compassione non ce n’è mai stata, vetriolo, al contrario, in abbondanza. Però Turist (titolo originale) è due o tre passi indietro al suo più recente predecessore, senza andare a riprendere i lavori ancora precedenti perché piuttosto acerbi (ad esclusione dell’interessante corto Incident by a Bank, 2009), è Play a svettare per solidità tramica ed annessa coniugazione espositiva (uno stile nell’impasse, statico, frontale) con bersagliamento riuscito dei moderni drammi adolescenziali. Al confronto Forza maggiore perde molto di quel rigore estetico per instradarsi di più nella consuetudine visiva (è mica per questo che si è guadagnato la distribuzione italica?), ed anche sul piano tematico va incontro ad una debolezza non da poco; mi è parso, in fondo, che il progressivo inaridimento della coppia non abbia una morsa così potente, anzi parlare di morsa è troppo, si assoda perlopiù la disamina della distruzione sentimentale ma senza accenti memorabili. Tuttavia nel discorso di Östlund potrebbe esserci spazio per un ulteriore approfondimento. Potrebbe eh, perché il rischio di sovrainterpretare è concreto.

Allora, una volta archiviate le questioni maggiormente evidenti, ovvero eccoci in un luogo abbacinante per il suo candore immacolato eppure sotto l’imbiancatura emerge un sito sepolcrale, ovvero la valanga è un evento inaspettato che fortunatamente non fa riportare danni fisici eppure le conseguenze risultano comunque gravissime, e una volta annotate le inquietudini coniugali che affiorano nell’isteria vacanziera, forse non rimane esclusivamente il disgregamento relazionale. Ripeto: forse, analizzando gli step del racconto, si ravvisa un ampliamento della figurazione che va oltre la crisi di Ebba e Tomas per andare a saettare l’Uomo Benestante di oggi: diciamo borghese? Borghese, presumibilmente con un buon lavoro, prestante, culturalmente preparato, un identikit che si adagia ad hoc sul padre il quale a causa di un fatto apparentemente superfluo vede la propria esistenza deflagrare in brandelli squadernando l’incapacità di saper “dirigere” una famiglia. Tutte le figure maschili del film rappresentano l’istanza del fallimento e la preoccupante incapacità di governare il presente, ad esempio abbiamo il coniuge di un’ospite della struttura che in accordo con la compagna ha una condotta sessuale libertina, ed anche l’amico barbuto, già separato con due figli in Norvegia, è lì in vacanza con una ragazzina parecchio più giovane che, tra l’altro, gli soffia addosso il dubbio di una possibile irresponsabilità al cospetto di un’eventuale valanga. E nel finale, anticipato da un falso pre-finale che ricostruisce in maniera fittizia il puzzle consanguineo, è nuovamente un uomo coetaneo di quelli che abbiamo visto durante la proiezione ad incagliarsi col pullman nei tornanti di una tortuosa strada di montagna.

Difficile capire se negli intenti di Östlund ci sia davvero l’additamento verso quei soggetti che attualmente dovrebbero guidare la società, o se sia soltanto lungimiranza personale, se volete attenervi alle certezze qui di sicuro si vagliano i vuoti di una coppia come potremmo essere noi, l’ardore cinefilo sonnecchia, un possibile sussulto, ammessa la legittimità, è dato dall’estensione esegetica di cui sopra.

venerdì 1 aprile 2016

The Class

Bullismo in una classe estone. Si va oltre. Finisce in tragedia.

L’aura di cult che circonda Klass (2007) non verrà sminuita dalle poche righe seguenti, righe che in partenza vogliono riconoscere i meriti del regista Ilmar Raag e che successivamente si fanno semplice monito, un avvertimento sulle mancanze di un’opera apertamente grezza che punta praticamente tutto quello che ha sull’autenticità del mettere in scena un fatto di cronaca nera. È apprezzabile la preferenza di Raag nell’adoperarsi diligentemente in una ricerca di totale realismo che in effetti dà i suoi frutti: non solo le riprese traballanti frutto di tanta camera a mano conferiscono un tono di verità, ma è proprio la ricostruzione del contesto scolastico con tanto di giovani attori alle prime armi coinvolti in dinamiche verosimili (la legge del branco; l’omertà generale; l’influenza del “capo”) che ricrea una realtà credibile, uno sfondo non posticcio dove è agevole sedersi fra i banchi dell’aula e assistere impotenti alle “sottili” ma atroci angherie che Joosep deve subire.

I maltrattamenti che i membri della classe capitanati dallo sbruffone di turno compiono nei confronti della vittima rientrano nel campionario bullistico di tutte le scuole del mondo (qualche dubbio di artificiosità su ciò che accade in spiaggia) e c’è da ammettere che in questo modo la strage conclusiva ha delle premesse che dal punto di vista della coerenza sceneggiaturiale legittimano la furia omicida dei due giovani. Ad intaccare la vigorosa prestanza del film ci si mettono delle cadute di stile difficili da non notare, delle ingenuità anche puerili che partono da una discutibile colonna sonora e da un altrettanto discutibile uso che se ne fa, ma i veri inciampi si palesano in alcune scelte stilistiche che non hanno convinto per niente il sottoscritto: chissà perché Raag si intestardisce durante le scene concitate nell’uso del ralenti neanche stesse girando un vecchio western, il che ci obbliga a sopportare l’enfatizzazione di alcune sequenze (anche quella della fellatio) che subiscono un effetto inverso di quanto volevano ottenere: finisce la realtà, inizia la finzione, insieme anche a qualcosa di poco nobile come può essere il ridicolo involontario. Sembrano dettagli di poco conto, non lo sono: visto che nel crudele finale Raag continua a piazzare questi accorgimenti, ad un ripensamento post-visione emerge di come alcune opzioni di metodo inficino il raggiungimento dell’obiettivo, quella rappresentazione di un dramma giovanile che a conti fatti si rivela depotenziato da accenti espressivi che mal si coniugano con il registro generale, la tragedia, che innegabilmente c’è, è rintracciabile in molti altri film che si sono posti simili finalità, qui permane più che altro il fascino esotico della pellicola straniera.