giovedì 26 gennaio 2012

Meek's Cutoff

Oregon o zone limitrofe, 1845. Una carovana composta da tre famiglie si perde nella vastità del deserto. La loro guida, Stephen Meek, dice di conoscere una scorciatoia per arrivare alle montagne di Cascade.

Meek’s Cutoff (2010), in concorso al 67° Festival di Venezia, è un film scandito dal cigolante incedere prodotto dalle ruote dei carri sul terreno pietroso. Nessun altro rumore: il corteo che viene ripreso con un bizzarro formato quadrato è una lenta processione di uomini e animali che macinano chilometri e chilometri in mezzo alla polvere del deserto. Qui non c’è alcun spirito avventuriero, l’oro viene scartato perché, giustamente, non si può bere, e allora restano soltanto le paure che forgiano gli uomini, paura dell’altro (un indiano), paura della natura (l’inclemenza del luogo, la mancanza di acqua), paura dei propri simili (Meek lo sbruffone).

Kelly Reichardt risemantizza il genere avventura un po’ come aveva fatto con Old Joy (2006), anche qui abbiamo un’esplorazione strettamente coniugata all’ambiente muto, soverchiante, impassibile.
Il tragitto di queste persone incontra perciò la natura più spietata (cosa c’è peggio di un deserto?) a cui vuole sfuggire, ma in realtà la vera esplorazione è quella intima che porta lungo i sentieri interni dell’etica e della civiltà. Questa non è una storia di uomini che si perdono, ma una storia di uomini già persi, e lo si intende dall’inizio con quella scritta lost che non fa presagire nulla di buono.

Il deserto è dunque una metafora esistenziale, uno stato d’animo che, vista la sua sostanza, più arido di così non può essere, e di conseguenza la Guida, colei che dovrebbe condurre non solo sulla mera cartina geografica ma, sempre parallelamente, anche per vie invisibili, è un uomo privo di scrupoli – ma gli altri non sono da meno vista l’idea dell’impiccagione – che dice al piccolino del gruppo di come l’inferno sia abitato da orsi e indiani, perciò: da ciò che la natura figlia, e da ciò che non fa parte del proprio mondo per così dire civile.

Rovesciando, rimescolando e soprattutto allontanando gli stilemi del western e dintorni, la regista americana depaupera l’epopea dell’uomo bianco che si trova perciò smarrito sia fuori che dentro.
Ci vuole un nativo americano per riprendere la retta via, un uomo come loro, come tutti, ma realmente sintonizzato con il mondo che lo circonda, lontano da mete utopistiche (i discorsi dei maschi su ciò che si troverà oltre le montagne), divertito dall’inettitudine dei bianchi incapaci di portare il carro giù per il crinale della collina, commiserevole nonostante le prepotenze subite nell’invocare gli dei o chissà chi di fronte al padre malaticcio, ma soprattutto capace di ergersi a vera Guida, non colei che aiuta, ma che insegna: sebbene la strada sia ancora lunga, un albero è un buon punto di partenza.

Meek’s Cutoff con la sua tendenza a rimpicciolire, a suggerire, a rallentare, si rivela una riserva di materia prima, di cinema che fa pensare: a chi deve credere l’Uomo smarrito se non ad un proprio simile?

13 commenti:

  1. mi attira giusto per michelle williams, ma il genere western, per quanto rivisitato, non fa molto per me...

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    1. western solo nell'ambientazione e per il periodo storico. Anche io ero titubante, ma poi vedendolo ho sciolto parecchi dubbi.

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  2. Sono mesi che cerco di recuperarlo.
    L'hai trovato con il mulo?

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  3. me lo voglio vedere..in fondo amo i western..ah,hai poi visto i film di clouzot? che ne pensi?

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  4. Stavo venendo a dirtelo brazzz! L'ho visto proprio ieri sera :)
    Per quanto siano limitate le mie conoscenze cinematografiche di quel periodo, direi che mi è piaciuto. è un film epico, colossale. Sto provando a scriverci qualcosa.

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  5. bene..molto contento ti sia piaciuto..film epico mi sta bene..direi che tutti i grandi temi che possono riguardare l'animo umano sono presenti...

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  6. Cerco di recuperarlo, allora.
    Sono molto curioso.

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  7. L'ho visto ieri sera: piaciuto abbastanza nonostante alcune lentezze probabilmente inevitabili. Doveva essere proprio così: durissima la vita per le carovane che andavano verso ovest.
    Finale intelligentemente simbolico.

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  8. Per me non è solo il finale ad essere simbolico ma un po' tutto il film. Una carovana di uomini bianchi smarriti, la natura, l'indiano. C'è dell'altro sotto la superficie.

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  9. Appena finito di vedere! M'ha davvero impressionato..i protagonisti..alcuni entrano veramente nella mente dello spettatore, evocano emozioni, meek con la sua ottusità, la donna con il copricapo blu esprime la paranoia e la paura tipiche del bigotto americano medio...ecc ecc. La lentezza della storia non si fa odiare, anzi, esprime la lentezza della vita dei personaggi in questione, in cui un giorno sembra una settimana. Il personaggio interpretato dalla Williams è quello più sfacciato, quello che ha intravisto le emozioni dello sconosciuto e tanto temuto indiano, solo, vagabondo e incomprensibile (ma solo nel linguaggio parlato). Sapevo che questa regista m'avrebbe dato soddisfazioni.
    Adesso purtroppo dovrò vedere Old joy con sottotitoli in inglese..peccato..spero solo non abbia problemi a comprendere alcune frasi..

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  10. Che bello sentire questi commenti a caldo! Le tue parole mi hanno fatto riaffiorare le immagini del film come dei veloci flash.

    Su Old Joy non ti preoccupare, il film dura poco ed è verbalmente molto asciutto. Qualche ostacolino c'è in un monologo verso la fine che è molto importante e allo stesso tempo leggermente ostico. Io le parole che non conosco me le appunto e poi vado a tradurmele, o se no guardo una prima volta e poi una seconda stoppando e traducendo simultaneamente con google.

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