C’è voluta una terrificante eruzione nel 1992 per far spostare buona parte degli Aeta, popolazione indigena delle filippine che ha vissuto principalmente sulle montagne dell’isola Luzon, nelle zone pianeggianti di Pampanga e aprirsi così al mondo esterno. La prima positiva conseguenza è stata che finalmente i bambini sono potuti andare a scuola, la seconda che una volta alfabetizzati essi hanno trasmesso i rudimenti delle loro conoscenze ai più anziani della comunità.
Che Brillante Mendoza ci parli di quello che vede era già chiaro nei due film precedenti dove si potevano rintracciare almeno due elementi radicati nel suo credo: la povertà e la tradizione, Manoro (2006) opera terza del prolifico regista filippino, riacciuffa suddette componenti ma lo fa da un altro angolo di visuale che, parer mio, si presta discretamente bene per l’intento.
Niente è meglio del documentario per… documentare, e infatti lo stato di povertà che qui ci viene proposto è per forza di cose più tagliente di quello di The Masseur (2005, anche se qui la miseria era solo un aspetto secondario) poiché vediamo gente scalza o che al massimo utilizza delle sgualcite infradito per camminare con il rischio di pestare qualche cacca extra large, e più in generale uno squallore e una desolazione tale da chiedersi com’è possibile che ci sia ancora gente che vive in condizioni del genere. Ma è nei ceti così bassi che l’uomo trova comunque le risorse per andare avanti, e ad un occhio occidentale come il nostro le componenti etnografiche risaltano e affascinano ancora di più. Ma tranquilli, niente a che vedere con gli inutili intermezzi del contemporaneo Kaleldo.
Nonostante il prologo denunci una situazione desolante, Manoro non ha come unico obiettivo quello di ritrarre la realtà, infatti una buona fetta di proiezione si immerge nel naturalistico seguendo passo dopo passo la figlia ed il padre nel loro cammino. Le terre non conoscono civilizzazione se non pochi bambini che sguazzano in un laghetto, e il tragitto, che piacerebbe molto a Weerasethakul con quella foresta labirintica, si conclude in un’atmosfera quasi magica con i canti tradizionali di un gruppo di contadini.
È una parentesi (bella grande, più o meno mezz’ora su un’ora di proiezione), perché abbandonati gli scenari incantevoli e rattristanti dell’entroterra, Mendoza segue la sua maestrina nel luogo che diventa architrave concettuale del film: il seggio elettorale. D’altronde viene anticipato nelle scritte pre-visione che la lotta contro l’ignoranza continua…
Documentario spurio, non tutto è lasciato al normale fluire delle cose, anzi la vicenda del nonno è un’intensificazione della realtà in stile herzoghiano, Manoro penzola con qualche incertezza tra due argini: quello sociale in cui povertà e analfabetismo sostanziano la vita del villaggio, e quello culturale dove le tradizioni si fondono ai riti burocrati del voto, meno ammalianti per noi ma decisamente più utili per loro.
Che Brillante Mendoza ci parli di quello che vede era già chiaro nei due film precedenti dove si potevano rintracciare almeno due elementi radicati nel suo credo: la povertà e la tradizione, Manoro (2006) opera terza del prolifico regista filippino, riacciuffa suddette componenti ma lo fa da un altro angolo di visuale che, parer mio, si presta discretamente bene per l’intento.
Niente è meglio del documentario per… documentare, e infatti lo stato di povertà che qui ci viene proposto è per forza di cose più tagliente di quello di The Masseur (2005, anche se qui la miseria era solo un aspetto secondario) poiché vediamo gente scalza o che al massimo utilizza delle sgualcite infradito per camminare con il rischio di pestare qualche cacca extra large, e più in generale uno squallore e una desolazione tale da chiedersi com’è possibile che ci sia ancora gente che vive in condizioni del genere. Ma è nei ceti così bassi che l’uomo trova comunque le risorse per andare avanti, e ad un occhio occidentale come il nostro le componenti etnografiche risaltano e affascinano ancora di più. Ma tranquilli, niente a che vedere con gli inutili intermezzi del contemporaneo Kaleldo.
Nonostante il prologo denunci una situazione desolante, Manoro non ha come unico obiettivo quello di ritrarre la realtà, infatti una buona fetta di proiezione si immerge nel naturalistico seguendo passo dopo passo la figlia ed il padre nel loro cammino. Le terre non conoscono civilizzazione se non pochi bambini che sguazzano in un laghetto, e il tragitto, che piacerebbe molto a Weerasethakul con quella foresta labirintica, si conclude in un’atmosfera quasi magica con i canti tradizionali di un gruppo di contadini.
È una parentesi (bella grande, più o meno mezz’ora su un’ora di proiezione), perché abbandonati gli scenari incantevoli e rattristanti dell’entroterra, Mendoza segue la sua maestrina nel luogo che diventa architrave concettuale del film: il seggio elettorale. D’altronde viene anticipato nelle scritte pre-visione che la lotta contro l’ignoranza continua…
Documentario spurio, non tutto è lasciato al normale fluire delle cose, anzi la vicenda del nonno è un’intensificazione della realtà in stile herzoghiano, Manoro penzola con qualche incertezza tra due argini: quello sociale in cui povertà e analfabetismo sostanziano la vita del villaggio, e quello culturale dove le tradizioni si fondono ai riti burocrati del voto, meno ammalianti per noi ma decisamente più utili per loro.
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