È difficile commentare le parole del signor Silvano perché dice ciò che è indicibile e perciò incomprensibile per chi quelle cose non le ha viste. Cioni fin dall’inizio ci mette in guardia con le inferriate dell’ospedale, attenzione: ora ascolteremo una storia di sbarre, di prigionia, di un carcere che si è protratto ben oltre i cancelli di Mauthausen, la deportazione, la detenzione, sono come un virus dormiente che a distanza di lustri è ancora capace di far piangere un anziano che a quell’età dovrebbe solo pensare a godersi i nipotini. No, non si può proprio aggiungere alcunché di fronte ad un blob di tale immane dolore, l’afonia, la stessa degli studenti attoniti intorno a Silvano, è l’unica forma di risposta possibile. Ciò fa riflettere sulla potenza insita nel racconto verbale che può prescindere dalle immagini, non dico che è come vedere quegli uomini e quelle donne inzaccherate dai loro liquami dentro le camere a gas, ma ci manca davvero poco, e se un documentario sa innestare nella narrazione in prima persona delle aperture ulteriori, tipo filmati d’archivio o l’inserimento di uno specifico corredo musicale, allora la proiezione sale di intensità e noi comprendiamo di essere nel posto giusto.
Ma l’aspetto denso e pregno di Dal ritorno si nasconde nel fuorviante titolo, è troppo banale, infatti, considerare il rientro in Italia di Silvano quale nostos omerico. In realtà il ritorno non è verso casa, è una roba che vola molto in alto e che Cioni pizzica attraverso corde esistenziali di commovente bellezza. Il ritorno è la cronaca di un viaggio, l’ultimo, mai compiuto fisicamente da Silvano, sebbene comunque uno spostamento avvenga. È un tragitto spirituale dove l’occhio di Cioni si fa occhio di Lippi e il sopravvissuto al lager, in buona sostanza, vi fa nuovamente visita, non con il corpo ma in veste fantasmatica, e osserva, fluttua, si sofferma, scruta, levita tra le pareti scrostate di quel luogo maledetto. È la chiusura di un cerchio, è un commiato alla vita nella culla della morte per intercessione di Cioni, con la discrezione ed il rispetto che tratteggiano il regista. E dopo non rimane nient’altro, solo ricordi, ora vivi, ora sbiaditi, e un campo di fiori rossi.