domenica 13 marzo 2022

Dal ritorno

Piace pensare sempre che possa esserci un filo invisibile a collegare le opere di un autore, perché far sì che una certa concettualità si riproponga aumenta il grado di confidenza con lo spettatore, così è quasi, anzi: senza quasi, bello partire da Per Ulisse (2013) per arrivare a Dal ritorno (2015), d’altronde non c’è altra figura mitico-letteraria quale è Odisseo che compie un ritorno per antonomasia, e quindi il “nostro” viaggiatore con cui facciamo conoscenza si chiama Silvano Lippi, un uomo che, semplicemente, ha visto l’orrore più profondo e oscuro che l’essere umano del ventesimo secolo ha potuto vedere, e dopo anni e anni di silenzio ha deciso siglare il suo testamento orale davanti alla videocamera di Giovanni Cioni. Di questo regista nato a Parigi stupisce la facilità che ha nel connettersi con i soggetti che riprende, tra le righe si intuisce che il suo lavoro è soprattutto relazionale, è un percorso fatto di incontri, di discorsi, magari, ora esagero, anche di amicizia, ed un lato così sincero in un cinema che, come il resto dell’arte, ha l’indispensabile necessità di credere in un humanitas, è un vero piacere da ammirare, e lo è a tal punto che si può bypassare qualche passaggio non perfettamente rifinito perché anche i dettagli leggermente più grezzi rientrano in quell’insieme di profusa franchezza che caratterizza Dal ritorno, nonché in generale la visione che ha Cioni della materia che tratta.

È difficile commentare le parole del signor Silvano perché dice ciò che è indicibile e perciò incomprensibile per chi quelle cose non le ha viste. Cioni fin dall’inizio ci mette in guardia con le inferriate dell’ospedale, attenzione: ora ascolteremo una storia di sbarre, di prigionia, di un carcere che si è protratto ben oltre i cancelli di Mauthausen, la deportazione, la detenzione, sono come un virus dormiente che a distanza di lustri è ancora capace di far piangere un anziano che a quell’età dovrebbe solo pensare a godersi i nipotini. No, non si può proprio aggiungere alcunché di fronte ad un blob di tale immane dolore, l’afonia, la stessa degli studenti attoniti intorno a Silvano, è l’unica forma di risposta possibile. Ciò fa riflettere sulla potenza insita nel racconto verbale che può prescindere dalle immagini, non dico che è come vedere quegli uomini e quelle donne inzaccherate dai loro liquami dentro le camere a gas, ma ci manca davvero poco, e se un documentario sa innestare nella narrazione in prima persona delle aperture ulteriori, tipo filmati d’archivio o l’inserimento di uno specifico corredo musicale, allora la proiezione sale di intensità e noi comprendiamo di essere nel posto giusto.

Ma l’aspetto denso e pregno di Dal ritorno si nasconde nel fuorviante titolo, è troppo banale, infatti, considerare il rientro in Italia di Silvano quale nostos omerico. In realtà il ritorno non è verso casa, è una roba che vola molto in alto e che Cioni pizzica attraverso corde esistenziali di commovente bellezza. Il ritorno è la cronaca di un viaggio, l’ultimo, mai compiuto fisicamente da Silvano, sebbene comunque uno spostamento avvenga. È un tragitto spirituale dove l’occhio di Cioni si fa occhio di Lippi e il sopravvissuto al lager, in buona sostanza, vi fa nuovamente visita, non con il corpo ma in veste fantasmatica, e osserva, fluttua, si sofferma, scruta, levita tra le pareti scrostate di quel luogo maledetto. È la chiusura di un cerchio, è un commiato alla vita nella culla della morte per intercessione di Cioni, con la discrezione ed il rispetto che tratteggiano il regista. E dopo non rimane nient’altro, solo ricordi, ora vivi, ora sbiaditi, e un campo di fiori rossi.

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