Mi chiedo come sia possibile che Kim Ki-duk non capisca di quanto il nuovo corso da lui intrapreso sia
robetta alla stregua dei suoi film giovanili, ma almeno lì,
sebbene si trattasse di oggetti più rudimentali, verdi,
improvvisati, c’era un che di vitale, un qualcosa che aveva
un’anima, adesso, da Arirang (2011) in poi, l’encefalogramma
si è fatto piatto, anzi: è in perenne picchiata, tanto da poter affermare che ad ogni sua uscita artistica l’idea, poi
prontamente smentita dal titolo successivo, è che non si possa
far peggio di così. Non so e non voglio nemmeno pensare troppo
se One on One (2014), altro lavoro spinto a Venezia dove
evidentemente Kim è bene ammanigliato, sia meglio oppure
no di Moebius (2013), è comunque una sfida al ribasso e
solo che stare a rimuginarci sopra appare un’inutile perdita di tempo.
Personalmente, tenendo a mente la discutibilità dei
gusti personali, il mio sentire è ormai lontano ere ed ere dalla proposta del sudcoreano, direi che in sintesi non condivido nessuna delle sue
scelte a partire dall’uso del digitale che se viene impiegato come
l’analogico allora perde di senso e ci restituisce un’immagine
dozzinale, chiaro che dietro una tale estetica ci siano motivazioni
economiche (e si vede che non ci sono soldi, la tizia della banda
ha sulla spalla uno scorpione fatto con un trasferello!) ma noi cosa
ne possiamo? Se l’alcova della gang sembra il set di un b-movie o
di un porno se ne prende atto consci che la prossima volta ci si
penserà due volte ad avventurarsi in un film di Kim Ki-duk.
Tralasciando la resa
formale anche la componente argomentativa non brilla per
eccezionalità, ma proprio per niente: tutto questo pasticciato
discorso su chi impartisce e su chi esegue gli ordini, sul potere, e
sulla violenza da esso derivante è di una sterilità che
bisogna vederlo per crederci. Se vi erano dei richiami politici,
questioni che il Kim di un tempo sapeva trattare dignitosamente: The Coast Guard (2002), si sfaldano progressivamente denudando il vero
nucleo di One on One che è, per la milionesima volta
nel cinema orientale, una storia di vendetta personale, il che ci
riporta forzatamente al recente Pietà (2012), altro
film che aveva nei binari vendicativi la propria capacità
deambulatoria. Nell’insieme l’impressione che ha colpito chi
scrive è che manchi una componente fondamentale per fare
cinema: la professionalità, ed è strano perché
parliamo di un autore con una ventina di pellicole alle spalle, ma se non
sapessi niente di faccende extrafilmiche e venissi sottoposto alla
visione di One on One azzarderei la possibilità di avere a che fare con un regista
proveniente dalla tv o con un semi-esordiente. Probabilmente il
periodo di afasia creativa che colpì Kim dopo Dream
(2008) si sta ripercuotendo adesso con un tentativo che quasi fa
tenerezza di tornare ai bei tempi andati girando a ritmi vertiginosi
(ad esempio IMDb ci informa che questo film è stato fatto in
soli dieci giorni e che la sceneggiatura è stata scritta in
itinere), i tempi però cambiano e con loro le persone, non
so neanche se ora, nel 2016, apprezzerei tutto quel simbolismo che
permeava il suo momento d’oro, ma di un fatto sono sicuro:
l’approssimazione generale condita da un’aridità tematica
non le avrei accettate nemmeno dieci anni fa.