martedì 29 marzo 2016

Ancha es Castilla/N'importe quoi

Chi ha visto Finisterrae (2010) sa molto bene che una delle componenti principali del film era quella di smascherare il proprio nucleo, in ogni frangente Caballero non smetteva mai di ricordarci che quelli in scena non erano due fantasmi, che la loro ectoplasmicità rimaneva in un immaginario del tutto aleatorio, lì vedevamo il concreto, quello che c’era sotto (il lenzuolo: i piedi!), non solo anatomicamente parlando, ma anche emotivamente: i due fantasmi provavano sensazioni a tutto tondo. In sostanza la tendenza di Finisterrae a togliere il velo della macchinazione è la stessa che sottende Ancha es Castilla/N'importe quoi (2014), anzi se nel lungometraggio del 2010 oltre all’intento para-teorico c’erano delle parentesi (diciamo) meditative, in questo cortometraggio Caballero è esclusivamente impegnato a farci vedere i pezzi che compongono il suo giochino. La voluta e ricercata esposizione dello spirito artigianale che  permea l’opera non lesina acutezze davvero ingegnose, e quindi sì al design dei personaggi-burattini, (implementato anche dalla loro straniante presenza in larga scala), strasì poi alla corrente autoironica che fidelizza (la battuta su Wikileaks sottolineata dalle risate finte; le cicche gettate dal vicino di sotto), e sì sopra ad ogni altra riflessione allo spirito anarchico che impregna il corto, non so se si possa parlare di “libertà creativa” ma di sicuro, a fine visione, è doveroso rendere a Caballero i meriti di un oggetto dalla traiettoria sghemba e improbabile, un balocco che cita e che scappa via, un’eventualità artistica che rimbalza da un’oscurità dove gli sgorbi della Troma invocano l’avvento del dio Švankmajer.

Ma c’è dell’altro che accomuna Finisterrae e Ancha…: è una faccenda che esula dal giudizio in sé del film ma che comunque ne potrebbe (e per quanto mi riguarda lo fa) intaccarne il valore. Sergio Caballero, catalano di Barcelona, non è un regista convenzionale: lui non è un regista, è piuttosto un’artista cross-mediale (?) che ha come propria fucina dell’estro il Sónar, Festival di musica elettronica che si tiene ogni anno verso giugno di cui Caballero è fondatore e attuale organizzatore. Ora, a leggere le parole di Caballero (link) i suoi lavori di regia non sarebbero altro che delle propaggini della kermesse festivaliera a testimonianza dell’apertura e dell’interscambiabilità artistica che attraversa tale evento. Sicuramente è così. Però, ahimè, l’orgoglio cinefilo è spinto all’insurrezione perché accettare l’ombra del Sónar su Ancha…, come sugli altri due (idem per La distancia [2014]), significa accettare la vera natura dei suddetti film, che è quella di essere un Prodotto. Non c’è traccia di cinema all’interno, c’è solo l’esteriorità della patina che ha la funzione di farsi un veicolo di comunicazione. La coppia di fantasmi, la famiglia di mostri, il trio di nani, diventano aridi mezzi per la mercificazione del Festival che finiscono stampati su locandine, flyer e quant’altro. In questo modo, a mio avviso, anche quella carica piacevolmente indisciplinata citata nel primo paragrafo si infossa, si riduce per far posto all’export. Il valore creativo si prostituisce e la memoria eidetica rischia di doversi abbeverare alla fonte più putrescente: quella della pubblicità.

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