venerdì 25 marzo 2016

Crespià

Se cercavate l’intransigenza stilistica e l’azione smitizzante di Honour of the Knights (2006), Birdsong (2008) o Story of My Death (2013), con Crespià (2003) non troverete niente di tutto ciò. Non che il primo film di Albert Serra sia un prodotto routinario perché come vedremo è di una singolarità pressoché unica, di certo però le strepitose atmosfere delle opere successive qui latitano che è un piacere, ci troviamo al nadir di esse, niente fotografia lucente in bianco e nero, niente dilatazione delle riprese, niente istantanee da incorniciare nella memoria, al contrario: colore, sciatteria, confusione. Sicuramente le ristrettezze finanziare hanno pesato sulla realizzazione del film tanto che, mi permetto di dire, Crespià in tali frangenti non si discosta poi troppo da una produzione amatoriale (ad un certo punto si vede chiaramente l’operatore riflesso nel vetro di un’automobile: probabile svista e non dettaglio vontrieriano voluto), e questa dimensione non esattamente professionale si deve anche al fatto che Serra decide di insinuarsi nell’eterna diatriba documentario/fiction creando un incrocio che da una parte si occupa della poco interessante vita di Crespià, piccolissimo comune spagnolo situato in provincia di Girona citato anche ne El somni (2008) e poco distante da Banyoles, luogo natale di Serra, e dall’altra sceglie di sperimentare spargendo delle improvvise e strambe parentesi musicali che sono tanto divertenti quanto incomprensibili nella veduta d’insieme.

Onestamente è difficile capire il perché di una pellicola del genere, in una dichiarazione a questo sito (link) Serra afferma che una volta individuata la location capì subito che il film in procinto di girare sarebbe stata la sua versione di Grasso è bello (1988) o di Cry-Baby (1990). Non avendo visto i film-musical di Waters evito di avventurarmi in paragoni alla cieca, tuttavia chiunque di fronte a Crespià storcerebbe il naso a causa di una vacuità che oscilla tra il futile ed il frivolo, un’assenza di direzione che lo lascia seduto a crogiolarsi nei suoi estemporanei siparietti popolati di macchioline umane, talmente slegato ed episodico da risultare faticoso sebbene spalmato su neanche ottanta minuti di durata, così minuto e autoctono da far pensare più ad uno sghiribizzo personale di Serra che ad un progetto pensato per il pubblico, una (sotto)specie di Our Beloved Month of August (2008) privo di seconda parte e soprattutto privo di un impianto teorico in grado di sorreggerlo.

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