venerdì 31 marzo 2023

Versailles

Sebbene più recente, al sottoscritto Bad Bunny (2017) era parsa ben poca cosa, adesso che è appena terminata la visione di Versailles (2013) non è che l’opinione generale sia tanto diversa, oddio, forse ci sono dei punti in cui ho maggiormente apprezzato questo lavoro di Carlos Conceição, resta però il fatto che si è parecchio lontani da un pieno appagamento. Ad ogni modo, per chi fosse interessato, la situazione è la seguente: un ragazzino e una signora inferma si spostano in un casolare isolato vicino al mare, qui il regista portoghese instilla pian piano quale possa essere il motivo di tale solitario trasferimento del duo, la somministrazione di informazioni è limitata ma la si apprende con agilità, si veda lo svuotamento dello zaino da parte di Miguel con ripresa in primo piano delle medicine e delle corde, o la domanda che la donna pone al suo interlocutore: “farai ciò che ti ho chiesto?”. Non bisogna essere degli scienziati per intuire, già prima dell’arrivo del finale, che la ragione di tutto è una sorta di eutanasia assistita. Il rapporto che sussiste tra i due non è chiaro (sono nonna e nipote?), è chiaro invece lo stato di infermità più mentale che fisica accusato dall’anziana, Conceição ci gioca sopra attraverso il titolo dato al corto, non c’è ovviamente nessuna reggia sfarzosa nel concreto, se non quella che si staglia tra le ombre nella testa della co-protagonista.

Il cortometraggio si focalizza sul ragazzo, è essenzialmente l’esposizione del suo comportamento in relazione ad un evento funereo che in qualche maniera aleggia nella casupola. I segnali di un certo scompenso emotivo, di insicurezza (il dietrofront conclusivo), di nervosismo (l’episodio della minestra), di impotenza (… al cospetto del mare) e via dicendo, sono narrativamente di poco conto, non colpiscono, non emergono dall’orizzontalità. La scena che davvero ho trovato superflua riguarda la passeggiata nel bosco dove Miguel si trova faccia a faccia con un eros in contrapposizione agli impulsi antitetici che vive nel cottage, tocca ripetermi: è poca cosa, come fa un cinema che vorrebbe avere la C maiuscola ad esprimersi per mezzo di immagini così dirette o al limite sottilmente celate da un velo autoriale? In che modo allora la sua tesi arriva agli occhi dello spettatore? Ecco, le risposte, scontate, pesano sul giudizio globale, e io, che sono sempre abbastanza cauto nel pronunciarmi sull’operato di un regista perché da una tastiera è facile sparare sentenze senza avere minimamente idea delle dinamiche che portano alla realizzazione di un film e di come il suddetto film si incastra in una filmografia che è figlia di studi/esperienze del regista stesso, mi limito ad annotare: due corti di Conceição visti ed entrambi non hanno soddisfatto i miei bisogni, ad oggi, della contemporanea ondata lusitana, lui è il mio personale fanalino di coda.

lunedì 27 marzo 2023

Jesus Shows You the Way to the Highway

Che film è Jesus Shows You the Way to the Highway (2019)? È un film al 100% coerente con il percorso artistico intrapreso da Miguel Llansó, sia Crumbs (2015) che il corto Chigger Ale (2013) delineano insieme alla sua ultima fatica un insieme di tratti distintivi per cui si potrebbe parlare di autorialità sebbene il cinema proposto dal regista spagnolo sia in teoria molto lontano dal rigore e dalla raffinatezza che solitamente si attribuisce a questa etichetta. Siamo infatti in territori decisamente low-budget, sorta di grindhouse 2 o 3.0, oggetti rustici ma autoironici e soprattutto dotati di una grande consapevolezza, quella di sapere di essere così, non belli ma comunque belli, calderoni che rimestano gli ingredienti di una contemporaneità che non smette mai di essere attuale. Anche in Jesus Shows... c’è la genesi di un eroe (sempre impersonato dal cifotico Daniel Tadesse) ma qui si spinge meno sulla sua capacità di influenzare gli eventi visto che lui ne è inesorabilmente una vittima, il che lo mostra ai nostri occhi oltre che simpatico anche più umano in un mondo pazzoide dove non si capisce chi o che cosa sia l’umanità, ma a proposito del mondo inscenato da Llansó: è evidente, a ’sto punto, la seduzione che subisce da scenari para-distopici, il set per lui è un luogo dove riversare le proprie manie fantascientifiche e così abbiamo un’Estonia che sembra l’America, ma l’America di un domani pensato cinquant’anni fa. L’aria nostalgica, retrofuturistica, sgangherata e anarchica ben si sposa con la traccia da guerra fredda che funge da scheletro alla storia, la contrapposizione tra la CIA e un diabolico Stalin (ma con scarpa Nike!) è un po’ l’ancoraggio a cui aggrapparsi perché divide apparentemente i buoni dai cattivi, è però un’illusione visto che ci vuole un attimo ad essere trascinati via dall’impetuoso e inessenziale fluire filmico.

Rispetto a Crumbs viene meno la desacralizzazione degli idoli odierni, sì abbiamo un Batman africano, Batfro (eh eh), però è parso al sottoscritto che la smitizzazione sia stata maggiormente compiuta in relazione ai possibili generi cinematografici che la pellicola, bellamente, percula. Il grosso lo si muove verso l’area delle spy-story che per Llansó si tramuta in uno spassoso teatrino di fantocci in stop-motion o in soluzioni geniali tipo il lancio col paracadute alla James Bond, non di meno anche un classico della sci-fi come i viaggi in universi paralleli si becca una bella disarticolazione che rende il tutto parecchio confuso ma altrettanto divertente. Parliamo di una realtà virtuale da Commodore 64 o al massimo da picchiaduro in 2D, eppure la narrazione arriva ad amabili contorsioni che suggeriscono, per me, di accantonare la razionalità per godersi le trovate che Llansó sciorina minuto dopo minuto. La progressione si fa concitata con la detenzione dell’agente Gagano in Betta Etiopia (non chiedetemi il senso di quel “Betta”...), la matassa che gira intorno al super sistema Psychobook si aggroviglia in un intrigo dove il doppio gioco è di casa (il collega Palmer, alla fine, da che parte sta?) e dove Llansó si scatena buttando nella mischia personaggi improbabili e perciò alquanto spassosi (il trio karateka; Mr. Sophistication [è mica un omaggio a von Trier?]; due mosconi antropomorfi), una via di fuga, dopo il dispiegarsi dell’ambaradan, viene trovata in una figura cristologica (è il fratello Guillermo Llansó, già visto in Perro Líquen, 2012), le modalità con cui si introduce Roy Mascarone/Gesù Cristo sono un filo approssimative ma non andrei a spaccare il capello, il twist narrativo (ovvero: quello che stiamo vivendo è falso, siamo in Massachusetts e tra poco ci sveglieremo dall’esperimento) è fin troppo banale in un clima generale che di banale non ha proprio nulla, in altri contesti lo avrei additato, qui l’ho accolto quasi con piacere.

Piccola nota: nella versione da me visionata di Jesus Shows You the Way to the Highway i dialoghi sono stati doppiati in inglese nonostante mi sia parso dal labiale che praticamente tutti gli attori recitassero in tale lingua. È un’esigenza commerciale per il pubblico anglofilo oppure rientra nella ricercata aura vintage del film visto che un tempo venivano presi accorgimenti simili? Se qualcuno sa, dica.

martedì 21 marzo 2023

San Martino

Cronache dalla montagna, precisamente la Val Camonica, crogiolo in cui si fondono storie del passato e del presente, canzoni dialettali, lampade ad olio, case senza tetto, uomini che non hanno mai visto il mare o un treno, défilé di processionarie, santi motorizzati. Silvia Poeta Paccati, bergamasca classe 1982, rammenda questo molteplice intreccio di narrazioni esattamente come l’anziana donna fa per il mantello del nipotino. San Martino (2012), pur essendo un esordio (o magari proprio per quello, all’inizio noto che spesso i debuttanti tendono ad abbondare piuttosto che a sottrarre) è davvero molte cose, alcune delle quali mi risultano addirittura difficili da fotografare, però so di certo cosa non è: non è un documentario italiano d’ambientazione agreste che guarda a Frammartino e quindi non si rintraccia una contemplazione ambientale né una correlata mono-estetizzazione del girato. Anzi, la filmmaker, nei limiti produttivi, dà una veste al proprio lavoro abbastanza variegata, qualche diversificazione della resa video (suddivisione in quadrati; cambio della tessitura digitale) si accompagna ad un lungo discorso che rimbalza di voce in voce, la peculiarità che concerne pressoché tutti i soggetti ripresi è che le parole pronunciate sono state poi inserite sulle sequenze a mo’ di commento off, ciò trasmette un’atmosfera, una dimensione che riesce a superare di gran lunga la mera illustrazione. Uno dei pregi di un piccolo film come San Martino sta nel saper andare al di là dei racconti che si affastellano per instillare gocce del Grande Racconto che riguarda ogni essere vivente sulla Terra.

Sì perché l’opera si pone costantemente in un dialogo serrato con il passato, non credo di sbagliare affermando che gli abitanti dei paesini colti nel loro essere lì, in quel momento, in quell’istante così concreto ed anche così etereo da non farli sembrare nemmeno più , ragionino, senza esclusioni, sul rapporto tra se stessi e un prima che va da pochi anni (l’arrivo della luce elettrica verso il ’57) a centinaia e centinaia di secoli addietro (la creazione dei sentieri da parte degli animali selvatici), c’è della polvere depositata in queste memorie fatte di oralità e folklore, di tradizioni dalle radici perdute (l’origine dei soprannomi), di ricordi grattati via dall’infanzia, e Poeta Paccati, tale polvere, la soffia in aria trasformandola in un magico pulviscolo sospeso dove i frammenti aurei di esistenze impercettibili, tipo la vita dell’ultimo carrettiere rimasto, tipo la mia vita, o la tua, contengono il risuonare dell’infinito. San Martino è infatti, se lo si vuole, un’eco che diffonde ulteriori echi, è una casa antichissima che accoglie le anime di passaggio che transitano al suo interno, è un museo contro-analogico dove tra gli oggetti in esposizione si diffonde un vento caldo e avvolgente, il vento del tempo.

domenica 12 marzo 2023

In the Traveler’s Heart

Più che di un viaggiatore il cuore nel quale sostiamo per milleduecento secondi potrebbe appartenere ad un esploratore. Il condizionale è obbligatorio, dobbiamo cercare di domare un altro esemplare partorito dalla scoppiettante mente del duo Gustavo Jahn - Melissa Dullius e quindi niente, ma davvero niente, è certo. In the Traveler’s Heart (2013), commissionato dal Contemporary Art Centre di Vilnius, offre un possibile appiglio nei primi minuti dove la mdp, con l’obiettivo puntato sul mare, in prossimità della battigia alza la traiettoria visiva per riprendere una figura in piedi sulla collina, subito dopo la scena si ripete identica ma la figura umana è sparita. I registi battono parecchio sulla coesistenza di due (definiamoli) esploratori (anche se il loro outfit li pone a metà strada tra l’essere un cowboy e un templare), interpretati dagli autori stessi, che si sfiorano lungo un cammino desolato, spoglio, fatto di neve e alberi. L’idea che seduce, ma che va presa giusto come un’ipotesi, è che in realtà i due siano la medesima persona scissa per motivazioni che non è dato sapere, prova ne sarebbe la stella che portano sul petto, una nera e l’altra bianca a mo’ di yin e yang, e nel momento in cui si ricongiungono un evento accade: nasce un fiore, si pianta una bandiera. Il viaggiatore ha raggiunto la meta.

Paragonando In the Traveler’s Heart con le altre due opere della coppia brasiliana, ovvero Cat Effekt (2011) e Muito Romântico (2016), manca quel discorso concettuale intorno alla settima arte, la ragione principe sarà probabilmente dovuta al minor minutaggio, ma non solo a mio avviso: ok che l’impronta estetica è molto simile ai lungometraggi appena citati (e giù di pellicola scorticata, decolorata, retrò), però l’attenzione che Jahn e Dullius pongono pare volgersi verso il loro riflesso artistico, il film lo si vive più come una perfomance di Gustavo e Melissa che una manifestazione (autoriale, sperimentale o non so neanche io cosa) di cinema. È sterile onanismo? È altezzosità bohémien? Uff, discorso che mi coglie impreparato e che mi piacerebbe, se i blog fossero ancora uno spazio di confronto e non un monologo disperso nelle pieghe della Rete, venisse approfondito perché la ricerca, in ogni disciplina, è tutto, bisognerebbe solo tentare di capire dove sta, e se esiste, un confine tra studio e arroganza, dal canto mio dico che comunque, seppur circondato dall’astrattezza totale, il senso di smarrimento, di turbamento, di vuoto della donna l’ho sentito.

martedì 7 marzo 2023

Dio delle Zecche: Storia di Danilo Dolci in Sicilia

Un uomo parla, pacifico, l’accento assente, un girocollo nero, dei libri sullo sfondo. L’immagine, al pari di altre che compariranno, è di repertorio e quell’uomo che racconta di un pescatore e della moglie che è una regina, si chiama Danilo Dolci. Per ripercorrere, per ritornare, per riallacciare uno dei tanti fili che disegnano dei cerchi esistenziali, Leandro Picarella e Giovanni Rosa si servono di un alfiere che è sangue del sangue di Dolci, En (“uno” in svedese, il più piccolo dei suoi figli), un ragazzo che torna in Sicilia nelle strade in cui il padre è arrivato quando nel dopoguerra non c’era niente se non una miseria abissale testimoniata da straordinari filmati d’archivio qui alternati alle riprese del presente. Dio delle Zecche: Storia di Danilo Dolci in Sicilia (2014) è quindi un documentario dal cuore diviso in due: è biografico, almeno lo è nei riguardi della cospicua porzione di vita che Dolci ha passato in terra sicula, ed è divulgativo ma in un senso che trasuda umanità perché è di questo che si occupa: di un umanista, di uno che gli spagnoli definirebbero hombre vertical, un pioniere, uno che sicuramente ha avuto coraggio: andare laggiù, tra gli ultimi, dandosi agli altri in uno slancio altruista che l’intervistato Goffredo Fofi definisce “cristianesimo sociale”, e fare coesione, parlando con gli adulti, ascoltando i bambini, sfidando lo Stato (ecco un’altra pagina squisitamente italiana: venire processati per cercare di rimettere in sesto una strada comunale) e la mafia. E il sottoscritto non sapeva nulla di tutto ciò prima di visionare Dio delle Zecche, non avevo mai intercettato il nome di Dolci né avevo mai sentito parlare del suo operato, sicché mi sento di ringraziare a prescindere di ogni giudizio qualitativo Picarella & Rosa, il cinema può essere una splendida superficie rifrangente che ci illumina di raggi sconosciuti.

Per iperbole mi sento di affermare che Dio delle Zecche è superiore al film successivo di Picarella sebbene sono fondamentalmente conscio che non lo sia, però Triokala (2015) a causa di una tendenza a ricalcare certi paradigmi che hanno ormai costituito un canone prettamente italico (ambientazione bucolica; folklore; dialetti; labilità del confine reatà/finzione) mi è parso paradossalmente meno “vero” rispetto al ritratto su Dolci, o forse dovrei dire meno “sentito”, il che è anche comprensibile visto il carotaggio emotivo che viene effettuato, l’idea del figlio che parte dalla fredda Stoccolma per dirigersi a sud sulle tracce del papà, la commozione e il silenzio, sono a mio avviso segnali concreti di come i due registi abbiano ben esposto il legame tra Danilo ed En che, attraverso una filigrana di non detto, suggerisce di quanto il secondo abbia fame di conoscenza (e affetto) nei confronti del primo. Ma è in generale la cornice etno-antropologica a convincere, i già citati intermezzi in bianco a nero sono un ottimo rimpallo con la contemporaneità e ambedue le istanze temporali certificano l’importanza di un ulteriore legame che ha protagonista Dolci: quello con le persone che ha incontrato, dai collaboratori stretti agli umili abitanti di Trappeto e Partinico, ed è quindi l’assenza, con la sua implacabile nostalgia, che pian piano fa capolino, e certo il signor Dolci mancherà ad En, a Libera, a Cielo e agli altri figli diretti e indiretti che magari, senza nemmeno saperlo, sono nati in un posto migliore proprio grazie a lui, ma ovviamente manca anche a noi perché mancheranno sempre figure di una così alta levatura morale, uomini colti, liberi, vicini a chi ha bisogno e lontani dai marcescenti centri gravitazionali del potere.

giovedì 2 marzo 2023

Ága

Opera seconda del regista bulgaro Milko Lazarov dopo Alienation (2013), Ága (2018) piazza sul tavolo da gioco la carta esotica: ma come, dice Lazarov, faccio un film su una coppia di eschimesi che abita nel nord più nord della Terra e tu non te lo guardi? Eh, esca lanciata ed eccomi nelle vesti di pesciolino con un amo conficcato nella guancia. Che poi, tanto per snocciolare qualche informazione, non sono sicuro che Nanook e Sedna possano essere categorizzati come “eschimesi”, ci troviamo in Jacuzia, una vasta area siberiana che, come ricorda Wikipedia, è l’unità amministrativa più estesa al mondo, ma questo dettaglio lo si apprende soltanto andando a leggere le interviste/recensioni sparse per la Rete, Lazarov in tal senso non dà alcuna coordinata e a meno che non parliate la lingua sacha, la storia, per quanto riusciamo a saperne (: nulla), potrebbe svolgersi in Alaska, in Groelandia o in qualunque altra zona dove le temperature si assestano ben ben sotto lo zero per buona parte dell’anno. La cornice si fa quindi universale e rende marito e moglie un po’ gli ultimi sopravvissuti del pianeta, ad accentuare la situazione ci pensa un formato panoramico (per cui sarebbe d’uopo una visione su grande schermo) che esalta l’immensità dell’ambiente in contrasto con la piccolezza dell’essere umano, il regista nel proporre i suo quadri innevati attraverso una dilatazione dei tempi pare dotato del giusto occhio, quello che dà giustizia alla potenza icastica dell’immagine, e se Ága ha un pregio è difficile non rintracciarlo nel suo mostrarsi con campi totali pieni di nebbia e candore. Si chiederà: ok, ma c’è altro oltre alla veste estetica? Le vie del cinema sono religiosamente infinite e avrebbe potuto anche non esserci altro, ma Lazarov ha scelto di fare un film narrativo pertanto c’è, per forza, dell’altro. E non è che sia un gran bene.

Meglio sgombrare il campo dal dubbio principe: Ága è pura finzione, i coniugi non sono tali bensì attori del luogo, essi non vivono in quella capanna come presumibilmente nessuno più, ora, vive in quel modo, è tutta rappresentazione, artificio, e quindi soggetto a seguire diligentemente uno schema prestabilito, questo schema si chiama Piramide di Freytag. Ogni volta che avete maneggiato, o lo farete in futuro, un racconto puro o un esemplare di cinema come Ága che si appoggia su di esso, dovrete fare i conti con una struttura non smantellabile: il primo passo è l’Esposizione (la vita al limite dell’uomo e la donna; i loro rituali; la caccia; il quotidiano; il legame tra i due), il secondo è l’Introduzione del conflitto (il figlio fa intendere che Ága, la sorella, se ne è andata via per lavorare in una miniera e che da parecchio non ha contatti con la famiglia), il terzo è l’Azione ascendente (Sedna ha una ferita alla pancia, Nanook vede delle volpi morte che hanno delle lesioni simili), il quarto è il Climax (Sedna muore), il quinto è l’Azione discendente (Nanook abbandona la capanna e si incammina verso la miniera), il sesto e ultimo è la Risoluzione (l’incontro tra padre e figlia). Le cose stanno così, da sempre. E va benissimo, io che sono niente me ne sto tranquillo nell’invisibile, solo penso: ma dopo uno sforzo produttivo che si immagina notevole, con grandi difficoltà logistiche e organizzative, perché far colare il raffinato precipitato in uno stampino omologante? Mi consenta sig. Lazarov: che peccato! Io avrei spinto sul pedale metafisico, acuito i segnali di una fine imminente per Sedna e cambiato il finale perché il sottofondo di archi che rimarca gli sguardi padre-figlia nel momento dell’incontro non si può proprio sentire, troppo pompato, troppo fuori misura. Troppo. Ma io alla Berlinale non ci entro neanche dalla porta di servizio, sicché levo le dita dalla tastiera.