Il cortometraggio si focalizza sul ragazzo, è essenzialmente l’esposizione del suo comportamento in relazione ad un evento funereo che in qualche maniera aleggia nella casupola. I segnali di un certo scompenso emotivo, di insicurezza (il dietrofront conclusivo), di nervosismo (l’episodio della minestra), di impotenza (… al cospetto del mare) e via dicendo, sono narrativamente di poco conto, non colpiscono, non emergono dall’orizzontalità. La scena che davvero ho trovato superflua riguarda la passeggiata nel bosco dove Miguel si trova faccia a faccia con un eros in contrapposizione agli impulsi antitetici che vive nel cottage, tocca ripetermi: è poca cosa, come fa un cinema che vorrebbe avere la C maiuscola ad esprimersi per mezzo di immagini così dirette o al limite sottilmente celate da un velo autoriale? In che modo allora la sua tesi arriva agli occhi dello spettatore? Ecco, le risposte, scontate, pesano sul giudizio globale, e io, che sono sempre abbastanza cauto nel pronunciarmi sull’operato di un regista perché da una tastiera è facile sparare sentenze senza avere minimamente idea delle dinamiche che portano alla realizzazione di un film e di come il suddetto film si incastra in una filmografia che è figlia di studi/esperienze del regista stesso, mi limito ad annotare: due corti di Conceição visti ed entrambi non hanno soddisfatto i miei bisogni, ad oggi, della contemporanea ondata lusitana, lui è il mio personale fanalino di coda.
venerdì 31 marzo 2023
Versailles
lunedì 27 marzo 2023
Jesus Shows You the Way to the Highway
Rispetto a Crumbs viene meno la desacralizzazione degli idoli odierni, sì abbiamo un Batman africano, Batfro (eh eh), però è parso al sottoscritto che la smitizzazione sia stata maggiormente compiuta in relazione ai possibili generi cinematografici che la pellicola, bellamente, percula. Il grosso lo si muove verso l’area delle spy-story che per Llansó si tramuta in uno spassoso teatrino di fantocci in stop-motion o in soluzioni geniali tipo il lancio col paracadute alla James Bond, non di meno anche un classico della sci-fi come i viaggi in universi paralleli si becca una bella disarticolazione che rende il tutto parecchio confuso ma altrettanto divertente. Parliamo di una realtà virtuale da Commodore 64 o al massimo da picchiaduro in 2D, eppure la narrazione arriva ad amabili contorsioni che suggeriscono, per me, di accantonare la razionalità per godersi le trovate che Llansó sciorina minuto dopo minuto. La progressione si fa concitata con la detenzione dell’agente Gagano in Betta Etiopia (non chiedetemi il senso di quel “Betta”...), la matassa che gira intorno al super sistema Psychobook si aggroviglia in un intrigo dove il doppio gioco è di casa (il collega Palmer, alla fine, da che parte sta?) e dove Llansó si scatena buttando nella mischia personaggi improbabili e perciò alquanto spassosi (il trio karateka; Mr. Sophistication [è mica un omaggio a von Trier?]; due mosconi antropomorfi), una via di fuga, dopo il dispiegarsi dell’ambaradan, viene trovata in una figura cristologica (è il fratello Guillermo Llansó, già visto in Perro Líquen, 2012), le modalità con cui si introduce Roy Mascarone/Gesù Cristo sono un filo approssimative ma non andrei a spaccare il capello, il twist narrativo (ovvero: quello che stiamo vivendo è falso, siamo in Massachusetts e tra poco ci sveglieremo dall’esperimento) è fin troppo banale in un clima generale che di banale non ha proprio nulla, in altri contesti lo avrei additato, qui l’ho accolto quasi con piacere.
Piccola nota: nella versione da me visionata di Jesus Shows You the Way to the Highway i dialoghi sono stati doppiati in inglese nonostante mi sia parso dal labiale che praticamente tutti gli attori recitassero in tale lingua. È un’esigenza commerciale per il pubblico anglofilo oppure rientra nella ricercata aura vintage del film visto che un tempo venivano presi accorgimenti simili? Se qualcuno sa, dica.
martedì 21 marzo 2023
San Martino
Sì perché l’opera si pone costantemente in un dialogo serrato con il passato, non credo di sbagliare affermando che gli abitanti dei paesini colti nel loro essere lì, in quel momento, in quell’istante così concreto ed anche così etereo da non farli sembrare nemmeno più lì, ragionino, senza esclusioni, sul rapporto tra se stessi e un prima che va da pochi anni (l’arrivo della luce elettrica verso il ’57) a centinaia e centinaia di secoli addietro (la creazione dei sentieri da parte degli animali selvatici), c’è della polvere depositata in queste memorie fatte di oralità e folklore, di tradizioni dalle radici perdute (l’origine dei soprannomi), di ricordi grattati via dall’infanzia, e Poeta Paccati, tale polvere, la soffia in aria trasformandola in un magico pulviscolo sospeso dove i frammenti aurei di esistenze impercettibili, tipo la vita dell’ultimo carrettiere rimasto, tipo la mia vita, o la tua, contengono il risuonare dell’infinito. San Martino è infatti, se lo si vuole, un’eco che diffonde ulteriori echi, è una casa antichissima che accoglie le anime di passaggio che transitano al suo interno, è un museo contro-analogico dove tra gli oggetti in esposizione si diffonde un vento caldo e avvolgente, il vento del tempo.
domenica 12 marzo 2023
In the Traveler’s Heart
Paragonando In the Traveler’s Heart con le altre due opere della coppia brasiliana, ovvero Cat Effekt (2011) e Muito Romântico (2016), manca quel discorso concettuale intorno alla settima arte, la ragione principe sarà probabilmente dovuta al minor minutaggio, ma non solo a mio avviso: ok che l’impronta estetica è molto simile ai lungometraggi appena citati (e giù di pellicola scorticata, decolorata, retrò), però l’attenzione che Jahn e Dullius pongono pare volgersi verso il loro riflesso artistico, il film lo si vive più come una perfomance di Gustavo e Melissa che una manifestazione (autoriale, sperimentale o non so neanche io cosa) di cinema. È sterile onanismo? È altezzosità bohémien? Uff, discorso che mi coglie impreparato e che mi piacerebbe, se i blog fossero ancora uno spazio di confronto e non un monologo disperso nelle pieghe della Rete, venisse approfondito perché la ricerca, in ogni disciplina, è tutto, bisognerebbe solo tentare di capire dove sta, e se esiste, un confine tra studio e arroganza, dal canto mio dico che comunque, seppur circondato dall’astrattezza totale, il senso di smarrimento, di turbamento, di vuoto della donna l’ho sentito.
martedì 7 marzo 2023
Dio delle Zecche: Storia di Danilo Dolci in Sicilia
Per iperbole mi sento di affermare che Dio delle Zecche è superiore al film successivo di Picarella sebbene sono fondamentalmente conscio che non lo sia, però Triokala (2015) a causa di una tendenza a ricalcare certi paradigmi che hanno ormai costituito un canone prettamente italico (ambientazione bucolica; folklore; dialetti; labilità del confine reatà/finzione) mi è parso paradossalmente meno “vero” rispetto al ritratto su Dolci, o forse dovrei dire meno “sentito”, il che è anche comprensibile visto il carotaggio emotivo che viene effettuato, l’idea del figlio che parte dalla fredda Stoccolma per dirigersi a sud sulle tracce del papà, la commozione e il silenzio, sono a mio avviso segnali concreti di come i due registi abbiano ben esposto il legame tra Danilo ed En che, attraverso una filigrana di non detto, suggerisce di quanto il secondo abbia fame di conoscenza (e affetto) nei confronti del primo. Ma è in generale la cornice etno-antropologica a convincere, i già citati intermezzi in bianco a nero sono un ottimo rimpallo con la contemporaneità e ambedue le istanze temporali certificano l’importanza di un ulteriore legame che ha protagonista Dolci: quello con le persone che ha incontrato, dai collaboratori stretti agli umili abitanti di Trappeto e Partinico, ed è quindi l’assenza, con la sua implacabile nostalgia, che pian piano fa capolino, e certo il signor Dolci mancherà ad En, a Libera, a Cielo e agli altri figli diretti e indiretti che magari, senza nemmeno saperlo, sono nati in un posto migliore proprio grazie a lui, ma ovviamente manca anche a noi perché mancheranno sempre figure di una così alta levatura morale, uomini colti, liberi, vicini a chi ha bisogno e lontani dai marcescenti centri gravitazionali del potere.
giovedì 2 marzo 2023
Ága
Meglio sgombrare il campo dal dubbio principe: Ága è pura finzione, i coniugi non sono tali bensì attori del luogo, essi non vivono in quella capanna come presumibilmente nessuno più, ora, vive in quel modo, è tutta rappresentazione, artificio, e quindi soggetto a seguire diligentemente uno schema prestabilito, questo schema si chiama Piramide di Freytag. Ogni volta che avete maneggiato, o lo farete in futuro, un racconto puro o un esemplare di cinema come Ága che si appoggia su di esso, dovrete fare i conti con una struttura non smantellabile: il primo passo è l’Esposizione (la vita al limite dell’uomo e la donna; i loro rituali; la caccia; il quotidiano; il legame tra i due), il secondo è l’Introduzione del conflitto (il figlio fa intendere che Ága, la sorella, se ne è andata via per lavorare in una miniera e che da parecchio non ha contatti con la famiglia), il terzo è l’Azione ascendente (Sedna ha una ferita alla pancia, Nanook vede delle volpi morte che hanno delle lesioni simili), il quarto è il Climax (Sedna muore), il quinto è l’Azione discendente (Nanook abbandona la capanna e si incammina verso la miniera), il sesto e ultimo è la Risoluzione (l’incontro tra padre e figlia). Le cose stanno così, da sempre. E va benissimo, io che sono niente me ne sto tranquillo nell’invisibile, solo penso: ma dopo uno sforzo produttivo che si immagina notevole, con grandi difficoltà logistiche e organizzative, perché far colare il raffinato precipitato in uno stampino omologante? Mi consenta sig. Lazarov: che peccato! Io avrei spinto sul pedale metafisico, acuito i segnali di una fine imminente per Sedna e cambiato il finale perché il sottofondo di archi che rimarca gli sguardi padre-figlia nel momento dell’incontro non si può proprio sentire, troppo pompato, troppo fuori misura. Troppo. Ma io alla Berlinale non ci entro neanche dalla porta di servizio, sicché levo le dita dalla tastiera.