
Un
uomo parla, pacifico, l’accento assente, un girocollo nero, dei
libri sullo sfondo. L’immagine, al pari di altre che compariranno,
è di repertorio e quell’uomo che racconta di un pescatore e della
moglie che è una regina, si chiama Danilo Dolci. Per ripercorrere,
per ritornare, per riallacciare uno dei tanti fili che disegnano dei
cerchi esistenziali, Leandro Picarella e Giovanni Rosa si servono di
un alfiere che è sangue del sangue di Dolci, En (“uno” in
svedese, il più piccolo dei suoi figli), un ragazzo che torna in
Sicilia nelle strade in cui il padre è arrivato quando nel
dopoguerra non c’era niente se non una miseria abissale
testimoniata da straordinari filmati d’archivio qui alternati alle
riprese del presente. Dio delle
Zecche: Storia di Danilo Dolci
in Sicilia (2014) è quindi un
documentario dal cuore diviso in due: è biografico, almeno lo è nei
riguardi della cospicua porzione di vita che Dolci ha passato in
terra sicula, ed è divulgativo ma in un senso che trasuda umanità
perché è di questo che si occupa: di un umanista, di uno che gli
spagnoli definirebbero hombre vertical,
un pioniere, uno che sicuramente ha avuto coraggio: andare laggiù,
tra gli ultimi, dandosi agli altri in uno slancio altruista che
l’intervistato Goffredo Fofi definisce “cristianesimo sociale”,
e fare coesione, parlando con gli adulti, ascoltando i bambini,
sfidando lo Stato (ecco un’altra pagina squisitamente italiana:
venire processati per cercare di rimettere in sesto una strada
comunale) e la mafia. E il sottoscritto non sapeva nulla di tutto ciò
prima di visionare Dio delle
Zecche,
non avevo mai intercettato il nome di Dolci né avevo mai sentito
parlare del suo operato, sicché mi sento di ringraziare a
prescindere di ogni giudizio qualitativo Picarella & Rosa, il
cinema può essere una splendida superficie rifrangente che ci
illumina di raggi sconosciuti.
Per
iperbole mi sento di affermare che Dio
delle Zecche è
superiore al film successivo di Picarella sebbene sono
fondamentalmente conscio che non lo sia, però Triokala
(2015) a causa di una tendenza a ricalcare certi paradigmi che hanno
ormai costituito un canone prettamente italico (ambientazione
bucolica; folklore; dialetti; labilità del confine reatà/finzione)
mi è parso paradossalmente meno “vero” rispetto al ritratto su
Dolci, o forse dovrei dire meno “sentito”, il che è anche
comprensibile visto il carotaggio emotivo che viene effettuato,
l’idea del figlio che parte dalla fredda Stoccolma per dirigersi a
sud sulle tracce del papà, la commozione e il silenzio, sono a mio
avviso segnali concreti di come i due registi abbiano ben esposto il
legame tra Danilo ed En che, attraverso una filigrana di non detto,
suggerisce di quanto il secondo abbia fame di conoscenza (e affetto)
nei confronti del primo. Ma è in generale la cornice
etno-antropologica a convincere, i già citati intermezzi in bianco a
nero sono un ottimo rimpallo con la contemporaneità e ambedue le
istanze temporali certificano l’importanza di un ulteriore legame
che ha protagonista Dolci: quello con le persone che ha incontrato,
dai collaboratori stretti agli umili abitanti di Trappeto e
Partinico, ed è quindi l’assenza, con la sua implacabile
nostalgia, che pian piano fa capolino, e certo il signor Dolci
mancherà ad En, a Libera, a Cielo e agli altri figli diretti e
indiretti che magari, senza nemmeno saperlo, sono nati in un posto
migliore proprio grazie a lui, ma ovviamente manca anche a noi perché
mancheranno sempre figure di una così alta levatura morale, uomini
colti, liberi, vicini a chi ha bisogno e lontani dai marcescenti
centri gravitazionali del potere.
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