martedì 7 marzo 2023

Dio delle Zecche: Storia di Danilo Dolci in Sicilia

Un uomo parla, pacifico, l’accento assente, un girocollo nero, dei libri sullo sfondo. L’immagine, al pari di altre che compariranno, è di repertorio e quell’uomo che racconta di un pescatore e della moglie che è una regina, si chiama Danilo Dolci. Per ripercorrere, per ritornare, per riallacciare uno dei tanti fili che disegnano dei cerchi esistenziali, Leandro Picarella e Giovanni Rosa si servono di un alfiere che è sangue del sangue di Dolci, En (“uno” in svedese, il più piccolo dei suoi figli), un ragazzo che torna in Sicilia nelle strade in cui il padre è arrivato quando nel dopoguerra non c’era niente se non una miseria abissale testimoniata da straordinari filmati d’archivio qui alternati alle riprese del presente. Dio delle Zecche: Storia di Danilo Dolci in Sicilia (2014) è quindi un documentario dal cuore diviso in due: è biografico, almeno lo è nei riguardi della cospicua porzione di vita che Dolci ha passato in terra sicula, ed è divulgativo ma in un senso che trasuda umanità perché è di questo che si occupa: di un umanista, di uno che gli spagnoli definirebbero hombre vertical, un pioniere, uno che sicuramente ha avuto coraggio: andare laggiù, tra gli ultimi, dandosi agli altri in uno slancio altruista che l’intervistato Goffredo Fofi definisce “cristianesimo sociale”, e fare coesione, parlando con gli adulti, ascoltando i bambini, sfidando lo Stato (ecco un’altra pagina squisitamente italiana: venire processati per cercare di rimettere in sesto una strada comunale) e la mafia. E il sottoscritto non sapeva nulla di tutto ciò prima di visionare Dio delle Zecche, non avevo mai intercettato il nome di Dolci né avevo mai sentito parlare del suo operato, sicché mi sento di ringraziare a prescindere di ogni giudizio qualitativo Picarella & Rosa, il cinema può essere una splendida superficie rifrangente che ci illumina di raggi sconosciuti.

Per iperbole mi sento di affermare che Dio delle Zecche è superiore al film successivo di Picarella sebbene sono fondamentalmente conscio che non lo sia, però Triokala (2015) a causa di una tendenza a ricalcare certi paradigmi che hanno ormai costituito un canone prettamente italico (ambientazione bucolica; folklore; dialetti; labilità del confine reatà/finzione) mi è parso paradossalmente meno “vero” rispetto al ritratto su Dolci, o forse dovrei dire meno “sentito”, il che è anche comprensibile visto il carotaggio emotivo che viene effettuato, l’idea del figlio che parte dalla fredda Stoccolma per dirigersi a sud sulle tracce del papà, la commozione e il silenzio, sono a mio avviso segnali concreti di come i due registi abbiano ben esposto il legame tra Danilo ed En che, attraverso una filigrana di non detto, suggerisce di quanto il secondo abbia fame di conoscenza (e affetto) nei confronti del primo. Ma è in generale la cornice etno-antropologica a convincere, i già citati intermezzi in bianco a nero sono un ottimo rimpallo con la contemporaneità e ambedue le istanze temporali certificano l’importanza di un ulteriore legame che ha protagonista Dolci: quello con le persone che ha incontrato, dai collaboratori stretti agli umili abitanti di Trappeto e Partinico, ed è quindi l’assenza, con la sua implacabile nostalgia, che pian piano fa capolino, e certo il signor Dolci mancherà ad En, a Libera, a Cielo e agli altri figli diretti e indiretti che magari, senza nemmeno saperlo, sono nati in un posto migliore proprio grazie a lui, ma ovviamente manca anche a noi perché mancheranno sempre figure di una così alta levatura morale, uomini colti, liberi, vicini a chi ha bisogno e lontani dai marcescenti centri gravitazionali del potere.

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