In questa città
piovono tumori invisibili dal cielo, mio fratello ne aveva beccato
uno che gli si era annidato nello scroto, di notte sentiva un
polipetto malefico strozzargli il testicolo destro, a me piace molto
passeggiare sulla spiaggia di inverno quando il vento che sento
addosso mi ricorda i tuoi capelli, nonna dopo la malattia si è
trasferita definitivamente da noi, prima era una donna pia e retta,
adesso passa le giornate sulla poltrona viola del soggiorno a
bestemmiare (“porcoddioporcoddioporcoddio”), papà è
andato in pensione da poco e prende millequattrocento euro al mese, è
triste e depresso e non dorme da mesi, il cuore gli si è
spostato a destra mentre a sinistra gli è spuntato un piccolo
uovo bianco, oltre che in spiaggia amo andare nella vecchia libreria
del signor L. perché lì tutti i libri sugli scaffali
sono amici che mi danno pacche sulla spalla, anche il signor L. è
depresso ma lo è in modo più sereno, sostiene che ormai
la sua vita l’ha fatta e che prenderà quello che verrà,
dopo la chemioterapia mio fratello è rimasto impotente, ieri
sera tornando a casa l’ho visto nel letto con il pollice in bocca e
un orsacchiotto sotto l’ascella, al mattino mando curriculum per
trovare un lavoro, al pomeriggio cammino per le strade che sono
l’album della mia malinconia, alla sera l’ultima cosa che guardo
è un pupazzo con la nostra foto stampata sopra, ho un amico
che fa l’astronomo e dice che sulla Luna ci sono sterminate
metropoli abitate da pallidi manichini con delle fattezze umane, il
giorno che moriremo l’anima trasmigrerà in quei manichini ed
una volta che anche lì il nostro tempo sarà finito
passeremo una porzione non misurabile di anni come rocce marziane
fino a che le briciole di noi stessi si trasformeranno in batteri
nella Grande Macchia Rossa di Giove, e via così fino alle
enormi cavallette nere di Plutone per poi ricominciare dall’inizio,
da Mercurio, in un ciclo che non ha fine, a volte nonna cambia
tipologia di bestemmia (“dioccanedioccanedioccane”), un altro mio
amico ha detto: “veniamo schizzati fuori da una fica e passiamo il
resto della nostra vita a cercare di rientraci”, ogni tanto ci
prende l’idea di salire fin sul promontorio e ficcarci due dita in
gola per vomitare delle palle di pelo nerastre e schiumose, un tizio
al bar racconta sempre che da giovane fece il giro dell’Europa e
che durante il suo periplo aveva con sé un libro così
pesante da risultargli una zavorra insostenibile visto il cammino da
compiere, ma era un libro bellissimo e allora lo leggeva e strappava
lo leggeva e strappava per renderlo più leggero, dice sempre
che vorrebbe rileggerlo ancora una volta, e allora io dico
compratelo, e lui no, rifarò lo stesso giro per cercare tutte
le pagine strappate, accadrà un giorno che l’uovo covato nel
petto di mio padre si schiuderà e da lì, attraverso la
sua bocca, sciameranno miriadi di corvi neri che come una macchia
umbratile volteggeranno nel cielo fino ad arrivare al sole e coprirne
tutta la circonferenza esterna in modo da farlo diventare un immenso
occhio infuocato che ci guarderà imponente da lassù, ho
sognato di essere un produttore di musica elettronica che vive a
Berlino in un bilocale non lontano dal Checkpoint Charlie, al venerdì
sera prendo la bici per andare a suonare al Berghain dove chiudo i
miei set con
questo pezzo, all’alba, uscendo dal locale con l’aria
berlinese che mi ghiaccia le narici, sento scorrere sotto le ruote
una strada che non è più una strada ed io sono felice
perché tu sei a casa sepolta sotto il piumone ed io entro
piano con un sibilo nelle orecchie e mi spoglio per scivolare sotto e
domattina è sabato e potremo dormire fino a mezzogiorno, nel
bacino idrico che alimenta la città vive l’ultimo esemplare
di scimmia acquatica del pianeta, è devastata dal dolore
perché un gruppo di cacciatori ha trucidato la sua compagna
per mangiarsela abbrustolita, piange rannicchiandosi su una roccia
che affiora dal lago, la testa affonda nelle zampe pinnate, vista
dall’alto, dalle stelle, è un bambino-lontra che ha perso la
mamma, la mamma non c’è più, non c’è mai
stata, adesso credo sia una roccia di basalto sulla superficie di
Venere, quando si disgregherà fino a scomparire ritornerà
sulla Terra ed io spero ancora di esserci, la nonna ha smesso di
dormire ed è sempre impegnata a cantilenare il suo empio
mantra (“diostronzodiostronzodiostronzo”), “stai tranquillo che
domani passa che le nostre donne si faranno più sode per noi,
stai tranquillo che gli eroi non passano mai e ci sarà sempre
qualcuno da idolatrare”, era bello andare insieme alla Lidl e
vedere nei parcheggi i cammelli delle mogli marocchine o i tuk-tuk di
quelle filippine e tradurre l’amore nel fare la spesa e provare
serenità in un cospicuo risparmio nei confronti di commisurate
compere alla Coop, sognando il nonno che è mancato quando ero
bambino sento perfettamente la sua voce, non riesco più a
vedere il viso né il corpo, solo quella calda voce di caffè
e caramelle Elah e penso che in fondo, tra le pieghe del cervello,
sotto qualche ondulazione carnosa, un reticolo di sinapsi ha
memorizzato per sempre quelle bonarie frequenze e che l’unico modo
che ho per riascoltarle è accendere l’interruttore onirico,
io so chi era mio nonno, ma non ho idea, invece, di chi era il mio
bisnonno: perché il tempo diluisce i legami consanguinei? E
io? Sarò ricordato un giorno dai miei pronipoti? Cosa resterà
di me?
E poi ho un segreto…
ssshhh… mi raccomando, non ditelo a nessuno! È che ogni
mezzanotte, poco prima che le quattro avvenenti streghe inizino a
danzare intorno al rogo di bambini bruciati nel cavedio del palazzo,
mi trovo sdraiato nel solito letto e… l’attimo seguente: puff!
Riesco a vedermi dall’alto, sospeso nell’aria della stanza come
un pesce che nuota nel mare e, semplicemente, riesco a volare, via,
lontano, lontanissimo, volteggio sopra i tetti della città per
poi scendere in picchiata ad un palmo dall’asfalto e sentirne
l’odore dopo un temporale tropicale, e avvertire al contempo lo
schiocco delle mamme che baciano i loro bambini prima di fare la
nanna e le preghiere delle anziane vedove nelle enormi case vuote in
cui si consumano giorno per giorno, eppure non mi basta perché
davanti a me ci sono strade invisibili da percorrere, trecce di
cunicoli adamantini, tunnel di luce abbacinante che mi trasformano in
un impulso impazzito di energia cosmica capace in un secondo di
essere dovunque, e in un altro secondo ancora di percepire chiunque:
il dolore di un cane thailandese che sta morendo in un vicolo a
Bangkok, le arcane visioni di una veggente bulgara che si è
inutilmente cavata gli occhi per porre fine a quei tormenti, l’immane
fatica di una formica sierraleonese che sta trascinando una briciola
nella sua tana. Sono una spugna microscopica e grande quanto il mondo
che assorbe tutto, che si nutre di maree d’esistenza e che affoga
serena nei fluidi della vita intorno a noi in, ogni, momento, che,
viviamo, ed ebbro svolazzo sulle autostrade notturne che diventano la
mia casa fatta di automobili sfreccianti e inconsistenti che prendono
la forma dei lampi nel pieno della notte, e le piccole sporadiche
abitazioni sui fianchi delle colline sono grossi funghi con lucciole
ammalianti a rischiararle, ed è sempre così delicata
questa notte universale, anche se nevica tragedia, anche se sul
calendario ci sono solo lunedì, le tenui fiamme del cielo mi
ricordano la bellezza indeterminabile dell’esserci, e chiedo solo
che mi si voglia bene come io lo voglio a voi, fratelli, genitori e
amori sconosciuti, che mai ci incontreremo se non nelle mie radianti
incursioni serali dove voglio dirvi che vi sento sempre, e che con
affetto incalcolabile e disperato aspetto una sola cosa:
LA GRANDE NAVE.
E infine, con l’alba
che si avvicina, io ti vengo a cercare: dalla terra al cielo si erge
una torre luminosa, tu sei lì: lievito sopra la strada che ho
percorso infinite volte e guardo l’ex palazzone dell’INAIL ora
infestato da baffuti fantasmi statali, imbocco la ripida mattonata
costeggiata da statue di angeli protesi verso il mio etereo passaggio
e salgo proprio quei gradini che portano al cancello verde un po’
arrugginito dell’entrata, sorvolo lo stretto giardino con lo
scheletro della lavanda senza far rumore perché sono ancora
un’ombra appena fosforescente che scivola su quei muri che mi hanno
visto apparecchiare la tavola per anni, e sempre piano piano
attraverso il soggiorno planando sopra il divano rosso fino a
diventare un microbo oltre la porta che chiude la camera dove so che
stai dormendo sotto una montagna di coperte nel chiarore morbido di
un’abat-jour che custodisce la crisalide di un essere puro e
celestiale, ed il tuo cuore proietta sul soffitto un fascio di luce
che si impenna oltre il tetto, oltre l’atmosfera terrestre per
diventare un faro nella galassia e c’è un profumo di viole
nella stanza, un calore che non riesco a dimenticare, è lo
scrigno del passato che si apre come una valva e che mi fa rivivere
tutto dal principio con lo stesso stupore, la stessa paura, lo stesso
incanto degli occhi di un gatto che vede passare un treno
nell’oscurità, mentre laggiù, nel porto, una nave sta
salpando verso la Tunisia. Però sempre mi sveglio, e sempre
vedo quel pupazzo con la nostra foto sulla mensola della libreria.