La voce di Julie Byrne mi
porta lontano, credo a Cheyenne o a Portland o a Boise in un piazzale
d’asfalto deserto sotto una pioggia fine, e io mi riparo a ridosso
della tettoia di un Burger King dal quale proviene l’odore di ogni
fast-food del mondo, e il mio amico Dave o William o George mi fa
cenno di salire sulla sua Ford un po’ rovinata come la camicia a
quadri di flanella che indossa, è un tipo corpulento e
sgraziato, ha gli occhi azzurri e una pelle sopravvissuta ai blitz
dell’acne giovanile, mentre guida dice che la città è
cambiata molto negli ultimi anni, che lì c’era un bellissimo
negozio d’abbigliamento mentre ora c’è un Internet point
gestito da indiani aperto h24, o che là, prima del parcheggio
a tre piani, c’era un campo da basket dove giocava con gli amici, e
dopo una curva arriviamo a casa, uno steccato bianco, un nido a due
piani con tetto spiovente, un prato verde e soffice, Lana o Kendra o
Anya ci attende con le mani maternamente giunte sulla pancia tesa e
sferica, e sorride emanando un profumo di limone che le è
rimasto addosso da quando era una bambina che gironzolava nell’orto
del nonno, e dopo cena li lascio ai loro quieti gesti mentre lei lava
i piatti e lui spazza le briciole da terra, fuori, la punta della
sigaretta che sfrigola incandescente sopra il mio mento è
l’unico rumore in questa bolla di silenzio che io sento, non c’è
nient’altro adesso, se non l’appena percettibile nostalgia della
città che aspetta il mio ritorno, credo Lecce o Parma o
Genova.
domenica 12 febbraio 2017
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