domenica 12 febbraio 2017

I've seen a double rainbow

La voce di Julie Byrne mi porta lontano, credo a Cheyenne o a Portland o a Boise in un piazzale d’asfalto deserto sotto una pioggia fine, e io mi riparo a ridosso della tettoia di un Burger King dal quale proviene l’odore di ogni fast-food del mondo, e il mio amico Dave o William o George mi fa cenno di salire sulla sua Ford un po’ rovinata come la camicia a quadri di flanella che indossa, è un tipo corpulento e sgraziato, ha gli occhi azzurri e una pelle sopravvissuta ai blitz dell’acne giovanile, mentre guida dice che la città è cambiata molto negli ultimi anni, che lì c’era un bellissimo negozio d’abbigliamento mentre ora c’è un Internet point gestito da indiani aperto h24, o che là, prima del parcheggio a tre piani, c’era un campo da basket dove giocava con gli amici, e dopo una curva arriviamo a casa, uno steccato bianco, un nido a due piani con tetto spiovente, un prato verde e soffice, Lana o Kendra o Anya ci attende con le mani maternamente giunte sulla pancia tesa e sferica, e sorride emanando un profumo di limone che le è rimasto addosso da quando era una bambina che gironzolava nell’orto del nonno, e dopo cena li lascio ai loro quieti gesti mentre lei lava i piatti e lui spazza le briciole da terra, fuori, la punta della sigaretta che sfrigola incandescente sopra il mio mento è l’unico rumore in questa bolla di silenzio che io sento, non c’è nient’altro adesso, se non l’appena percettibile nostalgia della città che aspetta il mio ritorno, credo Lecce o Parma o Genova.

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