La lettura sociale, la
prima nonché la più epidermica, può essere una
valida chiave per accedere al discorso impresso su pellicola da Mirko
Locatelli, infatti pare piuttosto chiaro che I corpi estranei
(2013) sia un film orientato a mostrarci una sorta di reciproca
integrazione, di apertura, di abbraccio verso l’Altro. Ora, da
siffatte premesse è comprensibile che sulla carta non nasca
una grande curiosità nei confronti dell’opera, però
va detto che Locatelli rivela al pubblico un tatto accettabile nel
delineare le corrispettive “estraneità” dei due uomini
protagonisti (così diversi, così simili), e proprio con
Antonio, paradossalmente, abbiamo il vero personaggio da reinserire
nella società: è un Filippo Timi buzzurro,
bestemmiatore, che pensa al sesso mentre suo figlio è alla
vigilia di una delicata operazione. L’estromissione di Antonio dal
mondo che lo circonda si manifesta nella mancanza di un vero dialogo
con tutto ciò che non riguarda lui o la sua famiglia (gli
unici rapporti interpersonali sono quelli telefonici con la moglie,
in tutte le altre occasioni dove è chiamato a confrontarsi con
un estraneo si chiude a riccio). Antonio è davvero un
essere avulso: non ha un lavoro, alla radio ascolta solo notizie sul
traffico automobilistico ed è recintato nella propria isola
paterna. In questo gioco di ruoli invertiti Locatelli è
abbastanza abile nel tessere un filato di ambiguità sulla
figura di Jaber. Indirizzando l’opinione spettatoriale su una falsa
pista, il regista, attraverso una narrazione che per fortuna sottrae
ed elide certi meccanismi altrimenti impoverenti, rovescia i
possibili assunti pregiudiziali certificando uno slancio umanista dal
più insospettabile del duo, un venire incontro all’altro da
parte di chi è ultimo e non ha niente.
Ma una seconda lettura,
quella che potremmo definire “religiosa”, amplia i confini del
film, perché credo abbia completamente ragione Luca Pacilio
(link) quando fa riferimento ad una sottile corrente mistica che vena
I corpi estranei. Beninteso, non siamo in un film di Bruno
Dumont, tuttavia nel realismo di Locatelli c’è anche spazio
per l’impalpabile, e non è soltanto la frequenza delle scene
in cui Antonio si reca nella piccola cappella (lui che non è
un credente: dimentica le parole di una preghiera) a fare da
suggerimento frontale, è qualcosa di più, qualcosa che
si instaura nelle pieghe di questa micro-odissea e che ha forse come
punto di arrivo proprio il gesto di Jaber da cui consegue quello che
può essere considerato un piccolo miracolo, un’azione così
solidale, così direzionata verso un’idea di fratellanza
universale, che davanti ai nostri occhi si esplica il comandamento di
ogni fede, quello che ha solo un dogma a cui attenersi: l’umano.
Nella dimensione
distributiva e produttiva italiana I corpi estranei è
in grado di ritagliarsi una nicchia di visibilità, Locatelli è
tra virgolette coraggioso nel prendersi tempi e spazi che in genere
il cinema da sala dribbla con facilità per farsi più
commestibile e quindi più vendibile, e facendo ampio uso di
immagini ricorsive (Timi ripreso di spalle; Timi impegnato a
mangiare; Timi che contempla il paesaggio urbano) crea un ritmo, una
musica fredda che echeggia in un contesto ospedaliero rischiarato
soltanto dalla vocina del piccolo Pietro. In definitiva un’opera
seconda che pur non infiammando in toto la sensibilità del
sottoscritto possiede elementi capaci di destare interesse, un lavoro
con una cifra personale che in altri paesi europei (vedi la Francia,
cfr. ancora Pacilio) è quasi di routine, qui da noi si
presenta come dato innovativo cosa che in effetti allargando lo
sguardo non è poi così tanto, in ogni caso ben venga un
film del genere, più Locatelli e meno [metteteci il nome di un
qualsiasi regista italiano della mediocrità].
Sono d'accordo!
RispondiElimina