mercoledì 8 febbraio 2017

I corpi estranei

La lettura sociale, la prima nonché la più epidermica, può essere una valida chiave per accedere al discorso impresso su pellicola da Mirko Locatelli, infatti pare piuttosto chiaro che I corpi estranei (2013) sia un film orientato a mostrarci una sorta di reciproca integrazione, di apertura, di abbraccio verso l’Altro. Ora, da siffatte premesse è comprensibile che sulla carta non nasca una grande curiosità nei confronti dell’opera, però va detto che Locatelli rivela al pubblico un tatto accettabile nel delineare le corrispettive “estraneità” dei due uomini protagonisti (così diversi, così simili), e proprio con Antonio, paradossalmente, abbiamo il vero personaggio da reinserire nella società: è un Filippo Timi buzzurro, bestemmiatore, che pensa al sesso mentre suo figlio è alla vigilia di una delicata operazione. L’estromissione di Antonio dal mondo che lo circonda si manifesta nella mancanza di un vero dialogo con tutto ciò che non riguarda lui o la sua famiglia (gli unici rapporti interpersonali sono quelli telefonici con la moglie, in tutte le altre occasioni dove è chiamato a confrontarsi con un estraneo si chiude a riccio). Antonio è davvero un essere avulso: non ha un lavoro, alla radio ascolta solo notizie sul traffico automobilistico ed è recintato nella propria isola paterna. In questo gioco di ruoli invertiti Locatelli è abbastanza abile nel tessere un filato di ambiguità sulla figura di Jaber. Indirizzando l’opinione spettatoriale su una falsa pista, il regista, attraverso una narrazione che per fortuna sottrae ed elide certi meccanismi altrimenti impoverenti, rovescia i possibili assunti pregiudiziali certificando uno slancio umanista dal più insospettabile del duo, un venire incontro all’altro da parte di chi è ultimo e non ha niente.

Ma una seconda lettura, quella che potremmo definire “religiosa”, amplia i confini del film, perché credo abbia completamente ragione Luca Pacilio (link) quando fa riferimento ad una sottile corrente mistica che vena I corpi estranei. Beninteso, non siamo in un film di Bruno Dumont, tuttavia nel realismo di Locatelli c’è anche spazio per l’impalpabile, e non è soltanto la frequenza delle scene in cui Antonio si reca nella piccola cappella (lui che non è un credente: dimentica le parole di una preghiera) a fare da suggerimento frontale, è qualcosa di più, qualcosa che si instaura nelle pieghe di questa micro-odissea e che ha forse come punto di arrivo proprio il gesto di Jaber da cui consegue quello che può essere considerato un piccolo miracolo, un’azione così solidale, così direzionata verso un’idea di fratellanza universale, che davanti ai nostri occhi si esplica il comandamento di ogni fede, quello che ha solo un dogma a cui attenersi: l’umano.

Nella dimensione distributiva e produttiva italiana I corpi estranei è in grado di ritagliarsi una nicchia di visibilità, Locatelli è tra virgolette coraggioso nel prendersi tempi e spazi che in genere il cinema da sala dribbla con facilità per farsi più commestibile e quindi più vendibile, e facendo ampio uso di immagini ricorsive (Timi ripreso di spalle; Timi impegnato a mangiare; Timi che contempla il paesaggio urbano) crea un ritmo, una musica fredda che echeggia in un contesto ospedaliero rischiarato soltanto dalla vocina del piccolo Pietro. In definitiva un’opera seconda che pur non infiammando in toto la sensibilità del sottoscritto possiede elementi capaci di destare interesse, un lavoro con una cifra personale che in altri paesi europei (vedi la Francia, cfr. ancora Pacilio) è quasi di routine, qui da noi si presenta come dato innovativo cosa che in effetti allargando lo sguardo non è poi così tanto, in ogni caso ben venga un film del genere, più Locatelli e meno [metteteci il nome di un qualsiasi regista italiano della mediocrità].

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