giovedì 31 dicembre 2015

Paradise: Hope

Oplà, saltiamo subito alle conclusioni: adesso che la trilogia paradisiaca di Ulrich Seidl è scorsa davanti ai miei occhi mi sono fatto un’opinione piuttosto precisa. Già con i dure episodi precedenti lamentavo l’assenza di una forte incidenza sul nostro tasso d’impressione da parte del regista austriaco, soprattutto Paradise: Faith (2012) si macchiava di una cospicua dose di prevedibilità per cui l’effettivo svolgimento della sinossi acquietava l’opera in un orizzonte piatto e inerte. La discesa di Seidl subisce un’ulteriore accelerazione con Paradies: Hoffnung (2013), il film più innocuo della sua carriera al pari di Models (1999). Il perché di una tale docilità esplicativa ha almeno due motivazioni: la prima, nonché quella decisiva, è dovuta al fatto che Seidl, in questa trilogia, e soprattutto in Hope, ha abbandonato quello spirito corale che permetteva una rifrazione molteplice delle miserie umane rappresentate. Avendo un solo focus (una donna per ogni film) con cui poter veicolare i propri intenti, la possibile carica notificante, cioè il passaggio fondamentale per cui il pensiero di Seidl esplicitato nelle immagini filmiche dovrebbe riverberarsi nel nostro sentito, non giunge a destinazione. La storia tra Melanine e il dottore è tutta una parvenza, un tiro neanche troppo corretto che fa leva sulla concretizzazione o meno di una realtà sessuale tra un uomo e una ragazzina, penso che questa volta non ci siano dardeggiamenti convincenti alla società occidentale (e quindi a noi), il film è troppo arginato dai rivoletti sentimentali dell’adolescente che saranno anche universali ma che al contempo saranno altrettanto risaputi. Il continuo rinvio di una catarsi carnale diventa l’unico motore pruriginoso del film, onestamente mi sembra pochino.

La seconda motivazione per cui Paradise: Hope non è entrato nelle mie grazie si discosta dai possibili meriti/demeriti dell’austriaco, forse, e qui chiedo scusa al lettore a cui consiglio di abbandonare la lettura poiché sto per divagare in modo scriteriato, dicevo: forse il punto cruciale è che non è tanto Seidl ad essere cambiato, sono cambiato io. O meglio, è cambiata la mia sensibilità nei confronti del cinema che vedo. Il processo evolutivo (o involutivo, chissà) di interiorizzazione di un’opera d’arte cinematografica a cui sono andato incontro in anni e anni di visioni si è profondamente modificato, e con esso è cambiata anche la persona me medesima. Non ne ho la certezza, ma credo che se oggi rivedessi un Canicola (2001) qualunque non mi lascerei andare a chissà quali plausi. Attualmente, e lo dico con grande franchezza, non credo più molto nel cinema di Seidl, e dico Seidl ma è come se dicessi buona parte dei registi che hanno riempito le pagine di questo blog; da dove sono ora, che non so esattamente dove sia ma so che non è dove sono stato per tanto tempo, vedo molto di quel cinema come un intrattenimento, non l’intrattenimento becero, sia chiaro, ma in generale un coacervo di esemplari più o meno conforma-mente narrativi. Il problema credo stia proprio lì, nella narrazione, se si vuole andare avanti è necessario scardinare i dogmi metodologici, e seguendo come esempio i binari di Hope, ovvero il consumato canovaccio di un percorso amoroso, si arriva al massimo a quell’intrattenere sopraccitato. Ma chi si ferma qua è uno stolido. Bisogna sempre rapportarsi al verticale, che sia il cielo o che sia l’abisso, ciò che sta alla nostra altezza non ci fa crescere di un centimetro, e Paradies: Hoffnung sta proprio lì, banalmente a portata di mano.

martedì 29 dicembre 2015

Captive

Il rapporto tra Mendoza e la Francia si è fatto via via sempre più intimo: già da Service (2008) in poi il regista filippino aveva potuto usufruire dei danari messi a disposizione dalla Swift Productions, casa di produzione francese, successivamente il feeling con i cugini d’oltralpe si è consolidato grazie al passaggio a Cannes di Kinatay (2009) con annesse dichiarazioni tarantiniane che hanno agito da cassa di risonanza. Il percorso di Mendoza, per una legge non scritta che riguarda molti registi asiatici, era destinato ad incontrarsi con la domanda occidentale di un film calibrato e pensato per essere digerito anche da chi era a digiuno di cinema mendoziano, ecco Captive (2012) allora, un lavoro che ha alle spalle una cooperazione tra diverse società europee (spicca l’istituzione transalpina ARTE) e che, soprattutto, affronta una questione molto vendibile nel vecchio continente come quella del terrorismo islamico. A metterla così si potrebbe pensare che Mendoza abbia venduto la propria anima registica in cambio di sonanti €uro, e, ad essere onesti, non sembrerebbe un’affermazione così campata in aria, ma rimanendo ligi alla sua buona fede possiamo trovare una continuità nel settore stilistico perché ci troviamo nuovamente calati in un set tipicamente di Mendoza. Come già avevo avuto modo di scrivere, la missione del filippino è quella di assottigliare fino alla dissoluzione quella membrana posta tra realtà e finzione. Preso atto che tale membrana non può essere eliminata, almeno non dalla visione di Mendoza, il regista in certi frangenti, ma qui un po’ meno, ha saputo gabbare lo spettatore trascinandolo (si fa per dire) corporalmente dentro al film. I mezzi usati non sono mai stati, diciamo, granché ortodossi, tutta camera a mano con qualche balbuzie nel montaggio (in Captive quando uno dei guerriglieri si prende un rimbrotto dalla neo-moglie Mendoza indugia in modo dilettantesco sullo sguardo palesemente spaesato dell’attore), ma comunque quel tanto che basta da risultare efficace nell’ordine delle percezioni.

Tuttavia l’aspetto a mio avviso più interessante dell’opera non è tanto la coerenza formale di Mendoza, quanto il processo di storicizzazione che ha effettuato lavorando su un episodio di cronaca realmente accaduto. In sostanza Mr. Brillante ha il merito di aver portato a galla attraverso il cinema un fatto tragico ma esplicativo di come la jihād ha, ed abbia avuto, contorni liquidi e pandemici, se poi pensiamo che il periodo storico in cui il gruppo di terroristi sequestra i turisti è appena antecedente all’attentato delle Torri Gemelle, allora la storia si fa quasi documento antropologico che ci mostra gli albori di un movimento che attualmente ha messo sottoscacco gran parte dei paesi cosiddetti civilizzati, e nel commando di Mendoza, non so se volutamente o meno, ma certe volte impacciato o per meglio dire impreparato alla guerriglia, rintracciamo alcuni capisaldi universalmente riconosciuti dell’islamismo terrorista, e quindi fanatismo religioso, arricchimento attraverso il riscatto degli ostaggi, sovvenzioni belliche per conto di individui arabeggianti. Ma in tutto ciò il cinema c’entra poco, perché difatti in Captive il cinema latita. È vera la persistenza di un discorso protrattosi di film in film fino a quello sotto esame, ma al contempo l’allontanamento di Mendoza dal centro della sua carriera, quella povertà di tutto (materiale e spirituale) delle Filippine, fa sedere il proprio lungometraggio in un’area che, appunto, ha valore perlopiù nel campo informativo, mentre in quello dello spessore artistico si poteva fare meglio. A prescindere dalla struttura di Captive che è schematicamente ripetitiva (una volta effettuato il rapimento vediamo l’alternanza tra sommosse dell’esercito di Stato e noiosette interazioni ostaggi/aguzzini), è proprio quell’impianto realistico a giocare contro Mendoza e a non poter ambire a null’altro che il “coinvolgimento”, perché mi pare chiaro, adesso, che tale approccio non avendo dentro di sé i connotati per lavorare in profondità è obbligato ad operare sull’orizzontalità degli eventi, sulla loro immediatezza, appena si tenta un accenno che procede in parallelo si rischia la frittata (la stigmatizzazione della dicotomia vita/morte con l’assalto in ospedale e la nascita, ovviamente reale, di un neonato), sicché non rimane che l’apparato cronachistico nel quale non possiamo entrare, né lui può entrare dentro di noi. Ecco il punto: Captive non ci permette di compenetrarci a vicenda, semplicemente perché non è in grado di farlo.

domenica 27 dicembre 2015

Lampa cu caciula

Vedere Lampa cu caciula (2007) è un po’ come vedere Megatron (2008) perché anche in questo cortometraggio la Romania che ci viene presentata porta ancora i lividi della Storia appena passata e in un contesto che sarebbe povero di per sé (campagna profonda, tanto fango, tanto grigiore) le conseguenze di una politica che per più di vent’anni si è chiusa a riccio sembrano, anche se le suddette e possibili cause non vengono minimamente accennate (lo sottolineo), aggravare la situazione. Nel Paese che Radu Jude, assistente di Puiu in The Death of Mister Lazarescu (2005), riprende con la sua mdp non c’è nulla che vada per il verso giusto: in casa piove e il padre non capisce come sia possibile, per portare il televisore a riparare bisogna intraprendere un viaggio omerico verso la città, al tecnico (improvvisato) mancano dei pezzi per aggiustare la tv, a ritorno l’automobile che dovrebbe riportare a casa i Nostri ha bisogno di una spintarella e per suggellare la giornata giunge un bel temporale che fa cadere al papà l’elettrodomestico. Non c’entreranno niente tali disavventure con i rimandi storici rumeni, però c’è da chiedersi come mai una famiglia del nuovo millennio possiede ancora una televisione giurassica, e se non si trovano le risposte non resta che osservare la crescita delle nuove leve obbligate a rapportarsi con una realtà che i propri genitori non sono riusciti a cambiare in meglio.

E proprio dal piccolo Marian emerge il risvolto più significante del film: l’ostinazione che lo spinge ad intraprendere il difficile itinerario verso la cittadina e quindi a costringere il padre riluttante ad un micro tour de force, è ben più che un semplice capriccio infantile. Già nel 2000 con Zapping Cristian Mungiu aveva denunciato attraverso un apprezzabile registro grottesco la forte dipendenza di un cittadino rumeno verso il tubo catodico, finto recipiente utopico che nascondeva invece uno spietato meccanismo oligarchico (ed ogni metaforica conclusione è lasciata allo spettatore…), sette anni dopo la soggezione nei confronti dello schermo casalingo pare non abbia mollato la presa, ce lo dicono le persone fuori dall’abitazione del signor Bichescu che appare come un oracolo in attesa di dare udienza, e ce lo dice, appunto, Marian e il comportamento che tiene verso quella che è soltanto una scatola piena di circuiti (le lacrime per la mancata sistemazione da parte di Bichescu; la preoccupazione per l’incidente sulla strada del ritorno), ma l’occhio di Jude non è un occhio che condanna, è piuttosto un invito a prendere atto di come nel 2007 in Romania (e oggi non si sa se ci siano stati cambiamenti) l’unico modo per un bambino di evadere dalla quotidianità, per aprirsi all’altro, per sognare, era quello di guardare un film con Bruce Lee.

P.S.: la locandina che vedete sopra non riguarda il corto sotto esame (sebbene il frame sia tratto da esso) ma la raccolta di racconti scritti da Florin Lazarescu contenente quello che poi ha ispirato Radu Jude.

venerdì 25 dicembre 2015

Girl Model

Un documentario che vuole illustrare il fashion-business di ragazzine russe imballate e spedite verso il Giappone dove il mercato richiede volti adolescenziali, freschi e nuovi? Accidenti, come era successo per il peggior Seidl di sempre (Models, 1999), senza neanche volerlo la sinossi di Girl Model (2011) corrisponde esattamente a quanto c’è da dire sul film; per carità, vi sono ulteriori sfumature che non mancheranno di essere sottolineate, però ogni plausibile predizione generata dalla lettura della trama trova conferma sullo schermo, e allora partendo dal fatto che l’appena tredicenne Nadya vive in Siberia non stupisce poi molto la sua condizione famigliare fatta di tanta ma tanta povertà, così come è ugualmente intuibile che le selezioni delle aspiranti modelle siano qualcosa che ha poco a che vedere con quelle qualità che dovrebbero fare di un essere umano una Persona e non un manichino da vendere al miglior offerente, ma in effetti è puntualmente ciò che Redmon & Sabin si interessano di catturare, e fin dalla prima sequenza che riprende uno stuolo di poco-più-che-bambine sottoporsi al freddo giudizio di gente del settore. Per tutta la durata di Girl Model manca una forte svolta degna di essere definita tale, praticamente ogni evento che accade (dalle difficoltà personali di Nadya nella capitale giapponese, allo “sfruttamento” finanziario delle varie agenzie) si iscrive tacitamente in una lista di effetti deleteri per le dirette interessare che anche un soggetto estraneo all’ambiente immagina e conosce facilmente con dovizia di particolari.

Si diceva delle sfumature. Innanzitutto il taglio da denuncia (videocamera in mano, infiltrazioni nelle maglie del reale con non si sa quanto artificio) lascia fuori il tema della prostituzione, e per fortuna visto che le modelle in questione sono ampiamente minorenni (un accenno comunque lo si fa), il quale a bocce ferme poteva essere plausibilmente argomento da espletare, invece no: i problemi a cui Nadya va incontro sono meno immorali, sempre ammesso che truccare e imbellettare come una bambolina una ragazzetta che dovrebbe fare le scuole medie e schiaffarla (se va bene) su una rivista sia un atto eticamente corretto. Comunque sia i registi si preoccupano di far risaltare l’inadeguatezza della modella in erba che catapultata in un mondo alieno si trova a dir poco spaesata: la lingua è avversa, la compagna-collega viene rispedita a casa perché accusata di aver messo su qualche grammo di troppo, gli scatti fotografici non remunerati. In tutto questo viene tracciato anche il profilo della talent scout Ashley Arbaugh, ex modella dedita un tempo a riprendersi in video confessioni qui montate tra una scena e l’altra, che a differenza di quanto possa dirci la sua professione è una donna che in più di un’occasione lascia trasparire un certo tormento (dovuto soprattutto a problemi fisici molto seri) da dove si intende di come anche una vita potenzialmente perfetta possa celare un malessere profondo. Il che, forse, permette ai due registi di porre un parallelo tra una giovanissima che si affaccia per la prima volta nel mondo della moda, e una che pur campandoci sopra ne è uscita mezza logorata.

Le scritte su sfondo nero che chiudono il film affermano che Nadya dopo essere tornata in Russia è ripartita verso il Giappone per poi dirigersi in Cina e a Taiwan, se vi interessa sapere dove si trova in questo momento è molto semplice, anche lei ha aperto la sua bella e utilissima pagina Twitter (link) dalla quale cinguettando in inglese non manca di far sapere dove è ubicata in quell’istante e da dove manda copiose buonenotti ai fan. (sic)

martedì 22 dicembre 2015

Sette opere di misericordia

Che cos’è la solitudine? Lo spazio solitario tra due rocce svanisce quando viene riempito da una ragnatela?

(William T. Vollmann – La camicia di ghiaccio, Alet Edizioni; 2007)

Sette opere di misericordia (2011), debutto nella fiction per i due gemelli torinesi Gianluca e Massimiliano De Serio, è un film che vive nella contraddizione tra il narrato e la narrazione. È un’incompatibilità proficua perché grazie ad un impianto che non spartisce quasi nulla con la maggior parte del cinema da sala italiano abbiamo sul piatto un tema sempre attuale come quello dell’immigrazione e una corrispettiva divulgazione assiderata nel minimalismo dei due registi. Quindi, è vero che avendo come protagonista Luminita, una giovane moldava che sopravvive in una baraccopoli, dobbiamo confrontarci con storie di emarginazione, degrado (più morale che materiale), povertà e via dicendo, ma i De Serio lasciano l’enfasi agli altri preferendo un’austerità intransigente, producendo effetti e forse perfino affetti nello spettatore: si prova pena, si prova pietà di fronte agli uomini di un’opera che trattiene e sotterra tutto, difatti i possibili picchi drammatici vengono silenziati (alcune sequenze si pongono al di qua del vetro/finestra, ovattando o annullando lo strazio che vediamo al di là) o estromessi in toto dal corpo film (il rapimento del neonato), questo comporta un impegno notevole da parte nostra, ma non è uno sforzo vano, è proprio nella non-parola che si possono ascoltare i discorsi più densi, così come nel non-vedere stazionano le immagini più penetranti. Ergo: il dramma dell’immigrato, anche se lavorato nella pietra fredda, arriva.

E arriva perché dal momento in cui il bimbo sparisce dalla casa, i De Serio allargano la prospettiva del loro film che non riguarda più soltanto il trattato sull’attualità, si sale per giungere al problema patologico dell’emarginato, a prescindere dalla sua estrazione sociale: la solitudine. Il cinema, in merito, ha partorito figli su figli che si sono cimentati nell’illustrazione di tale condizione, per cui è chiaro che non ci troviamo al cospetto di innovazioni straordinarie, comunque sia i De Serio, che in un’intervista citano Tsai Ming-liang come punto di riferimento (link), ed è risaputo che pochi come il taiwanese hanno saputo incuneare il cinema nell’universo dell’Uomo Solo, non perdono di credibilità pur agendo in territori ampiamente calpestati. È interessante l’evoluzione del rapporto tra Herlitzka (non si perde mai occasione per apprezzarlo) e la ragazza, se una prima parte è caratterizzata da una certa brutalità (sempre morigerata), nella seconda emerge quell’humanitas capace di congiungere le due anime reiette. L’incontro si illumina di misericordia: il prendersi cura reciprocamente è il vero atto compassionevole, e pare ricordarlo anche il finale con il ragazzino che medicando le ferite di Luminita permette al film di terminare in un’accecante inquadratura di luce bianca, l’esatto opposto dell’ora e mezza precedente permeata dal grigiore metropolitano.

Non esente da piccoli difetti, rinvenibili a mio avviso in alcuni rivoli tramici (il modo indisturbato con cui Luminita si aggira nell’ospedale; la “fortuna” di scegliere a caso un uomo davvero solo al mondo) che spiccano a causa dell’impianto estremamente realista, Sette opere di misericordia è un esponente di cinema nostrano che si pone a latere, non un lavoro inedito, nemmeno indimenticabile probabilmente, ma il solo sapere della sua esistenza e del percorso registico che ci sta dietro lo rendono meritevole di considerazione.

domenica 20 dicembre 2015

Redemption

Redemption (2013), entr’acte fra la rivelazione Tabu (2012) ed il tripartito Le mille e una notte (Volume 1, Volume 2, Volume 3 - 2015), è film che sa lievitare ed invadere delicatamente più livelli, sicuramente i nostri, perché percettivamente c’è un sentibile dentro questa mezz’oretta, e di riflesso anche da un punto oggettivo il corto si fa terreno fertile per fioriture cognitive intorno e dentro il mezzo cinema. La collaborazione inter-europea che ha dato vita a Redemption vede l’Italia all’importante contributo (c’è lo zampino di Fuori Orario che lo ha mandato in onda su Rai 3 oltre che di Cinecittà la quale – presumo – ha fornito le immagini di Miracolo a Milano, 1951), così come la porzione teutonica che si avvale del denaro messo a disposizione dalla ZDF e dalla voce narrante di Maren Ade, produttrice di lungo corso per Miguel Gomes nonché regista vista con Everyone Else (2009), mentre il primo segmento si genera da documenti appartenenti alla Filmoteca Portoguesa, un’istituzione portoghese che al tempo del corto rischiava la chiusura e di cui ora non ho trovato notizie certe. Il tutto è stato poi assemblato presso la scuola d’arte contemporanea di Le Fresnoy, a pochi chilometri da Lille, dove Gomes ha svolto un periodo di tutoraggio. Quindi, se nel complesso osserviamo il meccanismo produttivo dietro a Redemption, possiamo idealmente scorgere un’enorme ordito tramico adagiato sul Vecchio Continente, il che, in un tempo iper-connesso come il nostro, diventa un sinonimo di attualità, e si tratta di un bel paradosso visto che il film non è altro che il portare all’emersione del Passato.

Anche se Tabu era un’opera diversa, insomma: sceneggiatura, recitazione, ci siamo capiti, ritengo che possa esserci un collegamento concreto con Redemption. Anzi, il link non è per nulla concreto, ciò che li lega è un mood impalpabile che si può catalogare attraverso ampi contenitori quali nostalgia, malinconia, intimità, senza però concordare appieno, forse perché i tasti che sfiora Gomes sono troppo reconditi e appartenenti al regno dell’indescrivibile. Non è un film che cattura emotivamente, sia chiaro, ma la capacità di aleggiare in una dimensione appartata ci fa cogliere una bellezza primordiale, quella dell’infanzia, dell’indimenticato primo amore, della paternità, delle nozze, con il nugolo di paure connesse. È doveroso evidenziare però che quanto appena detto sgorga dall’attuazione di un procedimento filmico dove l’immagine contraddice la narrazione, infatti ciò che vediamo non corrisponde per filo e per segno alla voce over, soprattutto la parte berlusconiana che contempla anche la visione di Mussolini zigzaga in altri nascondigli dell’ieri, ma è proprio qua che sta il pregio capitale di Redemption, il suo essere ramingo, l’evenemenzialità del personale, l’immergersi nel Fiume del Tempo (cit.), la raccolta dei frammenti disparati e la restituzione organica ed unitaria di un flusso penetrante che stringe a sé temi di importanza cogente nel cinema: la forza che ha di richiamare un vissuto, la sua potenza falsificante, la connivenza con la politica che, miracolosamente, con Redemption assume una sfumatura più umana.

venerdì 18 dicembre 2015

Les derniers jours du monde

Virus, terremoti, esplosioni, attacchi nucleari: il mondo è agli sgoccioli ma a Robinson interessa soltanto ritrovare la sua Laetitia.

Pressoché disinteressati alle questione apocalittiche, i fratelli Larrieu, inseparabili compagni di direzione, puntano tutto sugli arzigogoli sentimentali di Robinson (un sempre stralunato Mathieu Amalric) il quale da par suo non si cura affatto delle catastrofi che sembrano affliggere il pianeta; c’è una voluta incongruenza tra i richiami fantascientifici da “fine dei giorni” e gli scenari in cui i Larrieu ambientano il proprio film, tutti paesaggi splendidi: né le spiagge di Biarritz né i ridenti paesi spagnoli oltre i Pirenei rappresentano i tipici palcoscenici pre o post-atomici (a onor del vero qui e là vengono piazzate strane morti, esplosioni, scosse sismiche, ma sono tutti fatti isolati), esattamente come è il protagonista che li calca: letteralmente immerso nella turbinosa storia d’amore che gli ha fatto perdere la dignità, la moglie e la mano destra. Questa sua (dis)attenzione che ha un riverbero calligrafico con la scrittura del diario personale, porta Robinson a fregarsene altamente della realtà che lo circonda, il che segna inesorabilmente uno scatto verso il surreale da parte della pellicola che non concede margini di compromesso: o le varie situazioni grottesche che si susseguono terranno viva l’attenzione, oppure il sfilacciato errare di Robinson risulterà vacuo nonché un filino presuntuoso.

Finché il registro è suddiviso dal pingpong passato-presente Les derniers jours du monde (2009) regge sì e no con disinvoltura perché l’alternanza fra il prima e l’ora dà un percorso “sensato” a quanto accade sullo schermo, l’opinione è che l’odissea di Robinson sia equipollente a quella che sta vivendo il mondo e che la sfuggente femme fatale sia una sorta di idea di bene o vattelapesca che una volta raggiunta, riavuta, riamata, possa mitigare i dolori del cuore, e quindi è abbastanza divertente (mmm) essere testimoni degli eventi che hanno reso Robinson il tipico zerbino maschile, ma questo equilibrio dura fino a un certo punto, e precisamente al punto in cui abbandonati i flashback (l’ultimo è quello canadese) ci si butta esclusivamente nell’adesso dell’uomo, e il suo presente diventa una sequenza di scenette scollate dalla forma reiterante: ogni persona che gli si avvicina (l’ex amante del padre, l’ex moglie, il migliore amico, la figlia del migliore amico) lo ama, senza essere contraccambiata (ad esclusione della moglie). Ci si perde, in sostanza, nell’episodio, nell’isolata circostanza dove il fil rouge-Laetitia si fa sempre più tenue (nonostante sia prevedibile e necessario il ricongiungimento conclusivo) e sempre più impoverito di senso.

Dovevano chiudere prima i fratelli Larrieu, il timing è troppo ampio per poter mantenere una coerenza interna, l’eccessivo girovagare non trova l’integrità filmica e, semplicemente, si sbraca riprovevolmente con propaggini di cui non si sentiva la necessità: il suicido nel teatro e del tenore, il castello boccaccesco. Alla fine la corsa nudista per le vie di Parigi è un contentino insoddisfacente.

martedì 15 dicembre 2015

It's the Earth Not the Moon

Corvo. L’isola di Corvo. Nel mezzo dell’oceano Atlantico. Azzorre. Un’isola di sette km per quattro. Abitata nell’estremità meridionale da un solo villaggio. Quattrocentoquaranta abitanti. Il cratere di un vulcano, il Caldeirão. Una strada. Un municipio. Un aeroporto. Una pista di atterraggio lunga ottocento metri. Un aereo tre volte a settimana. Un centro di salute. Una caserma di pompieri. La Sacra Casa di Misericordia, un asilo, una scuola. Un porto. Una chiesa. Un ristorante. Due bar. Tre… Stiamo andando a filmare tutto quello che possiamo. Cercheremo di essere ovunque nello stesso momento e di non perderci niente. Cercheremo di incontrare chiunque. Di filmare ogni faccia. Ogni casa. Ogni strada. Ogni posto di lavoro. E ogni angolo dell’isola. Ogni albero, ogni campo. Ogni mucca. Ogni maiale. Ogni roccia, ogni uccello. Ogni musica, ogni notte. Dall’isola di Corvo, è anche possibile vedere la Luna. Corvo è sulla Terra, non sulla Luna.

Memoir, diario di viaggio (e di esplorazione), ricerca etno-antropologica, documentario estatico, film sommes(/r)so e ramingo: si potrebbe andare avanti ancora e ancora per É na Terra não é na Lua (2011), opera che ha dell’herzoghiano nel suo essere così tenace, perché ciò che ha compiuto Gonçalo Tocha insieme al fonico Dídio Pestana è una vera e propria impresa sotto tutti i passaggi produttivi: recarsi nel 2007 nell’avamposto più estremo dell’Europa, l’isola di Corvo, la più piccola delle isole Azzorre, con una videocamera e un microfono, stabilirsi lì per quasi due anni e, aspetto più difficile, conquistarsi la fiducia degli abitanti, e quindi intrufolarsi nella loro vita, nelle loro usanze, nei loro riti, nelle loro paure e nei loro pensieri, e infine andarsene, e montare, impacchettare, distribuire il film fatto e finito senza il minimo appoggio di case cinematografiche.

Tocha, soltanto all’opera seconda, erige un monumento geo-storico che probabilmente non ha precedenti, una commistione tra Uomo e Natura spalmata su centottanta minuti (scrematura di centottanta ore di girato) che non solo apre il sipario su una realtà sconosciuta ai più, ma che registrando diventa archivio. È qui il cuore palpitante di É na Terra não é na Lua, ci sono molti documentari che si occupano di ripercorrere la Storia, di fare luce sul passato, questo, al contrario, la Storia la fa; non un lavoro di ricostruzione, bensì di costruzione, perché Corvo era un luogo che non aveva memoria (parecchi documenti finirono bruciati in un incendio) e Tocha, raccogliendo storie di balene e di preghiere, di anziane tessitrici e pescatori, di politici ed allevatori, e imbrigliando con il suo occhio i prati smeraldo, il vento, la pioggia battente, le cascate a picco nel mare, il mare impetuoso, ne edifica una nuova, una Memoria collettiva che dialoga con l’ieri (bellissimi, dopo quasi tre ore di proiezione, i filmati di trenta quarant’anni prima) consapevole dell’oggi.

lunedì 14 dicembre 2015

À l'ombre

À l’ombre (2006) è il cortometraggio precedente al debutto nel lungometraggio per il quebechiano Simon Lavoie, regista classe ’79 che ha già firmato opere sulla carta abbastanza interessanti come Laurentie (2011) o Le torrent (2012). Questo breve lavoro si occupa di illustrare la condizione di una mamma finita in un centro riabilitativo (o in un carcere femminile, non è specificato) che rischia di non poter vedere più il figlioletto per evidenti questioni legali.

La messa in scena è molto scarna, ridotta all’interazione attore-ambiente (ce lo suggerisce l’incipit con i clienti del bar che pian piano escono dal locale e lasciano la madre sola insieme ai suoi tormenti), caratterizzata da tonalità tenui con interni anonimamente bianchi ed esterni privi di calore; Lavoie non si concede alcun accento musicale spingendo al contrario su un dilatamento dei tempi dal quale si genera una siccità discorsiva che perlomeno si carica di una certa intraprendenza, se il regista avesse convenzionalmente utilizzato le parole il rischio sarebbe stato quello di procedere per ovvietà, imboccando chi guarda con le questioni genitoriali che invece così sanno tradursi anche soltanto con un semplice gesto (si veda il rifiuto che il bambino ha nei confronti della mamma), allo stesso tempo, a causa del torpore che innegabilmente ammanta il film, non è esattamente immediato il calarsi nell’oscurità millantata dal titolo, quel buio ombelicale che dovrebbe riguardare i due personaggi sullo schermo rimane un proposito in fieri, macchiato da una lungaggine che gradirei mi venisse spiegata (perché la donna si fuma una ciocca di capelli del fanciullo?), e otturato dal finale (a cui piacerebbe essere) adombrante dove la sottomissione saffica con battuta incorporata fa perdere due o tre tacche di credibilità. C’è della tecnica da manuale, manca una degna sostanza.  

venerdì 11 dicembre 2015

Flutti

Mi chiedo spesso cosa sia questa forza delle cose, della loro emersione improvvisa, lacerante, sconsolante: dove eravamo stati insieme? Abbiamo lasciato le stesse orme, sui marciapiedi, le sagome nel medesimo letto, adesso vorrei solo che la pioggia sgorgasse dalla terra per ripulire questo cielo nero. Potremmo ancora parlare della vita senza renderci conto che della vita non si può parlare, tu, fluente e presente, manifesto di contraddizione e bellezza luminosa, ancora sempre tu, la nostalgia che chiama a voltarmi: c’è stato del dolore laggiù, la rabbia ha colmato i cuori, li ha stinti, rinsecchiti, il vomito di vocaboli, cosa hanno sentito le nostre orecchie? C’è ancora uno spazio, però, è dove il ricordo si perpetua all’infinito, è proprio lì che ancora si è qualcosa, è questa forza tremenda del passato che non retrocede mai: la luna gigante, il profumo-limone dello zenzero, il nido in una Firenze ibernata, voglio lasciarmi invadere come l’onda del mare invade l’estuario del fiume, e in questa zona agrodolce dolcemente stare, pesto e infelice, sgravato dall’oggi: lasciatemi qui, per sempre di fronte a quella lingua arancione adagiata sull’orizzonte.

giovedì 10 dicembre 2015

Lena

La storia di Lena, tirocinante in un asilo con madre cellulare-dipendente, che pur non avendo una silhouette da miss riesce ad ottenere grandi successi con i maschietti, di tutte le età.

Fiacchissima pellicola belga diretta da Christophe Van Rompaey e scritta scelleratamente da Mieke de Jong, Lena (2011) è cinema mediocre che vuole, all’inizio, sfuggire alla tesi abusata della ragazza cicciona derisa/esclusa/introversa: la diciassettenne protagonista sembra una che sa il fatto suo, è indipendente, se la balla con leggiadria e a quanto pare le basta uno sguardo per accalappiare un uomo; sorvolando su queste scene d’abbordaggio con relativo coito francamente artificiose, la raffigurazione di una personalità così sbarazzina a differenza del corpo che la contiene perde qualunque potenziale perché incastrata nel solito disegno trito e ritrito di un declivio sentimentale. Alla parentesi di felicità con il ragazzo in questione non poteva mancare l’ineluttabile punto di rottura (causato peraltro da un fatto che non viene dettagliato), ed è da questo momento che il film affonda testualmente in un pantano di allusività nemmeno, ahimè, troppo allusive.

Che non si tiri in ballo la stolida psicologia da quattro soldi, non regge il discorso di una Lena a cui mancano nella vita delle figure genitoriali di rilievo e per cui l’attrazione verso il “suocero” può essere tale grazie a questa fandonia, e ugualmente il comportamento del padre non può venire giustificato con l’assenza coniugale che si protrae da parecchio tempo, semplicemente una svolta così netta dell’opera tramite siffatta liaison (forzata all’inverosimile) può funzionare al massimo, ma proprio al massimo, in un solo contesto: quello pornografico, davvero, manca credibilità, tensione emotiva, e qualunque altro ingrediente capace di allontanare dalla ridicolaggine un tale tradimento intrafamigliare, ed imperterrito Van Rompaey rimarca la propria condotta pruriginosa che involontariamente palesa una serie di capitomboli quasi dilettanteschi, difficile pensare che può esserci qualcosa di peggio nel vedere il papà cogliere il figlio copulante sotto la doccia: invece c’è ed arriva con l’impennata drammatica del finale che per la sua scempiaggine indigna profondamente.

Se per puro caso Lena capitasse sulla vostra strada, cambiate subito direzione.

martedì 8 dicembre 2015

De zee die denkt

Opera teoretica fino allo spasimo: De zee die denkt (Il mare che pensa, 2000) applica il ludus alla sua ricerca: siamo in un territorio pericoloso perché Gert de Graaff fa del metacinema con la “solita” missione di svelare il dispositivo nascosto, e ce lo suggerisce il prologo dove il risveglio dell’uomo si dimostra nient’altro che un set con operatore e regista. Realtà e finzione, come prospettabile, fungono da perigeo e apogeo al movimento filmico che quindi rimbalza senza sosta tra questi due estremi. Quello che Graaf compie, almeno nella prima interessantissima mezz’ora, è un continuo sconfessamento con successivo inveramento di ciò che vediamo: le interviste sono vere, no sono finte, un telefono squilla in tv, no squilla sul comodino del salotto, Winnie the Pooh vede delle tracce sulla neve, no sono soltanto le sue orme in cerchio. Il vedere diventa la materia centrale dello studio, e l’approccio alla tematica viene affrontato con una particolare punteggiatura fatta di illusioni ottiche à la Escher (non per niente un olandese), prese per i fondelli, azioni che manifestano il motivo dell’esercizio, tutto è falsificabile, perfino la cosa di cui siamo più certi: il nostro sguardo.

Parallelamente de Graaf innerva al discorso sul cinema una questione molto più ampia che punta dritto ad una disciplina filosofica come l’ontologia. Il sottoscritto non ha i mezzi per discernerne adeguatamente per cui mi limito a riportare i fatti, in sostanza l’anima del Mare che pensa è una profonda riflessione sull’essere attuata per bocca dello sceneggiatore Bart che scrivendo uno script non fa altro che scrivere (di) se stesso, ciò che batte a computer è ciò che accade e viceversa, e nel contempo proliferano indisturbate le domande irrisolvibili di un’indagine abissale che naviga alla cieca nel pensiero moderno, brancolando sì, ma riuscendo comunque ad instillare molti, ma davvero molti dubbi nello spettatore. I due binari (quello del dentro-cinema e quello del dentro-uomo) si toccano, si incrociano e si respingono per poi sovrapporsi perfettamente, il processo, lo intuirete, non è di immediata assimilazione, ma posso sottoscrivere la fertilità dell’operazione, e credo che non ci sia niente di più corretto nel definirla prelibato cibo per la mente.

Il punto è che De zee die denkt pur avvicinandosi più e più volte all’irreversibile cortocircuito, nella sua ultima porzione ispira addirittura ad un plausibile scioglimento così interpretabile: il ritorno della moglie dal Sud America ribalta l’assetto del mondo-Bart, l’uomo, infatti, se fino a quel momento era totalmente immerso nelle sue elucubrazioni filosofeggianti, al cospetto della compagna è obbligato alla resa. Se è plausibile identificare la moglie con la realtà, allora non penso sia un caso che la donna non venga mai inquadrata come a dire che la vera realtà, semplicemente (?), è invisibile. Lo scontro per Bart è potente, e, opinione personale, anche se non lo si avverte chiaramente, in modo implicito anche pessimista. Perché nel crescendo del finale si arriva ad un’amara conclusione: se la vita quotidiana reclama il suo spazio (la bambina da sfamare, una moglie lasciata sola nell’aeroporto) allora non è più tempo per le meditazioni artistiche: la manodopera svanisce e con lei la mano che l’ha creata, e insieme a loro il cervello che l’ha pensata. Quanto rimane è solo un’illusione calpestata da un gatto.

Mettetevi alla prova: immergetevi dentro De zee die denkt, pensate il pensiero in un mare pensante.

domenica 6 dicembre 2015

La leche y el agua

Un acquazzone biblico sconvolge la vita di una vecchina e della sua vacca.

La leche y el agua (2006), ultimo short prima del debutto The Thin Yellow Line (2015), è un corto di Celso R. García, regista classe ’76 laureato in Scienze della Comunicazione a Guadalajara, il quale si concentra nell’impostazione estetica per delineare la condizione della sua protagonista: e ci riesce, l’anziana donna si avverte come assolutamente sola poiché la baracca in cui abita è qualcosa di molto simile ad una casa-alla-fine-del-mondo circondata da una terra spaccata dall’aridità e accessoriata di un orizzonte polveroso dall’aspetto sinistramente marziano. Anche se non rientriamo certamente nell’ordine dell’eccezionalità, la percezione che l’esistenza dell’anziana sia fatta esclusivamente di solitudine è un dato che arriva, attraverso codici ordinari, ma comunque arriva. In aggiunta García introduce un pizzico di sentimentalismo con l’altarino dedicato al marito defunto che successivamente avrà un ruolo di primo piano per chiudere il cerchio del film, e non solo quello.

Ma il punto cruciale del corto è la dipendenza tra uomo e animale [1] che trova nel latte il punto di incontro tra i due esseri, non per niente la secrezione mammifera viene come offerta in dono alla foto del coniuge sull’altarino e nuovamente non per niente la grossa pozzanghera generata dalla pioggia torrenziale nel momento in cui la realtà lascia spazio alla surrealtà ricorda il siero bovino: l’acqua fangosa diventa bianca, pozza amniotico-sepolcrale, ricongiungimento latticineo col passato. Chi scrive è rimasto abbastanza soddisfatto del cambio di passo del film che permette di affacciarsi su panorami meno terreni, riuscendo a citare, senza scadere in melensaggini, quel capolinea senile accettato con grande umiltà da chi è l’attore principale di tale viaggio senza ritorno, quel sereno inabissarsi sotto il pelo dell’acqua che ci lascia un monito da prendere e da mettere nel cassetto del comodino: ognuno di noi ha una mucca a cui badare. E non è uno scherzo.
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[1] Il laccio tra la donna e la bestia, che si dimostra indissolubile nel finale, ricorda il documentario coreano Old Partner (2008) dove viene sovrapposta l’agonia di un fattore e quella di un bue che dopo trent’anni di durissimo servizio è obbligato ad andarsene nel paradiso dei buoi.

venerdì 4 dicembre 2015

Hazard

Shin in Giappone si sente addormentato e stanco, così vola negli Stati Uniti dove incontra due connazionali dalla vita sregolata.

Quarto film in un solo anno (è il 2005) per Sion Sono e prima trasferta fuori dalla terra natia, ma anche se la gran parte della pellicola è ambientata a New York e anche se nel cast vi sono attori non nipponici, il risultato non cambia poi molto: è il solito, straripante, Sono. Si possono rintracciare dei segnali di stile che riportano immediatamente al suo cinema, firme autoriali vergate con una narrazione over (per di più infantile) che illustra i personaggi e, appunto, con dei personaggi che come di consueto tracimano nel farsesco, diventano/sono macchiette senza però che si possa dubitare mai un attimo dei loro ruoli. Ad ogni modo, oltre ai tipici trademarks sononiani, Hazard possiede la quintessenza artistica del giapponese, commistione di generi apparentemente inconciliabili, avventure ingenue nel melò controbilanciate da frenetiche sortite action, il tutto innaffiato da ironia e violenza, anche verbale. Insomma, chi conosce Sono non si stupirà troppo di quanto contenuto nel film, si viaggia sui binari dell’ennesima conferma.

La trasferta a stelle e strisce obbliga all’introduzione di ulteriori fattori nella ricetta, c’è ad esempio per un ragazzo orientale il celeberrimo sogno americano che si frantuma fin dall’inizio con i due spacconi di colore che lo derubano con facilità irrisoria, e c’è parimenti il confronto con il crime fatto di sparatorie ed improperi irriguardosi nei confronti delle mamme degli antagonisti, tuttavia Sono non si spaventa di fronte a tali elementi forse nemmeno poi così “nuovi” per lui, li prende e li ricalibra secondo la sua metrica, segue i canovacci della categoria (la polizia corrotta) e al contempo se ne allontana: “dobbiamo trovarci dei nemici!” (lo scontro con la mafia cinese che in realtà è solo un mero gioco), ma non perde mai di vista il fulcro, Shin, ulteriore soggetto in formazione di una filmografia che ha sempre obbligato i suoi protagonisti ad auto-degenerarsi per poter crescere.

È durata così tanto la storia di un ragazzo che voleva solo volare…

mercoledì 2 dicembre 2015

Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza

Nel prologo di En duva satt på en gren och funderade på tillvaron (2014) uno dei tanti personaggi smunti del film osserva dei diorami in un museo. Quello di Andersson è un avvertimento: state attenti perché questo, nonostante gli sghiribizzi grotteschi, è arte-specchio, potreste vedere il vostro riflesso da qualche parte. D’altronde il cinema di questo svedese che dal 2000 con Songs from the Second Floor, passando per You, the Living (2007) e giungendo al Piccione ha messo insieme è una particolarissima trilogia sull’uomo, un cinema ostinatamente dioramico. Al di là dell’immobilità scenica (in tre film, se non vado errato, mai un movimento di camera) che ricorda le tipiche ricostruzioni museali, è proprio l’atto di riprendere il quotidiano nella sua superflua essenzialità che commemora in scala ridotta la desolante condizione della vita. Quello che ne risulta è una manifestazione di cinema inconsueta, una dichiarazione di stile che potremmo definire anderssoniano in tutto e per tutto. Indubbio che i suoi film siano imbevuti di uno humor nero che non è poi così raro trovare in un certo cinema centro-nord europeo [1], ed anche la coralità non è esattamente un’innovazione incredibile, con Andersson però si trascendono i possibili allacciamenti tra lui e alcuni dei suoi colleghi per atterrare in un territorio autistico, teatro di ripetizione ossessiva, idiota: se c’è un filo, e c’è, è quello della stolidità. All’autore non interessa l’ordito tramico, ogni scena è sempre sul punto di, oppure è già successo che, la vignetta è un contenitore separato dalle altre, inutile, a volte, cercare un legame durante la carrellata di quadri, loro sono lì, poveri orfanelli figli di quell’insensibile tragedia che si chiama esistenza. Morente.

Appurato l’apparato formale, propongo un’obiezione: alla luce dei tre film, il sottoscritto ritiene che soprattutto negli ultimi due Andersson abbia sfiorato il pericoloso declivio dell’auto-manierismo. Che nei suoi intenti vi sia l’amaro ritratto della contemporaneità è un dato di fatto e ce lo prendiamo molto volentieri perché è sempre utile subire radiografie artistiche del genere, a lungo andare, però, la perseverazione metodica disloca il baricentro facendo affiorare quel gusto di girare così… soltanto per il gusto di farlo. Nel Piccione, ad esempio, ci sarebbe il sottotema del denaro (lo ricorda la bambina che il volatile sul ramo pensa all’assenza di soldi) ad infoscare il disegno, tuttavia dell’argomento ne rimangono soltanto brandelli qua e là (il ricordo del vecchio nel bar; il cliente dei rappresentanti che urla la propria indigenza dallo sgabuzzino), il resto è un periodare di Andersson fra caricature e bozzetti nella brina esistenziale che compenetra ogni essere sulla scena. Tenendo comunque conto di due parentesi che impressionano, parlo della duplice entrata del re nel bar e di quella degli schiavi trattati come caldarroste (il film è tutto qui: è vedere la morte), la sequenza di gabbie con dentro gli “animali” (homo sapiens? ) non ha la forza di toccare in pieno il nostro animo, e forse data l’asetticità illustrata non era nemmeno interessato a farlo, ma onestamente dal cinema, almeno io, umile appassionato, chiedo un briciolo di più.
La semplice cronaca ci dice ad ogni modo di un inaspettato Leone d’Oro che nessuno aveva pronosticato. Per quanto possa vale un premio festivaliero (meno di zero, a Venezia la qualità latita da anni: Pietà [2012] appena passabile, Sacro GRA [2013] inguardabile), fa piacere il giusto riconoscimento ad un lavoro di nicchia protrattosi quasi quindici anni.
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[1] Andersson ha anche un degno epigono: Ruben Östlund.

sabato 28 novembre 2015

Permille

Cortometraggio indisciplinato sia negli argomenti quanto nell’argomentare i suddetti. Per ciò che concerne la prima istanza il tema trattato dall’islandese Marteinn Thorsson è quello degli effetti prodotti dall’alcol utilizzando un giovanottone di nome Erik come “cavia” per esporre i suoi intenti; nulla di strano se non fosse che il regista scompagina la linea narrativa sovrapponendo la realtà al sogno e viceversa; l’operazione, che è difficile non credere che funga da diversivo per distogliere l’attenzione da un plot risicatissimo che in buona sostanza non dice nulla di interessante, viene accompagnata da una tecnica che copre le evidenti falle della non-storia calamitando su di sé le attenzioni ottiche. Thorsson filma in digitale a qualche passo di distanza dalla convenzionalità (notare il dialogo tra Erik e fidanzata dove un “normale” campo-controcampo è contaminato da accorgimenti stranianti), appiccicandosi agli attori per penetrare nei loro pensieri e adoperandosi in fase di editing con particolari sfocature che ben rendono lo stato confusionale in cui brancola il protagonista. Ma in generale la pochezza troneggia al punto che definire Permille (2010) un film tranquillamente evitabile è l’idea che ogni persona dotata di un minimo di senso critico esprimerebbe a fine visione, parimenti è giusto riportare una voglia di ricerca estetica da parte di Thorsson non disprezzabile che insieme alla presenza di un finale spalancato (e, non lo nego, anche un filino inquietante) costituiscono due punti sotto la voce +.
Da sciogliere la questione dei numeri che scandiscono il girato, si tratta del tasso alcolemico di Erik?

Nel cast anche Elma Lísa Gunnarsdóttir vista in un ruolo minore in Volcano (2011).

giovedì 26 novembre 2015

Waste Land

Vik Muniz, rinomato artista brasiliano stabilitosi da tempo a New York, ritorna nella patria d’origine, precisamente nell’enorme discarica di Jardim Gramacho situata a Rio de Janeiro, con l’idea di coniugare in un ambizioso progetto tre aspetti fondamentali: l’arte, i catadores e la spazzatura.

Waste Land (2010), documentario dal curriculum pieno di prestigiosi riconoscimenti (Nomination all’Oscar, Berlino, Sundance) e diretto dalla prolifica londinese Lucy Walker, si apre esplicitando a chiare lettere che al mondo Muniz è “il più importante e conosciuto artista nato in Brasile” (queste le parole esatte del David Letterman carioca), tuttavia il focus della pellicola è ben lungi dal sfornare un biopic su di lui o sulle sue produzioni e ciò lo si intende con l’arrivo nella discarica che lascia l’eloquenza alle immagini: vediamo colline di rifiuti che sorgono di continuo grazie a camion che svuotano il loro contenuto dinanzi ad un esercito di brulicanti essere umani con la pettorina gialla, i catadores (raccoglitori, o meglio: riciclatori), che si avventano sull’immondizia cercando del materiale riciclabile da rivendere per riuscire ad intascare qualche misero soldo.
Si profila ben presto l’idea che se c’è una biografia essa è proprio quella del luogo nauseabondo qui ripreso e delle persone che vi lavorano all’interno, e in effetti la mdp di Lucy Walker nel seguire gli “incontri preliminari” di Muniz con alcuni riciclatori tratteggia dei profili umani le cui vite sono segnate dalla povertà, il che probabilmente non lascerà di stucco visto che tutti sanno cos’è una favela e quale sia il tenore esistenziale di chi la abita, ad ogni modo i ritratti di miseria sono effettivamente tali e vedere questi uomini costretti a grufolare in un girone dantesco dove gli scarti della società, o magari perfino i loro stessi scarti, sono il pane quotidiano che permette di tirare avanti, beh, indubbiamente fa pensare, pensare e pensare ancora.

Il proposito di Muniz arriva subito dopo il disegno antropologico: una volta scelti i suoi “soggetti” le intenzioni si dispiegano come artistiche (La Morte di Marat) ma anche e soprattutto umanitarie. Al di là delle questioni economiche (con la vendita delle opere i protagonisti delle stesse hanno potuto abbandonare il lavoro alla discarica e realizzare i propri sogni, anche se qui sorge una domanda: e tutti gli altri raccoglitori?) il suggerimento da afferrare e che si legge nelle lacrime di coloro che fino a quel momento non avevano idea di cosa fosse l’arte contemporanea, è di come quest’ultima diventi nel giro di qualche giorno il salvagente della Vita: l’arte che assorbe tutti i mali e che riabilita nel quotidiano, nell’intimità (uno di loro dirà che prima di incontrare Muniz il fatto di lavorare a Jardim Gramacho lo faceva vergognare molto mentre ora ne andava fiero), e che, grazie alla sua forza (dell’arte), è capace di riscattare anche l’immondizia, la quale servendosi di un potere del contesto molto duchampiano può passare con disinvoltura dai mucchietti puzzolenti in Brasile ai muri di un museo inglese.

Sigillo col finale che chiude il cerchio: il riscatto si compie nello stesso studio televisivo dell’inizio, Tião, presidente dell’associazione, sottolinea davanti alle telecamere il proprio lodevole status, e la parabola lacrimevole può quindi concludersi.

martedì 24 novembre 2015

Story of My Death

Albert Serra, l’autore europeo interessato più d’ogni altro suo collega ad una forma di cinema che attraverso la smitizzazione storica lavora sul e nel contemporaneo, giunge al terzo lungometraggio travisando il titolo dell’opera più conosciuta di Giacomo Casanova, e proprio Casanova è il centro dal quale si propaga un’opera proteiforme, complessa e coltissima, il cui confronto con i due lungometraggi precedenti di Serra apre scenari molto interessanti. Dunque, Honour of the Knights (2006) e Birdsong (2008) avevano sicuramente due punti cardine in comune: lo stile e le relative caratteristiche costitutive, se sul metodo è più facile discernere poiché di fronte ai nostri occhi e per tale motivo accennerò giusto ai criteri della dilatazione, dell’afasia, ecc., sull’essenza, se così si può dire, è bene ricordare del parallelo processo di destoricizzazione: Don Chisciotte e i Re Magi, due corpi nitidamente incastonati in una realtà prettamente romanzesca (La Bibbia è un ottimo romanzo storico d’altronde) e di rimando proiettati nell’immaginario collettivo di ognuno di noi, spogliati di ogni valore storico-culturale, nemmeno parodiati, più sottilmente alterati, trasformati: falsati, senza alcuna accezione negativa. Il risultato, in ambo i casi, fu potente e tatuato nelle iridi dei fortunati spettatori. Allora, Història de la meva mort (2013) come si pone nei confronti dei suoi predecessori? Siamo in presenza di una continuità o di un’amputazione? È importante chiederselo? Sì, lo è. Ed è meglio rispondere in un altro paragrafo.

Alcune connessioni sono innegabili: anche qui il metodo di Serra è quello flemmatico del cinema sospeso, e anche qui, ça va sans dire, è di una famosa figura storica che si parla, tuttavia un leggero distacco lo si ravvisa nella marcata presenza di linee dialogiche, questo da un lato fa scemare un po’ quel magnetismo a cui Serra ci aveva abituato, mentre dall’altro apre nuovi scenari per un possibile sviluppo autoriale, ad ogni modo era inevitabile che nella costruzione del personaggio-Casanova vi fosse una spiccata verbosità date le sue rinomate abilità seduttive. Tale riflessione ci conduce nel cuore della questione: Història de la meva mort possiede una grossa novità rispetto ai due antesignani, il procedimento di contro-deificazione sopramenzionato non si ripresenta pienamente né per Casanova, né per Dracula. In Story of My Death ciò che essi sono è ciò che ci si aspetta che siano, l’uno è il latin-lover pronto a decantare le proprie conquiste, l’altro è l’oscuro signore che vive nel castello e che va matto per i colli eburnei del gentilsesso. Perciò non abbiamo più il ritratto deformato dalla lente serriana del singolo mito, del singolo Racconto, abbiamo molto di più: come giustamente riportato da molti recensori in Rete, Casanova e Dracula non sono altro che l’impersonificazione di due epoche diverse e quella di Serra diventa così la rappresentazione del soverchiamento dell’una sull’altra, sicché il quadro si fa inaspettatamente più ampio e carico di una significazione d’altro valore, se prima Serra infondeva magnificamente il senso più sull’esteriorità (il senso dentro l’immagine è alla radice del vero cinema) e quindi toccava certi tipi di vette, qui, tenendo comunque conto di un grande apparato visivo tutto giocato tra ombre e penombre, è la grande metafora a costituire la portata semantica. Anche se maggiormente narrativo il cinema di Serra continua la strada della densità concettuale, seppure in un modo diverso.

Soddisfatti? Certo che sì. Sarebbe da sconsiderati snobbare un film del genere additandolo come noioso o inconcludente, Serra è ormai a tutti gli effetti un terrorista dell’adattamento storico a prescindere dal tipo di criterio adottato, non aderire alla sua visione significa rigettare uno dei pochi casi in cui la parola postmoderno non è usata a casaccio.

Un grazie alla recensione di poor Yorick che mi ha aiutato a stilare i concetti esposti.

domenica 22 novembre 2015

Kaïn

Due ragazzi si azzuffano in un bosco. Uno uccide a pietrate l’altro.

Proiezione berlinese del 2009, Kaïn è il secondo (o primo: bisogna vedere se va contato il breve documentario A Horse That Dies [1999] con cui il regista si è diplomato) cortometraggio del belga Kristof Hoornaert, giovane regista diviso fra produzioni indipendenti e spot pubblicitari per grandi multinazionali. Kaïn, transitato in molti Festival del globo terracqueo, fa del minimalismo la propria sostanza, lascia ad un altro cinema il compito di spiegare le eziologie preferendo cominciare in media res: una legnata tremenda colpisce la zucca di un malcapitato. Punto. A fare da sfondo c’è la natura imperturbabile, anche se i dettagli da documentario come insettini zampettanti, grossi bruchi pelosi, scorci di verdi fronde e un tappeto acustico costituito dal soave cinguettio degli uccellini trasportano l’elemento naturalistico in una posizione che supera di gran lunga lo status di comparsa.

A questo punto Hoornaert diviene troppo immediato perché la contrapposizione fra un’umanità che si accapiglia dandosele di santa ragione e che arriva ad ammazzarsi vicendevolmente versus un bosco incontaminato teatro giusto per una scampagnata e non per un omicidio, arriva all’istante con la successiva presa di coscienza che nel film non vi è nient’altro che possa dare profondità. I minuti in cui l’assassino si porta appresso il “pesante” carico non aggiungono nulla che non sia comprensibile già dalla prima sequenza, e pure il bagno nel laghetto (rafforzato semanticamente dal fotogramma stampato sulla locandina) in quanto metafora detergente accusa la stessa facilità di accesso della dicotomia uomo/natura. Resta in ogni caso il tatto registico da parte di Hoornaert che offrendo un discreto comparto visivo supplisce all’eccessiva esplicazione degli intenti.

venerdì 20 novembre 2015

Bad Family

Daniel (il figlio che ha vissuto col padre) incontra dopo parecchio tempo la sorella Tilda, che invece ha vissuto con la madre, a causa della morte di quest’ultima. Tra i due nasce un’amicizia che insospettisce di brutto il padre.

È il tintinnio di un carillon a fare da bretella fra i rimpalli emotivi di questa riunione famigliare, cellula molto vicina all’implosione scritta e diretta dal regista finlandese Aleksi Salmenperä e finanziata dall’istituzione Kaurismäki, che punta l’indice sul ruolo del papà, uomo dalla vita encomiabile e dal lavoro altrettanto ammirevole (è un giudice), che però alle prese con una ricostruzione inaspettata del nido famigliare (eccetto la moglie, rimpiazzata da una nuova compagna) non riesce ad essere più super partes, si smarrisce letteralmente in un vicolo cieco e paranoico che non fa altro che mettere in luce la sua inadeguatezza come genitore; ciò è esternato abbastanza bene dal regista il quale suggerisce, forse, che Mikael anche nelle vesti di figlio non si sente affatto comodo visto che il suo di padre è una specie di automa anaffettivo. Purtroppo non si può dire che le mere azioni che svolge per tentare di sbrogliare i propri dubbi siano convincenti quanto la crisi del suo status perché nel vederlo sparare in aria un colpo col fucile per un banale fraintendimento o piazzare maniacalmente una videocamera nella stanza dei ragazzi, il rischio è quello di provocare una forma di comicità involontaria che di certo non fa bene alla pellicola, per il sottoscritto l’errore commesso da Salmenperä è quello di aver dato un tono così austero, drammaturgicamente rigido, che le note dalle potenzialità ironiche spiccano per contrasto con il mood in cui sono intrecciate, ma è ovviamente un contrasto dall’effetto negativo poiché ragionando all’opposto non è che sul piano del dramma vi siano cose veramente memorabili, un limbo sonnolento appare la dimensione più adatta in cui inquadrare Paha perhe (2010).

Anche nel rapporto pseudo-incestuoso fra Dani e Tilda il torpore nordico prende il sopravvento: l’intesa confidenziale è patina banalizzante, la malizia è d’accatto, si registra a livello contabile ma latita il possibile feedback dello spettatore, quelle che vorrebbero essere delle impennate, dei graffi che rimangano, sono moine sedute dove pesa sulle loro spalle un ordito tramico dalla lettura profetizzabile (davvero si può credere anche solo per un attimo che i due riescano a coronare il piano studiato?), che si inaridisce nelle magre asperità padre-figlio/a fatte confluire in maniera per nulla convincente in un finale ammosciato dalla svolta simil-tragica che “grazie” al finto rapimento sortisce l’effetto contrario, è ancora una questione di credibilità: difficile contemplare in un paesaggio filmico (ma anche personale se guardiamo il padre) così piatto un’accelerazione pressoché estranea, senza fondamenta, che fa traballare non poco (c’era davvero bisogno dell’episodio delle dita mozzate?) e suggerisce un pensiero cattivello: di Kaurismäki oltre ai soldi c’era bisogno del suo cinema capace di unire territori divergenti con la semplicità propria dei Grandi, posizione a cui Salmenperä, stando a Paha perhe, non è evidentemente ancora giunto.

mercoledì 18 novembre 2015

Les états nordiques

Un uomo uccide una donna in stato vegetativo e si rifugia a Radisson, cittadina del Quebec.

Debutto di Denis Côté e già si intravedono segnali beneauguranti: anche in questo primo film la tendenza è quella di caricare l’ambiente di un’importanza decisiva, non sfondo ma fondo, base, piedistallo che regge i movimenti concettuali del regista. Tutto il cinema di Côté trova essenza nella provincia, nelle storie ruvide e periferiche di esseri umani obbligati a rapportarsi con un territorio silenzioso e indifferente ai problemi che appesantiscono il loro vivere. Per quanto visto fino ad oggi è Curling (2010) l’apice di tale percorso artistico, ciò non toglie che anche i film precedenti abbiano voce in capitolo nonostante le comprensibili cadute, e Les états nordiques (2005) è un manifesto concreto di quanto si sta dicendo, la vicenda del protagonista è infatti esemplare: lo spostamento che compie verso un paese dimenticato dal Signore è lo stesso che compierà più volte Côté nella carriera che da lì a poco edificherà film dopo film, e c’è da evidenziare che proprio il canadese si prende delle belle responsabilità pur proponendosi come esordiente, ha coraggio, e ce lo suggerisce girando una mezz’ora di pressoché totale mutismo, affidandosi ad un minimalismo che nel giro di poco riesce a intonare la litania triste di una condanna (dietro a quel bip-bip ci sono almeno due vite distrutte, e un Cristo troppo piccolo per poter lenire il dolore con il suo sacrificio), giungendo al vertice drammatico (nel fuori campo) dopo neanche dieci minuti, per proseguire poi con una straniante varietà tecnica che contempla rantolante camera digitale a mano, interviste documentaristiche, estasianti riprese panoramiche ricolme di terra, erba, acqua, vento e così via.

La strategia di Côté si fa evidente con la progressiva intromissione di Christian all’interno della comunità quebechiana, chiaramente l’esposizione di Côté non è diretta allo spettatore con la pancia piena bensì a quello che ha fame di vedere-altro, per cui è necessario prepararsi ad affrontare un ritmo sottommesso da una narrazione che non si interessa di concatenare eventi e contenuti preferendo un’estemporaneità dei fatti che solo attraverso un’osservazione d’insieme prende una consistenza globale, perché ogni episodio di ordinaria quotidianità (le nuotate in piscina, la sbronza al pub, la gita di pesca) all’interno di Les états nordiques segna i piccoli passi in avanti di un uomo che, semplicemente, deve ricostruirsi, che deve riabilitarsi e reintrodursi nel mondo, che deve ripulire la coscienza (due paradossi: Radisson è una città che convive con l’acqua vista la presenza di una centrale idroelettrica; Christian trova lavoro come netturbino), e in un cinema-collage di tal fatta il regista è capace di instillare argomenti di più ampia portata, quasi universali, esplicitati dalle affermazioni degli studenti che pur essendo slegate dal film ovviamente ne fanno parte diventando la Voce sfaccettata di un pensiero comune, un pensiero riguardante Christian che uno spietato Côté prima illude e poi affonda con l’ultima inaspettata scena.
Seguite, seguiamo Denis Côté, è uno bravo.

lunedì 16 novembre 2015

A Good Day for a Swim

In O zi buna de plaja (2008) c’è un forte senso di desolazione che viene decretato dalle prime tre, ma facciamo anche quattro, immagini montate sequenzialmente: una spiaggia deserta, una stazione di servizio dove l’unica auto a muoversi è quella della polizia proprio di fronte al camioncino giallo, un incrocio altrettanto disabitato (e il dettaglio di due gambe in calze a rete da cui cola un liquido dall’intuibile provenienza). In questo contesto di assoluto abbandono illustrato con poche e semplice istantanee non sorprende nemmeno tanto la totale anarchia di tre ragazzetti imberbi che scorazzano selvaggiamente per le strade spopolate e trasformano una gita al mare in un sadico parco giochi.

Il regista rumeno Bogdan Mustata, autore che nel 2013 si proporrà nel lungo con Lupu, fornisce senza ricorrere ad uno spiegazionismo svilente un quadro di adolescenza deviata che non vuole essere parabola né bigino di morale educativa; la sottigliezza del cortometraggio sta proprio qui: nell’indipendenza dai perché, dalle ragioni sociali (comprensibili [ricordiamo che siamo in Romania], ma per fortuna non teatralmente esplicitate), dalla stigmatizzazione dei comportamenti, al contrario si fa mezzo in un mondo che va preso per come è dove dei poco più che bambini sono delle divinità maligne che giocano con la vita (quindi la morte, e a quanto pare anche con l’amore: “vi dichiaro marito e moglie”) di adulti che nulla possono. Se tutto ciò possa rappresentare un fatto traslabile al di fuori del cinema è un dubbio che rimane insoluto, sta allo spettatore immaginare la scomoda risposta.
Orso d’Oro di categoria a Berlino 2008.

sabato 14 novembre 2015

Blood of My Blood

Simultaneità: è questa la parola d’ordine utilizzata dal portoghese classe 1957 João Canijo che con Sangue do Meu Sangue (2011) costruisce un ecosistema filmico fatto di equilibri fragili prossimi al collasso e convivenze scomode, suddivisione di territori visibili e udibili in cui ammontano contemporaneamente più elementi: bi-tripartizioni, in ogni piano proliferano rigagnoli dialogici, estetici e di genere, infatti, il primo elemento che si ficca subito nell’occhio è la bravura di Canijo nel destreggiarsi all’interno degli spazi casalinghi usando l’architettura delle abitazioni (un muro, una porta, una finestra) come strumento scenografico capace di splittare il quadro, sdoppiando perciò lo spettro visivo dove coabitano immagini legate e ugualmente indipendenti; in questo pregevole gioco prospettico il regista lusitano, assistente di Wim Wenders nel lontano ‘82, fa in modo che le piste audio seguano l’andamento sulla scena e la accompagnino con il loro passo esponenziale disciolto nelle istantanee reali; eppure il linguaggio della pellicola non si sostanzia soltanto in conversazioni a briglia sciolta tra i componenti della famiglia ma sa anche incanalarsi nelle rigidità della rappresentazione e ciò si deve ad un ulteriore fusione, quella categoriale, che vede la concomitanza di generi diversi senza che vi siano note stonate, sicché gli intermezzi romantici tra Cláudia e il dottore che come viene sottolineato da Dario Stefanoni sanno di soap opera decomposta (link) e i relativi squarci drammatici che diventano lacerazioni sanguinolente nel finale, contribuiscono alla creazione di una babelica sinfonia, coincidenza di vite, depressioni ed espressioni, consesso famigliare che mai si concilia a causa di un mondo in dilagante smottamento.

Sangue do Meu Sangue, oltre che cinema di geometria, accorpa anche un motivo di studio etno-geografico dentro di sé: i titoli di coda che scorrono su delle panoramiche di Bairro do Padre Cruz, misero quartiere a nord di Lisbona, suggeriscono la centralità del luogo (rimarcata dal costante ed invadente sottofondo acustico) che un po’ come per la trilogia ambientata a Fontainhas di Pedro Costa annovera al suo interno uno stuolo di ritratti umani stritolati dalle morse di un’esistenza esecrabile: non solo la piccola malavita, non solo la droga, non solo i tradimenti sentimentali, non solo la disillusione dell’età che avanza, ma nuovamente tutto questo proposto e incapsulato in un contesto domestico a-patriarcale, un gruppetto tenuto faticosamente in piedi dalla madre dove le connessioni tra i singoli membri sono piene di cicatrici, fili spezzati e riannodati, legami che si intrecciano, che si amalgamano in un mescolamento spurio che ha nella casa-gabbia il proprio inquinato teatrino: prima ancora del colpo di scena, inaspettato e deflagrante, il legame tra zia e nipote è alterato da una incestuosità silente, suggerita (loro sul divano), illustrata con la scelta conclusiva della donna disposta al sacrificio che precipiterà, inevitabilmente, nel sangue.

Passato anche in Italia al TFF ‘11, il film di Canijo è un compromesso invitante fra cinema, se così si può dire, del reale (lo stesso di Mendoza, di Puiu, ecc.) e cinema della raffigurazione, un’opera che però non si ferma al ritratto sociale, tableau vivant organico, viscoso, reticolare, quando il melodramma sui generis sa ri(/de)generarsi e diventare arte (sudicia).

giovedì 12 novembre 2015

Jauja

L’unico limite di Lisandro Alonso era la linea dell’orizzonte.
Se si esclude il versante avanguardistico (ammesso che questa catalogazione abbia un senso), non mi sovviene nessun altro regista nell’attuale panorama mondiale che svolga all’interno dei suoi film una ricerca così fondante dello spazio nel cinema e di come il cinema, soprattutto nell’ottica di Jauja (2014), possa non avere più uno spazio, né geografico, né mentale, ma ci arriveremo. Intanto è interessante notare di come la cornice, e quindi lo spazio extrafilmico, il nostro buco della serratura, ha il formato 4:3, una scelta inusuale (di recente altri due contemporanei ce l’hanno proposto: Sokurov [Faust, 2011] e Reygadas [Post Tenebras Lux, 2012]) perché in teoria limiterebbe lo sguardo di Alonso che vive nell’ampiezza, nel campo totale. Ma è giusto così: la destabilizzazione è il processo a cui dobbiamo felicemente sottostare, Alonso gestisce il nostro spazio, la finestra a cui ci affacciamo per osservare una Patagonia immobile, dipinta, un palcoscenico naturale. E qui ritroviamo l’Alonso dei film precedenti e la sua straordinaria sintassi che ci pone continuamente in sfida col nostro comune sentire; negli occhi c’è ancora la sparizione del protagonista di Liverpool (2008) verso l’orizzonte innevato (come detto, l’unico punto oltre il quale Alonso “non ci può più far vedere”… fino a Jauja), situazione che in parte si ripete anche qui, e più in generale è nuovamente reperibile l’atmosfera di estesa fissità (spaziale e temporale) che ingloba l’opera, ci sono però delle varianti inaspettate perché ad esempio alla proterva lentezza controbattono improvvise apparizioni di cadaveri insanguinati (certo, accadeva in modo similare anche nei film pre-Liverpool, ricordo un episodio affine in Los muertos [2004], ma in Jauja la professionalità acquisita di Alonso sortisce un effetto superiore), così come alla sordità eterna del deserto risponde un lievitante ingresso musicale sotto le stelle, senza scordare la replica all’orografia del paesaggio, dall’apertura marina alle materiche pietre laviche, col clamoroso strappo verso l’oltre tangibile.

Che questo sia un film senza coordinate lo si può intendere da una piccola questione come la lingua parlata da Mortensen (danese in America Latina? Suona strano), e dal solito marchio stilistico dell’autore argentino che col suo approccio radicale ha sempre sganciato i suoi uomini dal mero ritrattino. Ma come accennato poc’anzi delle sfumature mutano il colore e, se si scende in profondità, si scova una materia nuova nella lezione di Alonso, una leva che permette di scardinare il lucchetto che incatena gli eventi. Se almeno inizialmente pensiamo di trovarci al cospetto di una rappresentazione storica sui generis (a tal proposito si potrebbe pensare che le visioni filmiche del suo amico Albert Serra [1] lo abbiano un po’ influenzato) con tanto di siparietti comico-sentimentali sull’asse padre-figlia-amante, una volta avvenuto l’allontanamento solitario di Mortensen il film si fa ramingo e dall’apparizione del cane in poi squaderna la non-collocabilità del luogo, non-Patagonia, poiché in prima battuta luogo celebrale e ce lo testimonia l’incontro con la vecchia donna che parla danese dentro la caverna-testa. Inaspettatamente c’è molto simbolo in questa porzione della pellicola, eppure non è nemmeno l’ultimo gradino, perché quello che succede nell’ultimo quarto d’ora alza di una tacca tutto il discorso e ci fa sprofondare nell’interrogativo. Ed è così che in seconda battuta non c’è più lo spazio della geografia e menchemeno quello della mente, anzi qualunque interpretazione psicologica sfuma dato che il padre si scoprirà essere soltanto la rotella di un altro ingranaggio. Potrebbe essere sogno, tuttavia la carta dell’onirismo non basta, è di più, è un regno indefinibile in cui non ci può essere alcuna guida, le cose attraversano il tempo (il bambolotto ed il cane) e lo spazio si sovrappone (le parole dell’uomo nel giardino che dice alla ragazza di essere stata via per un po’).

Jauja, il lavoro più compiuto di Alonso, si rivela quindi opera apertissima, un vero e proprio forum che, come nella tradizione che più preferisco, fa proliferare i quesiti lasciando a zero le risposte. E poi, dal punto di vista strettamente tecnico, non si può non riportare l’interessante variazione narrativa (è comunque il film di Alonso con la traccia di racconto più marcata, almeno nella prima parte, dove, tra l’altro, coesiste una sottile ironia) e la luminosa fenditura che dà su mondi ulteriori, ‘sta volta ben oltre la linea dell’orizzonte. Tutti indizi che confermano uno status autoriale semplicemente superiore.
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[1] La stima è sottoscritta da un corto di Alonso datato 2011 dal titolo inequivocabile: Sin título (Carta para Serra).