Oplà, saltiamo
subito alle conclusioni: adesso che la trilogia paradisiaca di Ulrich
Seidl è scorsa davanti ai miei occhi mi sono fatto un’opinione
piuttosto precisa. Già con i dure episodi precedenti lamentavo
l’assenza di una forte incidenza sul nostro tasso d’impressione
da parte del regista austriaco, soprattutto Paradise: Faith
(2012) si macchiava di una cospicua dose di prevedibilità per
cui l’effettivo svolgimento della sinossi acquietava
l’opera in un orizzonte piatto e inerte. La discesa di
Seidl subisce un’ulteriore accelerazione con Paradies: Hoffnung
(2013), il film più innocuo della sua carriera al pari di
Models (1999). Il perché di una tale docilità
esplicativa ha almeno due motivazioni: la prima, nonché quella
decisiva, è dovuta al fatto che Seidl, in questa trilogia, e
soprattutto in Hope, ha abbandonato quello spirito corale che
permetteva una rifrazione molteplice delle miserie umane
rappresentate. Avendo un solo focus (una donna per ogni film) con cui
poter veicolare i propri intenti, la possibile carica notificante,
cioè il passaggio fondamentale per cui il pensiero di Seidl
esplicitato nelle immagini filmiche dovrebbe riverberarsi nel nostro
sentito, non giunge a destinazione. La storia tra Melanine e il
dottore è tutta una parvenza, un tiro neanche troppo corretto
che fa leva sulla concretizzazione o meno di una realtà
sessuale tra un uomo e una ragazzina, penso che questa volta non ci
siano dardeggiamenti convincenti alla società occidentale (e
quindi a noi), il film è troppo arginato dai rivoletti
sentimentali dell’adolescente che saranno anche universali ma che
al contempo saranno altrettanto risaputi. Il continuo rinvio di una
catarsi carnale diventa l’unico motore pruriginoso del film,
onestamente mi sembra pochino.
La seconda motivazione
per cui Paradise: Hope non è entrato nelle mie grazie
si discosta dai possibili meriti/demeriti dell’austriaco, forse, e
qui chiedo scusa al lettore a cui consiglio di abbandonare la lettura
poiché sto per divagare in modo scriteriato, dicevo: forse il
punto cruciale è che non è tanto Seidl ad essere
cambiato, sono cambiato io. O meglio, è cambiata la mia
sensibilità nei confronti del cinema che vedo. Il processo
evolutivo (o involutivo, chissà) di interiorizzazione di
un’opera d’arte cinematografica a cui sono andato incontro in
anni e anni di visioni si è profondamente modificato, e con
esso è cambiata anche la persona me medesima. Non ne ho la
certezza, ma credo che se oggi rivedessi un Canicola (2001)
qualunque non mi lascerei andare a chissà quali plausi.
Attualmente, e lo dico con grande franchezza, non credo più
molto nel cinema di Seidl, e dico Seidl ma è come se dicessi
buona parte dei registi che hanno riempito le pagine di questo blog;
da dove sono ora, che non so esattamente dove sia ma so che non è
dove sono stato per tanto tempo, vedo molto di quel cinema come un
intrattenimento, non l’intrattenimento becero, sia chiaro, ma in
generale un coacervo di esemplari più o meno conforma-mente
narrativi. Il problema credo stia proprio lì, nella
narrazione, se si vuole andare avanti è necessario scardinare
i dogmi metodologici, e seguendo come esempio i binari di Hope,
ovvero il consumato canovaccio di un percorso amoroso, si arriva al
massimo a quell’intrattenere sopraccitato. Ma chi si ferma qua è
uno stolido. Bisogna sempre rapportarsi al verticale, che sia il
cielo o che sia l’abisso, ciò che sta alla nostra altezza
non ci fa crescere di un centimetro, e Paradies: Hoffnung
sta proprio lì, banalmente a portata di mano.