Stimolato dall’eccentrica visione di Songs from the Second Floor (2000), mi sono buttato su quello che ad oggi è l’ultimo lavoro di Roy Andersson: You, the Living (2007).
Le assonanze col film precedente sono tante e tali che questo Du levande può benissimo essere considerato la sua prosecuzione naturale. Anche qui non esiste una vera trama, si tratta piuttosto di un procedere per quadri, accompagnati dalle palleggianti note di un trombone, in cui non c’è un protagonista principale né personaggi secondari. Andersson riprende frammenti, istanti, secondi di vita (vuota) sempre con occhio sarcastico, a più di un passo dal grottesco.
Il regista svedese ripropone il suo personalissimo stile caratterizzato dalla totale staticità della macchina da presa. La sua scenografia sembra un po’ quei fondali già prefigurati per videogiochi stile Resident Evil con cui i vari characters non potevano interagire. Può piacere o meno, di certo è un’operazione coraggiosa degna di nota.
Non è tutto oro quel che luccica, difatti la banda suona con gli ottoni.
Il film, al pari del suo predecessore, accumula pian piano la necessità di uno scioglimento, anche di un minuscolo indizio che permetta di ricostruire il “caso”. Ma l’aspettativa rimane tale.
La sensazione è che se in Songs c’era un sottotesto bello forte con quelle frecciatine alla religione, qui si tende a sparare nel mucchio; una coppia in crisi o la teen-ager innamorata del chitarrista rock sono solo due delle tante figurine che affollano il film. Non c’è un vero filo conduttore tra di loro, a parte quello della mediocrità che le attanaglia, ma codesta rappresentazione dell’uomo medio non mi ha colpito granché per come è stata resa sullo schermo.
Le aspettative c’erano anche su una possibile scena conclusiva che riuscisse ad essere potente almeno un decimo di quella del giorno del giudizio, ma anche qui si è affacciata un po’ di delusione: non basta quella squadriglia di aerei che solca il cielo annunciata in apertura di film per chiudere in maniera convincente questo cerchio surreale.
Sorprende positivamente, invece, la sequenza onirica in cui il chitarrista si mette a suonare e il paesaggio dalla finestra inizia a scorrere come se quello fosse il vagone di un treno. Direi che in questo caso, per una volta, il termine visionario non è sprecato.
E Andersson lo è davvero un regista visionario, nonostante un passo falso commesso comunque con stile e probabilmente consapevolezza. C’è bisogno del suo contributo per smuovere le melmose paludi della banalità, peccato sia poco prolifico: solo 4 film dal 1970 a oggi!
Le assonanze col film precedente sono tante e tali che questo Du levande può benissimo essere considerato la sua prosecuzione naturale. Anche qui non esiste una vera trama, si tratta piuttosto di un procedere per quadri, accompagnati dalle palleggianti note di un trombone, in cui non c’è un protagonista principale né personaggi secondari. Andersson riprende frammenti, istanti, secondi di vita (vuota) sempre con occhio sarcastico, a più di un passo dal grottesco.
Il regista svedese ripropone il suo personalissimo stile caratterizzato dalla totale staticità della macchina da presa. La sua scenografia sembra un po’ quei fondali già prefigurati per videogiochi stile Resident Evil con cui i vari characters non potevano interagire. Può piacere o meno, di certo è un’operazione coraggiosa degna di nota.
Non è tutto oro quel che luccica, difatti la banda suona con gli ottoni.
Il film, al pari del suo predecessore, accumula pian piano la necessità di uno scioglimento, anche di un minuscolo indizio che permetta di ricostruire il “caso”. Ma l’aspettativa rimane tale.
La sensazione è che se in Songs c’era un sottotesto bello forte con quelle frecciatine alla religione, qui si tende a sparare nel mucchio; una coppia in crisi o la teen-ager innamorata del chitarrista rock sono solo due delle tante figurine che affollano il film. Non c’è un vero filo conduttore tra di loro, a parte quello della mediocrità che le attanaglia, ma codesta rappresentazione dell’uomo medio non mi ha colpito granché per come è stata resa sullo schermo.
Le aspettative c’erano anche su una possibile scena conclusiva che riuscisse ad essere potente almeno un decimo di quella del giorno del giudizio, ma anche qui si è affacciata un po’ di delusione: non basta quella squadriglia di aerei che solca il cielo annunciata in apertura di film per chiudere in maniera convincente questo cerchio surreale.
Sorprende positivamente, invece, la sequenza onirica in cui il chitarrista si mette a suonare e il paesaggio dalla finestra inizia a scorrere come se quello fosse il vagone di un treno. Direi che in questo caso, per una volta, il termine visionario non è sprecato.
E Andersson lo è davvero un regista visionario, nonostante un passo falso commesso comunque con stile e probabilmente consapevolezza. C’è bisogno del suo contributo per smuovere le melmose paludi della banalità, peccato sia poco prolifico: solo 4 film dal 1970 a oggi!
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