Nella Spagna franchista un terribile evento segnerà per sempre l’anima di tre bambini. Ramallo finirà nelle mani di un padrone-amante che lo invischierà nei suoi loschi giri, Manuel si chiuderà in se stesso affidandosi alla fede, mentre Francisca deciderà di farsi suora per aiutare i bisognosi. Anni dopo si rincontreranno in un sanatorio.
Sulle pagine di Oltre il fondo ho spesso ospitato registi che, come ben saprete, esulano dalla routine cinematografica. Il loro distinguersi dalla massa è imputabile a diverse motivazioni: chi è inarrivabilmente poetico, chi è saccentemente provocatorio, chi è materialmente metafisico, chi è vertiginosamente disturbante. Anche se questo è solo il secondo film di Villaronga presente nel blog, mi sento con una certa tranquillità di poterlo annoverare nella stretta cerchia di registi che per un motivo o per l’altro si fanno apprezzare per il loro andare controcorrente.
Villaronga è un killer. A volte un po’ pasticcione nel voler osare a tutti i costi, ma sempre così crudele da non poter lasciare indifferenti. La stessa inesorabile crudeltà di In a Glass Cage (1987) viene riproposta con qualche ammorbidimento anche in El mar (2000). Ed anche in questo caso è un trauma infantile a condizionare l’esistenza dei protagonisti, se prima era la pedofilia qui è la guerra a depositare scorie di violenza che esploderanno negli anni successivi.
A fronte di una certa predilezione per lo shock visivo che il regista sembra amare particolarmente, fa da contraltare la preziosa maglia narrativa che sa prendere per mano lo spettatore per condurlo sotto la superficie. Sebbene l’acqua sia torbida e melmosa, puzzi di zolfo e di incenso, sul fondale possiamo gustarci perle di cinema cattivo e spietato senza compromessi. C’è un bambino morto accoltellato, malati di tubercolosi che sputano sangue come fontane, il calvario dell’introverso Manuel che richiama a sé echi messianici: la speranza non risiede in quest’opera. Ma sopra ogni cosa c’è nuovamente una cupola avvolgente che rinchiude tutto il film in una gabbia malsana, putrida, deviata. Non ci sono sentimenti, o se ci sono sono repressi (con la violenza o con la religione), e l’umanità è un sentiero impossibile da percorrere.
Il mare, che non vedremo mai, è la vera utopia. I bambini saranno già morti in quella grotta, il resto della loro vita sarà soltanto un rincorrersi di illusioni, fiumiciattoli che non arriveranno mai a quel mare agognato, e che moriranno aridi nell’ansa sabbiosa di una caverna.
The Sea è un film (pre)potente in cui il martirio di tre ragazzi viene rappresentato da Villaronga con mezzi a volte anche rustici (vogliamo parlare del gattino preso a calci?) e, perché no, dal gusto discutibile (vogliamo parlare del coltello nella gola del bimbo?), ma in entrambi i casi si può chiudere un occhio, anzi due, tuffarsi in questo mare e trattenere il respiro.
Sulle pagine di Oltre il fondo ho spesso ospitato registi che, come ben saprete, esulano dalla routine cinematografica. Il loro distinguersi dalla massa è imputabile a diverse motivazioni: chi è inarrivabilmente poetico, chi è saccentemente provocatorio, chi è materialmente metafisico, chi è vertiginosamente disturbante. Anche se questo è solo il secondo film di Villaronga presente nel blog, mi sento con una certa tranquillità di poterlo annoverare nella stretta cerchia di registi che per un motivo o per l’altro si fanno apprezzare per il loro andare controcorrente.
Villaronga è un killer. A volte un po’ pasticcione nel voler osare a tutti i costi, ma sempre così crudele da non poter lasciare indifferenti. La stessa inesorabile crudeltà di In a Glass Cage (1987) viene riproposta con qualche ammorbidimento anche in El mar (2000). Ed anche in questo caso è un trauma infantile a condizionare l’esistenza dei protagonisti, se prima era la pedofilia qui è la guerra a depositare scorie di violenza che esploderanno negli anni successivi.
A fronte di una certa predilezione per lo shock visivo che il regista sembra amare particolarmente, fa da contraltare la preziosa maglia narrativa che sa prendere per mano lo spettatore per condurlo sotto la superficie. Sebbene l’acqua sia torbida e melmosa, puzzi di zolfo e di incenso, sul fondale possiamo gustarci perle di cinema cattivo e spietato senza compromessi. C’è un bambino morto accoltellato, malati di tubercolosi che sputano sangue come fontane, il calvario dell’introverso Manuel che richiama a sé echi messianici: la speranza non risiede in quest’opera. Ma sopra ogni cosa c’è nuovamente una cupola avvolgente che rinchiude tutto il film in una gabbia malsana, putrida, deviata. Non ci sono sentimenti, o se ci sono sono repressi (con la violenza o con la religione), e l’umanità è un sentiero impossibile da percorrere.
Il mare, che non vedremo mai, è la vera utopia. I bambini saranno già morti in quella grotta, il resto della loro vita sarà soltanto un rincorrersi di illusioni, fiumiciattoli che non arriveranno mai a quel mare agognato, e che moriranno aridi nell’ansa sabbiosa di una caverna.
The Sea è un film (pre)potente in cui il martirio di tre ragazzi viene rappresentato da Villaronga con mezzi a volte anche rustici (vogliamo parlare del gattino preso a calci?) e, perché no, dal gusto discutibile (vogliamo parlare del coltello nella gola del bimbo?), ma in entrambi i casi si può chiudere un occhio, anzi due, tuffarsi in questo mare e trattenere il respiro.
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