martedì 22 dicembre 2015

Sette opere di misericordia

Che cos’è la solitudine? Lo spazio solitario tra due rocce svanisce quando viene riempito da una ragnatela?

(William T. Vollmann – La camicia di ghiaccio, Alet Edizioni; 2007)

Sette opere di misericordia (2011), debutto nella fiction per i due gemelli torinesi Gianluca e Massimiliano De Serio, è un film che vive nella contraddizione tra il narrato e la narrazione. È un’incompatibilità proficua perché grazie ad un impianto che non spartisce quasi nulla con la maggior parte del cinema da sala italiano abbiamo sul piatto un tema sempre attuale come quello dell’immigrazione e una corrispettiva divulgazione assiderata nel minimalismo dei due registi. Quindi, è vero che avendo come protagonista Luminita, una giovane moldava che sopravvive in una baraccopoli, dobbiamo confrontarci con storie di emarginazione, degrado (più morale che materiale), povertà e via dicendo, ma i De Serio lasciano l’enfasi agli altri preferendo un’austerità intransigente, producendo effetti e forse perfino affetti nello spettatore: si prova pena, si prova pietà di fronte agli uomini di un’opera che trattiene e sotterra tutto, difatti i possibili picchi drammatici vengono silenziati (alcune sequenze si pongono al di qua del vetro/finestra, ovattando o annullando lo strazio che vediamo al di là) o estromessi in toto dal corpo film (il rapimento del neonato), questo comporta un impegno notevole da parte nostra, ma non è uno sforzo vano, è proprio nella non-parola che si possono ascoltare i discorsi più densi, così come nel non-vedere stazionano le immagini più penetranti. Ergo: il dramma dell’immigrato, anche se lavorato nella pietra fredda, arriva.

E arriva perché dal momento in cui il bimbo sparisce dalla casa, i De Serio allargano la prospettiva del loro film che non riguarda più soltanto il trattato sull’attualità, si sale per giungere al problema patologico dell’emarginato, a prescindere dalla sua estrazione sociale: la solitudine. Il cinema, in merito, ha partorito figli su figli che si sono cimentati nell’illustrazione di tale condizione, per cui è chiaro che non ci troviamo al cospetto di innovazioni straordinarie, comunque sia i De Serio, che in un’intervista citano Tsai Ming-liang come punto di riferimento (link), ed è risaputo che pochi come il taiwanese hanno saputo incuneare il cinema nell’universo dell’Uomo Solo, non perdono di credibilità pur agendo in territori ampiamente calpestati. È interessante l’evoluzione del rapporto tra Herlitzka (non si perde mai occasione per apprezzarlo) e la ragazza, se una prima parte è caratterizzata da una certa brutalità (sempre morigerata), nella seconda emerge quell’humanitas capace di congiungere le due anime reiette. L’incontro si illumina di misericordia: il prendersi cura reciprocamente è il vero atto compassionevole, e pare ricordarlo anche il finale con il ragazzino che medicando le ferite di Luminita permette al film di terminare in un’accecante inquadratura di luce bianca, l’esatto opposto dell’ora e mezza precedente permeata dal grigiore metropolitano.

Non esente da piccoli difetti, rinvenibili a mio avviso in alcuni rivoli tramici (il modo indisturbato con cui Luminita si aggira nell’ospedale; la “fortuna” di scegliere a caso un uomo davvero solo al mondo) che spiccano a causa dell’impianto estremamente realista, Sette opere di misericordia è un esponente di cinema nostrano che si pone a latere, non un lavoro inedito, nemmeno indimenticabile probabilmente, ma il solo sapere della sua esistenza e del percorso registico che ci sta dietro lo rendono meritevole di considerazione.

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