venerdì 18 dicembre 2015

Les derniers jours du monde

Virus, terremoti, esplosioni, attacchi nucleari: il mondo è agli sgoccioli ma a Robinson interessa soltanto ritrovare la sua Laetitia.

Pressoché disinteressati alle questione apocalittiche, i fratelli Larrieu, inseparabili compagni di direzione, puntano tutto sugli arzigogoli sentimentali di Robinson (un sempre stralunato Mathieu Amalric) il quale da par suo non si cura affatto delle catastrofi che sembrano affliggere il pianeta; c’è una voluta incongruenza tra i richiami fantascientifici da “fine dei giorni” e gli scenari in cui i Larrieu ambientano il proprio film, tutti paesaggi splendidi: né le spiagge di Biarritz né i ridenti paesi spagnoli oltre i Pirenei rappresentano i tipici palcoscenici pre o post-atomici (a onor del vero qui e là vengono piazzate strane morti, esplosioni, scosse sismiche, ma sono tutti fatti isolati), esattamente come è il protagonista che li calca: letteralmente immerso nella turbinosa storia d’amore che gli ha fatto perdere la dignità, la moglie e la mano destra. Questa sua (dis)attenzione che ha un riverbero calligrafico con la scrittura del diario personale, porta Robinson a fregarsene altamente della realtà che lo circonda, il che segna inesorabilmente uno scatto verso il surreale da parte della pellicola che non concede margini di compromesso: o le varie situazioni grottesche che si susseguono terranno viva l’attenzione, oppure il sfilacciato errare di Robinson risulterà vacuo nonché un filino presuntuoso.

Finché il registro è suddiviso dal pingpong passato-presente Les derniers jours du monde (2009) regge sì e no con disinvoltura perché l’alternanza fra il prima e l’ora dà un percorso “sensato” a quanto accade sullo schermo, l’opinione è che l’odissea di Robinson sia equipollente a quella che sta vivendo il mondo e che la sfuggente femme fatale sia una sorta di idea di bene o vattelapesca che una volta raggiunta, riavuta, riamata, possa mitigare i dolori del cuore, e quindi è abbastanza divertente (mmm) essere testimoni degli eventi che hanno reso Robinson il tipico zerbino maschile, ma questo equilibrio dura fino a un certo punto, e precisamente al punto in cui abbandonati i flashback (l’ultimo è quello canadese) ci si butta esclusivamente nell’adesso dell’uomo, e il suo presente diventa una sequenza di scenette scollate dalla forma reiterante: ogni persona che gli si avvicina (l’ex amante del padre, l’ex moglie, il migliore amico, la figlia del migliore amico) lo ama, senza essere contraccambiata (ad esclusione della moglie). Ci si perde, in sostanza, nell’episodio, nell’isolata circostanza dove il fil rouge-Laetitia si fa sempre più tenue (nonostante sia prevedibile e necessario il ricongiungimento conclusivo) e sempre più impoverito di senso.

Dovevano chiudere prima i fratelli Larrieu, il timing è troppo ampio per poter mantenere una coerenza interna, l’eccessivo girovagare non trova l’integrità filmica e, semplicemente, si sbraca riprovevolmente con propaggini di cui non si sentiva la necessità: il suicido nel teatro e del tenore, il castello boccaccesco. Alla fine la corsa nudista per le vie di Parigi è un contentino insoddisfacente.

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