Amour si genera direttamente dall’ultima inquadratura de Il nastro bianco: la platea costituita dagli abitanti di un villaggio tedesco per la Palma del ’09, la platea di un teatro che ascolta un concerto per quella del ’12. In ambo i casi il gruppo di umanità sullo schermo ci e si guarda, perché l’atto del vedere, d’altronde architrave per eccellenza del cinema, è tratto connotante anche di quello hanekiano il quale da sempre gioca con la materia di cui si occupa e con chi ne usufruisce, quindi mostrando(ci) il pubblico che si accomoda sulle poltroncine rosse il regista nato a Monaco di Baviera apre un sipario fuori dalla diegesi che suggerisce le coordinate della sua opera: sono due persone della folla i protagonisti, indistinguibili, mimetizzati nel mucchio, due persone come tutti, come noi; Haneke dice: guardate la rappresentazione di una realtà che appartiene all’Uomo, guardate il collante e/o la cesoia che dà e toglie, guardate sulla locandina, in quel perfetto campo-controcampo, due persone che si guardano, semplicemente: con quella sala che pian piano si riempie sedetevi e guardatevi allo specchio.
Mai interessato ad imboccare la pulsione scopica dello spettatore, Haneke ha sempre preferito stimolare l’occhio-cervello invece dell’occhio-occhio operando molto spesso fuori dal quadro, scolpendo nell’immaginario drammi di una potenza distruttiva senza il bisogno di esibirli sfacciatamente, apparendo col suo cinema artico, lontano, isolato nel proprio nucleo di osservatore; anche in Amour i tempi si plasmano nell’ellissi, Haneke preferisce infilarsi nelle grinze del quotidiano piuttosto che puntare sulla centralità dei fatti salienti: la malattia di Anne non presenta spiegazioni di raccordo tra uno stadio e l’altro, il crollo inarrestabile è proposto nello spazio invisibile di un cambio scena o nei dialoghi che Georges avrà con i suoi interlocutori. È un bel paradosso, proprio un film come questo che invita velatamente ad un’ispezione visiva/emotiva/intima di un’età raggiunta o raggiungibile da chi assiste, procede in larga parte evitando di soffermarsi sui nessi (nessuna diagnosi proferita dalla bocca di un medico) e occultando quasi tutto ciò che è l’Altro gravitante intorno alla coppia. Se non esistono delucidazioni precise sul male, non esistono nemmeno figure esterne capaci di portare un qualsiasi sollievo (anche la figlia e l’infermiera mostrano l’inadeguatezza dei propri ruoli), l’emarginazione diventa totale, il panorama visceralmente personale, eppure il tête-à-tête tra Georges e Anne, tra Lui e Lei, sa essere molto di più che il capolinea esistenziale di un’insegnante di piano e del proprio marito perché dà voce all’universalità del Dolore, all’Accanimento della Malattia (una paralisi per una pianista, cosa può esserci di peggiore?), all’Umiliazione, alla Rassegnazione, all’Abbandono. E a quella forza tremenda, in ogni senso, che è l’Amore.
Tralasciando l’eloquenza del tema tipicamente hanekiano che riguarda l’ennesimo blitz all’interno del ceto sociale medio-alto, chi scrive vuole suggerire un’apertura al simbolo da parte dell’autore, ciò deriva da un’interpretazione del tutto soggettiva per cui prendetela con le pinze: il punto è… l’acqua, alcune delle scene fondamentali della pellicola rivelano la sua cruciale presenza: nella prima amnesia di Anne tutto ruota intorno alla chiusura di un rubinetto, successivamente vediamo la donna stesa vicino alla finestra (voleva buttarsi giù?) mentre fuori diluvia, nell’inquietante parentesi onirica Trintignant giunge in un pianerottolo del palazzo completamente allagato, infine sempre Georges reagisce in modo violento (e ciò può fungere da campanello d’allarme) al rifiuto della moglie ormai moribonda di bere un sorso d’acqua. Vista l’intransigenza di Haneke nell’attenersi al suo stile asciuttissimo anche solo avvertire la presenza di variabili “metaforiche” (l’acqua = sorgente Vitale vs. Morte?) rappresenta una discreta novità (forse il finale de La pianista [2001] è l’unico caso di slancio oltre la cronaca dei fatti); ad ogni modo vi sono constatazioni meno azzardate in questo campo, mi riferisco alla presenza del piccione (tra l’altro il disegno di un volatile campeggia anche nel soggiorno di casa) e all’importanza scenica che gli si dà (magari per caricarlo come elemento libero o esterno), senza dimenticare i due belli e dolenti strappi surreali in cui Anne si mostra agli occhi di Georges come se non fosse successo niente.
I segni evidenti di una continuità registica sono quanto di meglio si possa rintracciare in un film al pari di nuovi possibili spiragli, se poi è Michael Haneke a portare avanti questo discorso non si può che uscirne con un’opinione fortificata nei suoi confronti perché il cinema che fa, mai supponente e men che meno speculatore nell’imbastire tragedie umane, è uno dei migliori in circolazione nel raccontare di noi, della nostra vita, della nostra morte, e ora anche del nostro amore.
Mai interessato ad imboccare la pulsione scopica dello spettatore, Haneke ha sempre preferito stimolare l’occhio-cervello invece dell’occhio-occhio operando molto spesso fuori dal quadro, scolpendo nell’immaginario drammi di una potenza distruttiva senza il bisogno di esibirli sfacciatamente, apparendo col suo cinema artico, lontano, isolato nel proprio nucleo di osservatore; anche in Amour i tempi si plasmano nell’ellissi, Haneke preferisce infilarsi nelle grinze del quotidiano piuttosto che puntare sulla centralità dei fatti salienti: la malattia di Anne non presenta spiegazioni di raccordo tra uno stadio e l’altro, il crollo inarrestabile è proposto nello spazio invisibile di un cambio scena o nei dialoghi che Georges avrà con i suoi interlocutori. È un bel paradosso, proprio un film come questo che invita velatamente ad un’ispezione visiva/emotiva/intima di un’età raggiunta o raggiungibile da chi assiste, procede in larga parte evitando di soffermarsi sui nessi (nessuna diagnosi proferita dalla bocca di un medico) e occultando quasi tutto ciò che è l’Altro gravitante intorno alla coppia. Se non esistono delucidazioni precise sul male, non esistono nemmeno figure esterne capaci di portare un qualsiasi sollievo (anche la figlia e l’infermiera mostrano l’inadeguatezza dei propri ruoli), l’emarginazione diventa totale, il panorama visceralmente personale, eppure il tête-à-tête tra Georges e Anne, tra Lui e Lei, sa essere molto di più che il capolinea esistenziale di un’insegnante di piano e del proprio marito perché dà voce all’universalità del Dolore, all’Accanimento della Malattia (una paralisi per una pianista, cosa può esserci di peggiore?), all’Umiliazione, alla Rassegnazione, all’Abbandono. E a quella forza tremenda, in ogni senso, che è l’Amore.
Tralasciando l’eloquenza del tema tipicamente hanekiano che riguarda l’ennesimo blitz all’interno del ceto sociale medio-alto, chi scrive vuole suggerire un’apertura al simbolo da parte dell’autore, ciò deriva da un’interpretazione del tutto soggettiva per cui prendetela con le pinze: il punto è… l’acqua, alcune delle scene fondamentali della pellicola rivelano la sua cruciale presenza: nella prima amnesia di Anne tutto ruota intorno alla chiusura di un rubinetto, successivamente vediamo la donna stesa vicino alla finestra (voleva buttarsi giù?) mentre fuori diluvia, nell’inquietante parentesi onirica Trintignant giunge in un pianerottolo del palazzo completamente allagato, infine sempre Georges reagisce in modo violento (e ciò può fungere da campanello d’allarme) al rifiuto della moglie ormai moribonda di bere un sorso d’acqua. Vista l’intransigenza di Haneke nell’attenersi al suo stile asciuttissimo anche solo avvertire la presenza di variabili “metaforiche” (l’acqua = sorgente Vitale vs. Morte?) rappresenta una discreta novità (forse il finale de La pianista [2001] è l’unico caso di slancio oltre la cronaca dei fatti); ad ogni modo vi sono constatazioni meno azzardate in questo campo, mi riferisco alla presenza del piccione (tra l’altro il disegno di un volatile campeggia anche nel soggiorno di casa) e all’importanza scenica che gli si dà (magari per caricarlo come elemento libero o esterno), senza dimenticare i due belli e dolenti strappi surreali in cui Anne si mostra agli occhi di Georges come se non fosse successo niente.
I segni evidenti di una continuità registica sono quanto di meglio si possa rintracciare in un film al pari di nuovi possibili spiragli, se poi è Michael Haneke a portare avanti questo discorso non si può che uscirne con un’opinione fortificata nei suoi confronti perché il cinema che fa, mai supponente e men che meno speculatore nell’imbastire tragedie umane, è uno dei migliori in circolazione nel raccontare di noi, della nostra vita, della nostra morte, e ora anche del nostro amore.