martedì 30 ottobre 2012

Amour

Amour si genera direttamente dall’ultima inquadratura de Il nastro bianco: la platea costituita dagli abitanti di un villaggio tedesco per la Palma del ’09, la platea di un teatro che ascolta un concerto per quella del ’12. In ambo i casi il gruppo di umanità sullo schermo ci e si guarda, perché l’atto del vedere, d’altronde architrave per eccellenza del cinema, è tratto connotante anche di quello hanekiano il quale da sempre gioca con la materia di cui si occupa e con chi ne usufruisce, quindi mostrando(ci) il pubblico che si accomoda sulle poltroncine rosse il regista nato a Monaco di Baviera apre un sipario fuori dalla diegesi che suggerisce le coordinate della sua opera: sono due persone della folla i protagonisti, indistinguibili, mimetizzati nel mucchio, due persone come tutti, come noi; Haneke dice: guardate la rappresentazione di una realtà che appartiene all’Uomo, guardate il collante e/o la cesoia che dà e toglie, guardate sulla locandina, in quel perfetto campo-controcampo, due persone che si guardano, semplicemente: con quella sala che pian piano si riempie sedetevi e guardatevi allo specchio.

Mai interessato ad imboccare la pulsione scopica dello spettatore, Haneke ha sempre preferito stimolare l’occhio-cervello invece dell’occhio-occhio operando molto spesso fuori dal quadro, scolpendo nell’immaginario drammi di una potenza distruttiva senza il bisogno di esibirli sfacciatamente, apparendo col suo cinema artico, lontano, isolato nel proprio nucleo di osservatore; anche in Amour i tempi si plasmano nell’ellissi, Haneke preferisce infilarsi nelle grinze del quotidiano piuttosto che puntare sulla centralità dei fatti salienti: la malattia di Anne non presenta spiegazioni di raccordo tra uno stadio e l’altro, il crollo inarrestabile è proposto nello spazio invisibile di un cambio scena o nei dialoghi che Georges avrà con i suoi interlocutori. È un bel paradosso, proprio un film come questo che invita velatamente ad un’ispezione visiva/emotiva/intima di un’età raggiunta o raggiungibile da chi assiste, procede in larga parte evitando di soffermarsi sui nessi (nessuna diagnosi proferita dalla bocca di un medico) e occultando quasi tutto ciò che è l’Altro gravitante intorno alla coppia. Se non esistono delucidazioni precise sul male, non esistono nemmeno figure esterne capaci di portare un qualsiasi sollievo (anche la figlia e l’infermiera mostrano l’inadeguatezza dei propri ruoli), l’emarginazione diventa totale, il panorama visceralmente personale, eppure il tête-à-tête tra Georges e Anne, tra Lui e Lei, sa essere molto di più che il capolinea esistenziale di un’insegnante di piano e del proprio marito perché dà voce all’universalità del Dolore, all’Accanimento della Malattia (una paralisi per una pianista, cosa può esserci di peggiore?), all’Umiliazione, alla Rassegnazione, all’Abbandono. E a quella forza tremenda, in ogni senso, che è l’Amore.

Tralasciando l’eloquenza del tema tipicamente hanekiano che riguarda l’ennesimo blitz all’interno del ceto sociale medio-alto, chi scrive vuole suggerire un’apertura al simbolo da parte dell’autore, ciò deriva da un’interpretazione del tutto soggettiva per cui prendetela con le pinze: il punto è… l’acqua, alcune delle scene fondamentali della pellicola rivelano la sua cruciale presenza: nella prima amnesia di Anne tutto ruota intorno alla chiusura di un rubinetto, successivamente vediamo la donna stesa vicino alla finestra (voleva buttarsi giù?) mentre fuori diluvia, nell’inquietante parentesi onirica Trintignant giunge in un pianerottolo del palazzo completamente allagato, infine sempre Georges reagisce in modo violento (e ciò può fungere da campanello d’allarme) al rifiuto della moglie ormai moribonda di bere un sorso d’acqua. Vista l’intransigenza di Haneke nell’attenersi al suo stile asciuttissimo anche solo avvertire la presenza di variabili “metaforiche” (l’acqua = sorgente Vitale vs. Morte?)  rappresenta una discreta novità (forse il finale de La pianista [2001] è l’unico caso di slancio oltre la cronaca dei fatti); ad ogni modo vi sono constatazioni meno azzardate in questo campo, mi riferisco alla presenza del piccione (tra l’altro il disegno di un volatile campeggia anche nel soggiorno di casa) e all’importanza scenica che gli si dà (magari per caricarlo come elemento libero o esterno), senza dimenticare i due belli e dolenti strappi surreali in cui Anne si mostra agli occhi di Georges come se non fosse successo niente.

I segni evidenti di una continuità registica sono quanto di meglio si possa rintracciare in un film al pari di nuovi possibili spiragli, se poi è Michael Haneke a portare avanti questo discorso non si può che uscirne con un’opinione fortificata nei suoi confronti perché il cinema che fa, mai supponente e men che meno speculatore nell’imbastire tragedie umane, è uno dei migliori in circolazione nel raccontare di noi, della nostra vita, della nostra morte, e ora anche del nostro amore.

lunedì 29 ottobre 2012

Notte e nebbia

Come è possibile concentrare in soli 30 minuti l’orrore indicibile dell’Olocausto quando, per esempio, ad un autore come Claude Lanzmann ci sono volute 9 ore e passa per il suo Shoah (1985)?
Se ti chiami Alain Resnais puoi farlo. Anche a 33 anni, e anche a 10 dalla fine del conflitto mondiale. Quello che il Maestro francese fa è elementare: istituisce il cinema come processo di analessi e con disarmante semplicità alterna l’adesso – carrelli sui campi verdi, veloci visioni di una primavera che abbraccia i capannoni vuoti, i forni crematori, le recinzioni – all’ieri – bianco e nero d’archivio, l’abominio, la sopraffazione, le montagne di capelli, di oggetti, di cadaveri –  in un ideale campo-controcampo diretto allo sguardo mnemominco.
La reminescenza Storica che confluirà successivamente nei dolori sentimentali del bellissimo Hiroshima mon amour (1959) forgia una perla di cinema che scavalca il mero documento per intaccarsi fermamente alle pieghe della nostra coscienza.

Assistente alla regia Chris Marker. Va visto obbligatoriamente in lingua originale.  

sabato 27 ottobre 2012

Goodbye Solo

Il nome di Ramin Bahrani non mente: sebbene nato negli USA, precisamente nel North Carolina il 20 marzo del 1975, di statunitense ha ben poco visto che le origini dei suoi genitori sono chiaramente extra-americane (provengono infatti dall’Iran), per questo motivo non sorprende l’atteggiamento sensibile verso l’immigrazione, macro-argomento che attraversa tutta la sua filmografia. E Goodbye Solo (2008) decide proprio di affrontare tale tematica, lo fa prendendo come punto nodale un senegalese trasferitosi negli Stati Uniti che di mestiere fa il tassista ma che in realtà ha sogni ben più nobili come quello di volare, e che sia nelle vesti di assistente di volo poco importa. Il sogno americano, flebile e difficilmente realizzabile, si appaia alla solitudine umana di William, anziano, cupo e scorbutico.

Il processo che contrappone William e Solo risulta un po’ troppo scolastico perché giocato su delle opposizioni parecchio evidenti: non si nota soltanto il contrasto del colore della pelle ma anche il carattere agli antipodi, e pure sulla questione del figlio c’è palese disarmonia: uno probabilmente perduto per sempre, l’altro in imminente arrivo. Certo, al di là delle divergenze questi due uomini convergono nelle difficoltà esistenziali che li attanagliano e nonostante William sia il più abbottonato, dalla sua malinconia traspare un male di vivere che Solo carpisce al volo. L’epicentro della storia è esattamente questa empatia che si crea tra i due, con il tassista che dà prova di un grande spirito altruistico ospitando il suo “cliente” in casa e offrendosi più volte come autista fino alla fatidica data del 20 ottobre. Ma il problema è che questo affetto pressoché immediato di Solo nei confronti di William non ha dei presupposti convincenti per venir posto in essere. Da quello che ci è dato vedere è davvero difficile accettare che un perfetto sconosciuto si prenda a cuore le sorti di un uomo aspirante suicida (che tra l’altro non dirà mai “vado ad uccidermi”) con cui non ha niente a che fare. Se l’intento di Bahrani era quello di mostrare la fratellanza fra due uomini così diversi o l’atteggiamento caritatevole di un quasi reietto, l’idea è sicuramente lodevole, soprattutto in un momento storico pieno di cinismo/egoismo, il fatto è che però mancano gli ingredienti filmici per legittimare questo strano rapporto, e tenuto conto che la vicinanza Solo-William è la spina dorsale dell’intera opera, la ferita si rivela piuttosto ampia e difficilmente medicabile.
A latere vanno aggiunte due piccole forzature che il regista di Plastic Bag (2009) utilizza per innervare la storia: la prima, più lieve, è il ritrovamento della foto del figlio nella giacca dell’anziano, la seconda, decisamente più romanzata, è la lettura del diario fino a quel momento mai apparso in scena.

Ad un’analisi razionale il film si presta dunque a più di una obiezione, ma se l’impianto generale manifesta delle falle preoccupanti, è pur vero che il finale ha dei meriti che vanno attributi alla scelta della location, uno strapiombo schiaffeggiato dal vento, agli attori, soprattutto Souleymane Sy Savane con gli occhi iniettati di dolore, e a Bahrani stesso che in una manciata di minuti intensifica il dramma costruendogli attorno una cappa di tensione tutta giocata sull’immagine (Solo sul ciglio del dirupo) e sul senso (è l’unico modo per volare?), che sfocia nell’ultimo campo lungo in cui la vita, in qualche modo, andrà avanti.

giovedì 25 ottobre 2012

(Sta)Notte

Potrebbe essere un buon momento per un arrivederci, forse, tacitamente, per un addio, potrebbe esserlo se non fosse che questa stazione ha l’odore di ruggine e piscio di tutte le stazioni, soprattutto ora che è notte e i barboni appaiono ciondolanti da dietro gli angoli bui in compagnia delle loro case dentro i carrelli del supermercato e con estrema naturalezza stendono un cartone sul pavimento per dormire (d’inverno dentro la sala d’aspetto, d’estate anche a ridosso dei binari) e fanno i sogni che fanno loro: di essere dei re medievali che possiedono ettari sconfinati di terra e montagne dove brulicano dentro le macchie di bosco dense ed umide cavalli bianchi dalla criniera bionda che col sole galoppano sulle praterie verdeggianti fino ad arrivare sul ciglio della scogliera bagnata ogni tanto dal mare che indocile ribolle centinaia di metri sotto, e si vedono (i barboni) parlare dall’alto dei preziosi scranni con una corona d’ottone in testa e un mantello color cremisi sulle spalle di fronte ad una folla che li osanna e che fa echeggiare il loro nome in tutto il regno e le giovani donne povere a sentire quel nome sperano con il cuore ardente di poterli sposare e di passare tutta la vita assieme.
Potrebbe essere un buon momento per un addio, pensa lui, mentre il rumore di ferraglia del treno è già nell’aria.

Hammock - Departure Songs

Ascolti:    

mercoledì 24 ottobre 2012

Occident

Dopo Zapping (2000) e altri due corti coevi (Nici o întâmplare; Corul pompierilor) Mungiu debutta nel lungometraggio con Occident (2002), film proposto a Cannes (la presenza del regista rumeno sulla promenade d’ora in poi sarà una costante) e in molti altri Festival sparsi per il globo dove ha ricevuto parecchi riconoscimenti, la cui tagline è esplicativa più di qualunque sinossi: “il miraggio della felicità”; l’idea(le) dell’occidente è per la giovane generazione post-comunista presa in esame da Mungiu l’El Dorado a cui spasmodicamente tendere, la speranza geografica alimentata dal senso di smarrimento dato da una Romania dove questi ragazzi vivono, amano e sognano, tre azioni che se rivolte ai protagonisti dell’opera si rivelano ovviamente sofferenti, impossibilitate ad esprimersi liberamente a causa di una situazione pullulante di problematiche tutte riconducibili all’identità di un Paese incerto, ammaliato dall’Europa, continuamente sedotto, spesso abbandonato, e Mungiu, attraverso l’“indagine” personale/sociale, cuce addosso alla sua gioventù le indecisioni di una Nazione, e lo fa senza sbracare nel drammone ma fendendo di stiletto grazie ad un’ironia acuminata il giusto, sottilmente tragica, che si situa piacevolmente tra le rime della sceneggiatura (ogni figura sullo schermo ha a che fare con il west) riuscendo in più di un frangente a far sorridere genuinamente.

L’assetto di Occident non è esattamente un aspetto seminale dell’opera, il film è infatti strutturato in episodi intersecati tra loro dimodoché dal primo si dipanino anche gli altri creando un gioco di rimandi, dettagli e incastri rivelatori. Mungiu opta per una triplice suddivisione anticipata da una scritta sullo schermo riguardante comunque quella che altro non è se non un’unica storia i cui tre affluenti convergono sull’assunto comune del titolo. I primi due episodi, oltre che essere molto ben amalgamati tra loro, hanno un gran ritmo e si seguono che è un piacere: ciò che viene raccontato, nonostante il rimescolio dei fattori, è sempre il desiderio di andare via che però deve fare i conti con le difficoltà locali, nel mentre si fanno suadenti le sirene occidentali: che sia un uomo francese incontrato al cimitero, che sia un diplomatico belga in visita ad un orfanotrofio, o che sia (per la famiglia che vuole accasare la figlia) un uomo italiano sentito solo per telefono, senza dimenticare poi le agenzie di incontri specializzate nel reclutamento di compagni europei per la donna rumena, l’uomo-Occidente diventa simbolo idealizzato di miglioramento e di libertà, non pensando però ai metodi e alle conseguenze con cui si persegue la meta (la fidanzata di Luci che scappa con un uomo che probabilmente nemmeno ama ma che le garantisce un futuro o i preparativi esilaranti per l’arrivo di Luigi [uno dei momenti migliori del film] e l’effettivo arrivo che squaderna barriere culturali dietro l’apparente voglia di euro-alterità).
C’è però il terzo capitolo del colonnello ad abbassare la media complessiva, un capitolo che vuole insinuarsi nel tessuto dei due precedenti ma che subisce un piccolo rigetto per colpa di un tentativo troppo elaborato di far coniugare i vari eventi, nonostante anche qui sia presente il topic principale (d’altronde tutto riguarda il ritorno di un uomo dalla Germania che porta con sé brutte notizie), la comicità perde di brillantezza e poco o nulla si aggiunge a quanto si era visto fino a quel momento.

Chi identifica Mungiu soltanto con 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni (2007) farebbe bene a recuperare anche questo suo lungo d’esordio, un bell’esempio di come non sempre la metrica usata per raccontare il declivio inarrestabile provocato da un regime debba protendere alla tragedia, si può essere ugualmente (se non di più) efficaci pizzicando con i modi del fine sarcasmo.

lunedì 22 ottobre 2012

Higglety Pigglety Pop! or There Must Be More to Life

Da cosa nasce cosa: Spike Jonze riamane – a ragione – favorevolmente impressionato da Madame Tutli-Putli (2007) e, nel bel mezzo della promozione di Synecdoche, New York (2008) in cui ricopriva le vesti di produttore, contatta Lavis e Szczerbowski proponendo loro di adattare in un cortometraggio un racconto breve di Maurice Sendak, la mente dietro Nel paese delle creature selvagge. Il duo opta per Higglety Pigglety Pop!, libro per bambini scritto nel 1967 che racconta le gesta della cagnolina Jennie stufa della propria esistenza ed arciconvinta che là fuori debba esserci più vita. La voce di Jennie è quella di Meryl Streep che inizialmente non doveva far parte del progetto ma siccome in passato fu lettrice ufficiale del testo di Sendak alla proposta dei due canadesi il suo sì è arrivato di buon grado.

A primissima vista questo titolo così lungo condivide con il film precedente una sorta di allitterazione lessicale, uno scioglilingua che dichiara seduta stante la propria cifra ludica. Inoltre è l’estetica ad avvicinare le due opere scolpite in una nuova forma di stop-motion che porta in trionfo la cura del particolare, la quale a sua volta obbliga a soffermarsi, o a ripassare, su ogni singolo tassello del mosaico perché solo così si potranno cogliere le sfiziose sottigliezze. Lavorando su una pietra non contrassegnata dalla loro paternità, ai registi viene un po’ meno la riuscita concettuale del corto che lascia tra le pieghe del narrato un che di inespresso, di leggermente incompleto. Si fa sentire la mancanza di una concatenazione che legittimi il collegamento tra lo scopo (diventare la “prima donna” del teatro) e il mezzo (fare da balia ad un bebè molto particolare). Se il discorso del teatro=rappresentazione era un obiettivo da raggiungere, d’altronde ciò che Jennie fa è una esperienza di vita ma allo stesso tempo un provino per entrare nello Spettacolo, l’impressione è che ci si sia fermati qualche metro prima senza avere il coraggio di infilarsi nelle fertili fenditure metafilmiche, ammesso che ciò fosse davvero un cruccio dei due animatori e ancor più ammesso che per un “cartone” di neanche mezz’ora sia necessario rintracciare una qualsivoglia firma autoriale per farselo piacere.

E difatti al di là di congetture barbose e insipide come quelle soprastanti, il film è pur sempre un tonificante per la vista, e a questo punto da Lavis e Szczerbowski è doveroso attendersi un passo avanti: l’ora del lungometraggio è quasi scoccata, magari sempre sotto l’egida di Jonze, magari partendo da un soggetto tutta farina del loro sacco.

sabato 20 ottobre 2012

The Ape

Prosciugato l’argomento Falkenberg con due film sosia (regia di Falkenberg Farewell, 2006; produzione di Burrowing, 2009) nel 2009 Ganslandt si allontana dalla gabbia pseudo-documentaristica per approdare in quei gangli della finzione che impongono dei paletti, qui bisogna raccontare, non basta più affidarsi allo sconnesso flusso di coscienza del film precedente, c’è la necessità di montare uno scheletro narrativo corredato della relativa carne. Ganslandt sembra aver recepito la lezione e con spirito d’iniziativa aggira le imposizioni per fare di uno spunto non originalissimo come l’episodio di un massacro famigliare una variazione sul tema molto personale che tralascia abilmente ogni momento storico (quando è successo?), ogni movente (perché lo ha fatto?), e soprattutto l’indiziato poiché di indagini o investigazioni così come le si intende non ce ne sono, piuttosto ciò che Ganslandt indaga e pedina come il più arcigno degli stalker è lo stato d’animo del suo protagonista (un perfettamente nevrotico Olle Sarri che pare sia stato tenuto all’oscuro del copione fino al momento di girare), tratteggiando così un precipizio di lucidità post-follia dal forte sapore realistico, perché è vero che rispetto a Farväl Falkenberg c’è un’impalcatura più prestante a sorreggere l’ opera, tuttavia il canale visivo con la sua unica sorgente di esposizione è predisposto ugualmente all’assorbimento della realtà in maniera capillare.

E constate le assonanze di metodo si delinea una vicinanza anche nell’illustrare la figura umana presa in esame, una figura passiva che subisce o che ha subito, il protagonista di un percorso che porta ineluttabilmente all’annientamento di sé (il suicidio, per Krister solo tentato), certo è che, come detto, non sussiste alcuna premessa che stia ad indicare l’origine di un gesto così cruento, sicché in questo frangente il film pretende molto dallo spettatore perché per almeno mezz’ora quaranta minuti la storia si occupa di faccende apparentemente inutili saettate però da eccessi piccoli (Krister che vuole comprare una sega elettrica…) e grandi (l’aggressione verbale ai danni della praticante) che seminano il germe della tensione. Bisogna comunque dare fiducia a Ganslandt e attendere lo scioglimento della vicenda perché il suo è un approccio più che valido, veramente affilato nell’infliggere stilettate che sanguinano solo a fine visione: nel quadro generale si ricompongono tutti i tasselli che a prima vista apparivano scollati (il diverbio col giovane tennista: è qui la causa?) o insensati (la scena del coltello in casa della madre), e rimanendo fedele alla propria linea il regista evita di farci ascoltare le superflue domande della polizia per chiudere con una postilla che taglia in due il cuore di Krister, e non solo il suo.
Grazie del colpo, Jesper.

giovedì 18 ottobre 2012

Marfa şi banii

Anche se al debutto il cinema di Puiu ha la capacità di metterti lì, dentro gli ingranaggi della cosiddetta realtà, in un appartamento con la nonna che sembra far parte della mobilia e i rumori della mamma alle prese con le faccende domestiche. Marfa şi banii (2001) è un’opera conforme a quelle che verranno: per Puiu il cinema non è questione di scenografie, la strada è il set, come le abitazioni, un ospedale o l’interno di un camioncino, non serve null’altro per fare un film. Anche se, in questo suo esordio, c’è da dire che a sorreggere la visione veristica ci pensa un’intelaiatura evidente, una vera e propria sceneggiatura che il rumeno non riproporrà così marcatamente in futuro. È intrigante notare come il regista nato a Bucarest sia già padrone della tecnica riuscendo con uno stile immediato e scevro di preziosismi ad ottenere risultati validi, e tenuto conto delle ristrettezze di budget si potrebbe abbondare di superlativo assoluto: validissimi, perché A: maneggiando elementi base (il malloppo, i buoni, i cattivi, i mafiosi – difficili da schierare) riesce ad imbastire, con grande stupore, uno pseudo-road-noir molto più che dignitoso, B: non ha timore di impostare i tempi di ripresa in modo anticonvenzionale, buona parte della pellicola è infatti ambientata tutta all’interno di un furgone, in una manifestazione autoriale che può ricordare l’inizio della seconda metà di Kinatay (2009); il punto fondamentale è che su quei sedili sudici e scuciti non sono solo in tre, c’è anche Puiu, e quindi ci siamo dentro anche noi che sentiamo e vediamo tutto: i loro discorsi, le loro es(/im)pressioni, il frastuono incessante del motore, C: perché prima durante e dopo il tragitto vengono incastonati dei frammenti di denuncia che sono più corrosivi della storia in superficie: i motivi per cui un bravo ragazzo debba infognarsi in tali traffici, la polizia facilmente corruttibile, la barbara legge del crimine.

Chi si aspettava dunque che Cristi Puiu fosse soltanto il regista del caustico The Death of Mister Lazarescu (2005) o del per chi scrive troppo lezioso Aurora (2010) deve tenere conto anche di Stuff and Dough, lungometraggio che oltre ad essere considerato uno dei primi, se non il primo, film della nouvelle vague rumena, chiosa la sua ora e mezza di proiezione con un finale che non ha niente di conciliatorio e lo sguardo perso del giovane Ovidiu è lì, rassegnato, a suggerircelo.

martedì 16 ottobre 2012

Swimmer

Potrebbe ingannare la doppia commissione portata dalla BBC Films e dalla Film 4 che in occasione delle Olimpiadi di Londra hanno chiesto all’autrice di …E ora parliamo di Kevin (2011) e ad altri tre registi britannici di coniugare in un cortometraggio due mondi lontani come il cinema e lo sport secondo le loro personali vedute. Potrebbe poi ingannare il fatto che trattandosi di un’Olimpiade, e quindi dell’Evento per eccellenza, globale e massificante, ogni qual cosa gravitante attorno alla sua ciclopica orbita sia plausibilmente razionale bollarla a prescindere con il marchio dell’aggregazione ovina. Ma no, nessun inganno, quando la regista scozzese Lynne Ramsay è nei paraggi c’è sempre da aspettarsi ogni bene e Swimmer (2012), che come è facilmente intuibile si “occupa” di nuoto, è lontano eoni ed eoni dalla marchetta pubblicitaria, dal commercial, dalla docilità visiva: qui, cari astanti, siamo nel Cinema e in una sua manifestazione cristallina, un cinema argenteo che prende spunto (o almeno piacerebbe al sottoscritto che prendesse spunto) dal finale – sublime – di Ratcatcher (1999) per via dell’ambientazione acquatica, un fiume amniotico sul quale si affacciano bambini-fantasma e si odono voci appartenenti ad un altrove metafonico (si tratta di dialoghi presi da film risalenti agli anni ’60-’70); non c’è materia in Swimmer, tracciato estatico in una natura culla-vita-tomba fotografata egregiamente dall’argentina Natasha Braier, opera d’arte laboratoriale, sensitiva-saturante (e grandi applausi per Paul Davies, collaboratore di Ramsay fin dagli albori), di una purezza che turba e disturba, che s(’)offre con tutta l’intransigenza artistica di chi rifiuta la comodità (estetica e concettuale): non ci sono messaggi né spiegazioni, in questo abbacinante gioiello il senso supremo, ultimo, libero è l’Immagine.
Da brividi, bellissimo.

domenica 14 ottobre 2012

White As Snow

Kar Beyaz (2010) è un film di attese. La neve che imbianca questo paesino sulle montagne turche ovatta le percezioni: i lupi non si vedono, di loro si sentono soltanto gli ululati o al massimo restano le impronte sul terreno; la vita va normalmente, come dorvebbe andare, tra i fratellini più piccoli che scherzano e ridono, il vecchio barbuto e le sue pere, i giocatori di carte, l’autista del pullman, la madre alle prese con le faccende di casa, le scritte sui muri fatte con una vernice rossa come il sangue; e poi Hasan, il suo fumetto di Zagor che sfila sulle acque del fiume (la fine della fanciullezza), la brocca di ayran, tipica bevanda del luogo a base di yogurt acqua e sale, che è un fardello non tanto per il peso ma per la responsabilità, tornare a mani vuote, senza un soldo, con quel tozzo di pane come colazione-pranzo-cena proprio non si può; (e un cavallo bianco ferito sul fianco che galoppa oltre le finestre, come se fosse un miraggio).

Eppure, sotto la routine – fragile, fragilissima – del vivere permane quel sentimento d’attesa. Tutti aspettano: chi il proprio marito messo in galera proprio in quel giorno di festa (oh, il palloncino giallo), chi un viaggiatore che abbia la cortesia di ripagare il servizio che gli è stato offerto (solo una moneta, un pezzetto di metallo da rigirare tra le mani e Hasan avrebbe potuto rincasare con la luce), chi una lettera della propria amata (e la legna brucia, arde, infiamma), chi aspetta di non aspettarsi più niente a causa dell’impotenza obbligata dalle sbarre (ma il sesto senso paterno fa urlare di rabbia). Sotto la cornice purificante – per l’occhio – c’è una brace che non si spegne, moti perpetui di analessi con i relativi, nostalgici, rimpianti.

La regia rappresenta un esordio perché Selim Güneş di mestiere ha sempre fatto l’ingegnere elettrico e solo dall’89 in avanti anche il fotografo. Tuttavia non c’è nessun timore riverenziale verso il Cinema da parte di questo regista turco, sarà l’ambientazione che visto il nocciolo rurale sprigiona sottovoce tutta la potenza originaria delle cose (sul tema c’è anche il connazionale Beş Vakit, 2006), o sarà la bravura insita nella professione di Güneş, fatto sta che il film ha una bellezza estetica di prim’ordine capace di catturare lo sguardo, e a ciò si aggiunge una conformazione intrigante disseminata di rime visive, alcune non facili da cogliere, e da flashback che non esitano a confluire nel presente donando un tocco di disorientamento. Il finale poi adombra la vicenda perché non basta un coltellino, sebbene forgiato dalla mano sapiente di un papà coraggioso, a fermare chi da sempre attende senza alcuna fretta: la morte.

venerdì 12 ottobre 2012

Target

La Russia del 2020 è un paese in piena salute: ecologico, democratico, crocevia fondamentale fra l’Europa e l’Asia, ma un gruppetto di ricchi cittadini (tre uomini e due donne) non è soddisfatto, loro vogliono giovinezza e felicità sempiterne, le troveranno sui Monti Altaj, in un luogo dove un enorme disco con un buco al centro (il target del titolo, reliquia sovietica) ha il potere di bloccare l’invecchiamento, ad un prezzo che però si rivelerà molto alto...

Quarto film di Aleksandr Zeldovich, regista russo non particolarmente prolifico, un mediometraggio nel 1986 e poi tre film compreso Mishen (2011, presentato al Festival di Berlino) spalmati negli ultimi vent’anni, e identico numero di sceneggiature per Vladimir Sorokin, scrittore nato a Bykovo pubblicato in Italia per i tipi di Einaudi, e già autore di 4 (2004), discreta follia cinematografica sopra le righe (e di tanto) che vale il recupero; l’orchestrazione musicale, invece, porta la firma del compositore stimatissimo da Zeldovich Leonid Desyatnikov, che per l’occasione ha creato uno score di 90 minuti capace di rendere ancor più colossale una durata complessiva di per sé massiccia, sono infatti quasi tre le ore che compongono Target, pellicola, e questa è l’ultima noiosa informazione, promesso, prodotta dalla Ren Film, compagnia che dal 2003 a oggi ha finanziato soltanto due lungometraggi, questo e Il ritorno di Zvjagincev.

Dei molteplici sguardi ravvisabili in Mishen si può individuare una triade cardinale che permette lettura, movimento e profondità; e allora è giusto partire dal genere-contenitore, ovvero quell’assunto fantascientifico che sia nella composizione degli interni casalinghi, sia in quella degli oggetti tecnologici avanzati (automobili e laptop) e sia – soprattutto, e ciò dovrebbe far pensare di come nelle previsioni immaginarie del futuro sia sempre presente il vecchio tubo catodico… – nella ricostruzione delle trasmissioni televisive si abbevera a tutto quel filone distopico o pseudo tale molto in voga tra gli anni ’80 e ’90. Zeldovich comunque offre un taglio attuale (nonché personale) dell’argomento con una regia eccitatamente montata che, anche grazie all’uso della computer grafica (e l’ultimo opulente e mastodontico carrello all’indietro ne è la prova), non conosce tempi morti nonostante il corposo minutaggio; il ritmo concitato con cui vengono proposti gli elementi della storia obbliga sempre a mantenere desta l’attenzione, anche se, vista la mole di dati, in alcuni frangenti c’è la necessità di ritornare su qualche passaggio la cui chiarificazione non è garantito che avvenga. Detto ciò, Zeldovich, dal momento in cui il gruppo entra nel target (vi stazionano dentro, nel buco, per una notte) si dimostra sempre meno interessato alla copertina sci-fi, ed è qui che emergono le altre due fondamentali vedute.

Perché Mishen è un’opera politica, certo allegorica ma ben assestata su coordinate che giocoforza imprimono siffatto taglio; lo è nel raccontare la vita di un Ministro (e l’escamotage degli occhialetti che individuano il bene e il male dentro le cose, e dentro le persone, è uno strumento che ogni organo governativo vorrebbe avere, a patto di non guardarsi allo specchio), e lo è nell’esplorare, ok, forse senza addentrarcisi troppo, un Paese la cui visione futuristica è (con molte probabilità) sarcasticamente utopica, finanche post-putiniana, una simbiosi tra progresso iper-avanzato e avvicinamento umano alla natura (i cibi biologici), e in tutto questo spicca la costante presenza della Cina che sottoforma di programmi radiofonici, guru multimediali a cui confidarsi e superstrade brulicanti di camion diretti proprio verso di lei, certificano l’attuale andamento globale che proiettato nel 2020 si tramuta in una sua leadership economica e culturale. Tali riferimenti, tanto costanti quanto stranianti, conferiscono una dose naif al film che sotto il nonsense apparente cova della brace crepitante: non è apertamente un film di “denuncia”, e tutto sommato, per gli argomenti da delucidare, la cosa non guasta affatto.

Poi sì, la mera trama è tutta un ordito incentrato sulle relazioni tra i cinque più uno esseri umani che calcano la scena, sicché l’ultimo sguardo che a noi interessa è quello di Zeldovich che si mette a scandagliare la sfera umana. Partendo da una premessa che vabbè (la upper class a cui non manca niente eppure manca tutto), la questione “eterna giovinezza”, con il mishen che si rivela una sorta di MacGuffin, squaderna l’essenza dell’umanità sotto esame, la quale, scrollatasi di dosso quella maturità propria dell’essere adulto, precipita in un turbine sentimentale da cui non vi è scappatoia (infatti l’unico modo per continuare a vivere è separarsi e fissare un appuntamento fra… 30 anni!), uno sciame sismico dove non fanno fatica ad emergere sentimenti abbietti dietro IL (?) sentimento: si uccide per una banale discussione, si uccide per vendetta (figlia della gelosia), si viene uccisi con una sprangata in testa (nel decameronesco finale, chiosa puntuale per sottolineare quell’inutile abbondanza), ci si uccide buttandosi sotto un treno. Il dito di Zeldovich punta all’eccesso di bramosia, il volere tutto e per sempre cruccio di chi già possiede molto, e se leggendo queste righe il succo dell’opera apparirà raffermo, è nella complessità di esposizione che la (chiamiamola) critica verso un preciso livello della società – e non importa se futuristica – si scrolla di dosso la possibile patina moraleggiante al pari di una altrettanto possibile insinuazione sentenziosa.

Con pochi dubbi: un film sovraccarico, uno zibaldone moderno che comunque, a visione terminata, lascerà interrogativi inevasi, ma ad ogni modo cinema vivo ragazzi, che pur rischiando di tracimare nel ridicolo (almeno due amplessi lo tangono pericolosamente) sa osare, si prende il rischio di risultare sconclusionato, elusivo e lambiccato lasciando però il gusto stimolante del kolossal sommerso: Mishen è cinema-azzardo senza mezze misure: ditegliene di ogni a Zeldovich, non che sia uno senza coraggio.

mercoledì 10 ottobre 2012

Zapping

Quel Cristian Mungiu entrato nella cerchia dei registi “da vedere” per mezzo di Cannes ’07 dove vinse la Palma grazie a 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni (2007), comincia la sua carriera con questo cortometraggio datato 2000, periodo storico che coincide con la nascita della cosiddetta nouvelle vague rumena di cui lo stesso Mungiu è una delle punte di diamante più luminose (ad essere precisi il film che darebbe ufficialmente origine al movimento è l’ottimo Marfa şi banii [2001] di Cristi Puiu); per questo non stupisce affatto se un debutto lungo giusto un quarto d’ora e girato presumibilmente con una manciata di lei (nessun riferimento muliebre, è la moneta della Romania) sia un film degno della fama che accompagna Mungiu perché Zapping sa essere cinema di istanze arricchenti: lo è nell’abbattimento della barriera catodica condito con l’ironia di una rappresentazione quasi neorealistica (lo spaccato famigliare, l’impoverimento, per Mungiu soprattutto intellettivo), e lo è nello svelamento di una realtà cacotopica dove viene messo a nudo il potere fittizio del telespettatore che illuso di essere colui che guarda si scopre invece il guardato, o meglio: il controllato da un panopticon che ha in uomini uguali a lui, e quindi ex-telespettatori, i suoi piccoli guardiani (e il guardiano in questione è Ion Fiscuteanu, il protagonista di The Death of Mister Lazarescu, 2005); dagli intenti/suggerimeti – chiamiamoli –  pedagogici più epidermici (leggere un libro al posto di guardare la tv) a quelli – sìeno – politici (nel cinema rumeno riappaiono continuamente i fantasmi della propria Storia recente), Zapping è contenitore ben più capiente di quanto si potrebbe immaginare ad una prima rapida occhiata.
A Est, nel 2000, il sole sorgeva in lontananza.

lunedì 8 ottobre 2012

Aita

Oggettino da Festival, e infatti è stato presentato per la prima volta a quello di San Sebastián, Aita (2010) è un film basco diretto da un tale di nome José María de Orbe. L’intera pellicola è ambientata in una villa disabitata e riprende la quotidianità del suo custode interrotta di tanto in tanto da alcuni dialoghi dal retrogusto filosofico con il prete della vicina cappella.

La recensione di Indie-eye (link) fornisce delle informazioni interessanti a riguardo del lungometraggio: innanzitutto pare che il villone sia stato ereditato dal regista stesso, inoltre la storia, difficilmente decrittabile, contiene a detta dell’autore riferimenti personali di cui lo spettatore nulla può sapere, vieppiù che i frammenti proiettati sui muri della casa ritraenti uomini donne e bambini di inizio ‘900 sono lì semplicemente perché… interessavano a de Orbe.
Ciò che resta di Aita al di là di questi elementi è un lavoro che mi ha ricordato molto i film di Lisandro Alonso: la camera fissa, il silenzio, le luci naturali e il custode che vaga per le stanze impolverate, sono le uniche componenti dell’opera. Il precipitato è dunque parecchio scarno e con ogni probabilità sintonizzarsi sul piano dei significati non è granché conveniente perché non si caverebbe un ragno dal buco. Meglio allora subire passivamente le immagini e prendere atto di quello che si sente: c’è una membrana di inquietudine che a volte vibra lievemente (difatti alcune recensioni in Rete parlano del film come di una variazione sul tema delle case infestate) e suggerisce uno stato di ovattata ansietà che porta alla percezione di un qualcosa che invece non accadrà mai (i bambini e i vandali che esplorano la casa ma che beffardamente dicono “qui non c’è niente”). Attento in qualche modo alla dicotomia luce/buio, il regista registra i due estremi come si faceva una volta sulle musicassette e ne propone il risultato che in alcuni passaggi si abbassa di fedeltà video e che, come carico aggiuntivo, diventa davvero straniante quando proietta quelle vecchie immagini che catturano i fantasmi del passato, o forse i fantasmi del cinema.
Bella la sequenza che porta il vecchio custode sul pulpito della chiesa e altrettanto notevole una delle ultime inquadrature che plasma da sé un cerchio dall’incerta morfologia: è un pozzo? È un occhio? È quel bagliore che perseguita il protagonista?

Film in stretta sintesi molto particolare che a causa della sua costanza contemplativa può essere digerito soltanto da pochi coraggiosi cinefili. Le parti in ombra sono decisamente di più rispetto a quelle al sole (e non parlo di difetti ma di “oscurità” nell’accedere alla fruizione), però qua e là ci sono piccoli flash che nobilitano il risultato globale, ed è anche da piccolezze del genere (i flash) che si comprende, con un non so che di confortante, di come il cinema, in fondo, non sia altro che Luce.

sabato 6 ottobre 2012

Teclópolis

Teclópolis (2009) funziona perché come in tutti i lavori dove lo stop-motion viene applicato su oggetti inanimati, lo spettatore viene automaticamente colpito da una sorta di pareidolia per cui in tali oggetti riconosce caratteristiche antropomorfiche o in generale riconducibili al regno animale, e lo fa ogni volta con grande stupore sebbene sia evidente a priori che l’intenzione di chi dirige resti proprio quella di sbalordire rianimando l’essenza delle cose che sappiamo essere prive di vita, creando, come se tali registi fossero delle entità superiori capaci di soffiare nel cuore (?) di una tastiera, di una coperta, di una web-cam, quell’alito vitale che rende queste cose straordinarie, come tutto ciò che vive.
Teclópolis funziona anche perché il suo regista, Javier Mrad professore di graphic design argentino, appaia alla tecnica un concentrato educativo che si poggia su questioni prossime a noi; nello spazio di dieci minuti viene trasportato e portato all’eccesso un processo che riguarda da vicino il nostro mondo ormai totalmente informatizzato. La constatazione di una realtà (della nostra) che non può più prescindere dai supporti informatici è scontata così come è scontato sottolineare la qualità degli effetti che questa rivoluzione ha portato: altamente positivi. Mrad però avverte attraverso quella che in fondo non è altro che una parabola: la digitalizzazione pandemica, il passaggio dal vecchio al nuovo, finisce per mandare nel tritacarne il passato, ciò potrebbe anche non interessare troppo, eppure, senza quasi accorgersene, un po’ di romanticismo sfuma, evapora: apparirà argomento superfluo eppure nel corto è un triste dato di fatto: nel mare non ci sono più sirene.
Ma Teclópolis funziona principalmente perché nel lavoro che c’è dietro (qui un video del making of) si scorge la forza estrosa dei suoi burattinai, un susseguirsi di trovate che colorano la mente, tendono verso l’alto gli angoli della bocca, congiungono ripetutamente i palmi delle mani e fanno sperare una volta di più nell’arte, fucina di codici, contesti e sentimenti che, fino a quando non vengono letti ascoltati visti vissuti, restano inesprimibili per l’uomo. 

Addendum.
Ad una seconda visione ho potuto notare un ulteriore significato insito nel corto, specificatamente la dichiarazione che il regista compie nei confronti del cinema, poiché la sirena, salvando la “vita” al nostro protagonista, salva indirettamente la vita della settima arte, e diventa poesia: quella cinepresa 8 mm continuerà a navigare…

Un grazie ad Elisa per la segnalazione.

giovedì 4 ottobre 2012

Alps

Il cinema scentrato di Lanthimos si avvale di un’ulteriore tassello che a questo punto agglomera in un unico flusso la - ad oggi - triplice veduta del regista greco (anche se IMDb riporta nella sua scheda un film del 2001 intitolato O kalyteros mou filos [My Best Friend]) e ne sentenzia, ritengo in modo inappellabile, lo status d’autore perché in Alps (2011) al pari di Kinetta (2005) e Dogtooth (2009) si dispiega il precipitato concettuale di un’artista coerente sia nella riproposizione di quelli che ormai sono dei topoi personali, sia nella confezione del prodotto, il tutto sotto il marchio dell’astrazione, un allontanamento di matrice neanche troppo velatamente seidliana che ovatta, che ispessisce il divario film/spettatore, che disorienta implacabile, che congela il dramma e lo riduce (ma senza sminuirlo) a farsa, che nuota agevolmente nelle paludi della meta-rappresentazione, che si fa beffa dell’humanitas, che si dimostra in ogni sua espressione cinema dell’insensibilità e che sancisce la genesi di un Uomo apatico-meccanico, subordinato senza consapevolezza ma con condiscendenza (altrettanto inconsapevole) alle imposizioni, spersonalizzato di qualunque riferimento proprio e quindi privo di un’immanenza dell’essere: gli uomini di questo regista, semplicemente, non-sono.

L’esplorazione del cinema di Lanthimos (al quale si deve aggiungere comunque anche Attenberg [2010] sebbene non porti la sua firma alla regia) trova una soddisfacente apertura analitica (almeno per chi scrive) proprio nell’identità e di riflesso nella non-identità dei personaggi in esso (nel cinema) contemplati [1]. L’assenza dell’individualità si rivela già con Kinetta l’asse portante di una linea che in Kynodontas deflagra nella prigione casalinga e le cui scorie si ripresentano glacialmente anche in Alpeis poiché è chiara la stretta continuità tra il film che ha sfiorato gli Academy e quello vincitore del Premio Osella a Venezia ’11, si tratta di una progressione tematica che espande i medesimi argomenti posti però al di fuori di un regime limitato, soprattutto territorialmente, come era la casa sepolcro imbiancato, ma i segnali di aggiornamento sono forti e tangibili: anche qui (e come in tutti e 3 i film) le persone non hanno nomi propri, il gruppo Alpeis (un po’ come i figli che si ritrovavano nei personaggi dei film americani [2]) decide di identificarsi con i nomi dei rilievi che costituiscono la catena montuosa, questo è il primo segnale di un’allarmante disidentificazione che ovviamente si mostra spettrale e funerea con l’attività della “società” laddove la sostituzione fisica con i deceduti porta i componenti della squadra, e in particolare l’infermiera, ad una frantumazione irreparabile del sé, una disgregazione identitaria generata da una multi-proiezione personale che li rende tutti e al contempo nessuno, perdizione in un dedalo a-cosciente dove il fine ultimo non è il denaro ma una sorta di feticismo mosso da quella che altro non è che un’ostinata ricerca di essere qualcuno.
A sostegno di un upgrade contenutistico ci pensa la presenza di Aggeliki Papoulia, attrice che sia in Kynodontas che in Alpeis ha un ruolo centrale, quello di provare a sovvertire le costrizioni, tanto che possiamo vederla come un unico personaggio che una volta uscito da quel bagagliaio si è ritrovato in una realtà ugualmente caratterizzata da una struttura altamente coercitiva, e, come giustamente sottolinea Michele Sardone nel saggio Yorgos Lanthimos. Il phantasma della realtà [3], il gesto di ribellione (prima l’auto-asportazione del canino, dopo l’infrazione delle regole andando a letto con un ragazzo e vestendo finalmente i panni di… se stessa) “è autodistruttivo e destinato a fallire, ma il suo riproporsi sta lì ad attestarne l’ineluttabilità: un sistema che finisce per rivelare la sua natura di opprimente irrealtà si scontra inevitabilmente contro una forza (se pur minoritaria) di opposizione, che agisce al suo interno e che preme al di fuori di sé per liberarsi, a costo di sacrificare se stessa.” E non appare un caso allora che sulla tapparella che scende a coprire quella vetrata appena distrutta con una sedia, la ragazza scruti la sua ombra sulla superficie metallica, lei, sull’orlo della crisi definitiva che poco prima l’ha portata a sostituirsi perfino alla madre defunta, cerca il proprio riflesso ormai ridotto ad una macchia nebulosa e informe.   

Cosciente del fatto che lo spazio di intervento esegetico può andare ben oltre la materia identità, il sottoscritto ha trovato confortante da parte di Lanthimos il prosieguo di una politica incentrata su tale questione, e se ad Alpeis manca la potenza epidermica del suo predecessore poco importa, così come non pesa il fatto che l’idea di una storia dove le persone morte vengono temporaneamente rimpiazzate da degli estranei appartenenti ad un’organizzazione era già stata proposta in termini molto ma molto simili da Sion Sono con Noriko’s Dinner Table (2005), perché in un mondo iper-saturo di letteralità un film che sgomenta per il suo ostinato distacco, che aliena i sentimenti, che elude i banali vincoli narrativi, è, oggi, obbligatoriamente da vedere. 
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[1] In merito consiglio il recupero dei lavori di un altro autore contemporaneo come Bertrand Bonello che seppur concentrato sui ruoli strettamente filmici (attore vs. regista) ha improntato buona parte della sua carriera – se non proprio tutta – sulla natura di un Io in perenne conflitto, delineando figure smarrite in quelle che lui stesso ha definito opere-cervello.

[2]  È una costante quella di inserire riferimenti alla cinematografia “di massa” e più in generale alle icone hollywoodiane che in ambo i film diventano i modelli a cui agognare.   

[3]  Luigi Abiusi (a cura di), Registi fuori dagli scheRmi; CaratteriMobili 2012) 

martedì 2 ottobre 2012

Happy People: A Year in the Taiga

Ora, abbandonati a se stessi, i cacciatori diventano ciò che realmente sono: persone felici. Sono veramente liberi. Non hanno nessuna regola, nessuna tassa, nessun governo, nessuna legge, nessuna burocrazia, nessun film, nessuna radio.

Oscurato dal coevo Cave of Forgotten Dreams (2010), indiscutibilmente il più grande successo herzoghiano degli ultimi anni, Happy People: A Year in the Taiga è un progetto che vede l’autore tedesco nei panni di produttore, sceneggiatore insieme al figlio Rudolph, e co-regista con un completo sconosciuto di nome Dmitry Vasyukov. Plausibilmente il lavoro “sporco”, ovvero tutto ciò che riguarda le riprese sul campo durate minimo un anno, è stato effettuato da quest’ultimo anche perché Herzog in quel periodo doveva essere molto impegnato nella realizzazione dei suoi due film hollywoodiani. La paternità del documentario da parte di Werner si può comunque rintracciare, perché al di là della sua voce off che nell’accompagnare le immagini sullo schermo è ormai diventato un inconfondibile marchio di fabbrica, il film si poggia su un triplice assioma che fonda buona della lunga carriera: l’Uomo, la Natura, e il rapporto ombelicale che lega il primo alla seconda.

Lo scenario è la Taiga siberiana e il focus d’attenzione riguarda il piccolo villaggio di Bakhtia dove vivono alcuni cacciatori che durante l’inverno si allontanano dal centro abitato per inoltrarsi in luoghi tremendamente ostili: poca compagnia (al massimo quella dei propri cani), temperature ben al di sotto dello 0 (-30, -40) e rifugi di legno sopraffatti dalla neve, il tutto per uno stile di vita che pare andare oltre il mero guadagno economico (presumibilmente modesto) e assestarsi sui termini di una missione esistenziale, un’aderenza tra la ciclicità della natura e lo scorrere della vita umana che si adegua a tali ritmi; se da una parte Happy People si profila come un documentario à la Discovery Channel, e quindi molto attento alla divulgazione del tema trattato, dall’altra bisogna prendere atto di un comparto visivo dall’indubbio fascino (incredibile lo scioglimento della superficie ghiacciata del fiume) al quale si lega un ritratto antropologico che, come Herzog sottolinea, non sembra discostarsi troppo da uno preistorico.

La forza del film è proprio quella di creare una specie di anacronismo che vede dei cacciatori del ventunesimo secolo raffrontarsi con l’ambiente circostante in modo similare ai nostri antenati delle caverne, un legame scevro di quella retorica moderna pullulante di -ismi, crudo e duro per noi uomini urbani che possiamo dispiacerci per un animaletto azzannato da un cane senza pensare che la stessa identica sorte potrebbe capitare ad uno dei trappers alle prese con un orso.

In definitiva non uno degli Herzog più imprescindibili, e forse ciò si deve principalmente all’intromissione di Vasyukov nella regia,  tutto sommato però degno di far parte della categoria d’appartenenza grazie a cartoline paesaggistiche a dir poco splendide e soggetti umani più che interessanti, probabilmente manca una storia tipicamente Herzog-style dietro ad una singola persona (che in tale modo diverrebbe un bel “personaggio”), ma la cosa non duole poi troppo e i novanta minuti di proiezione si affermano come cinema sempre piacevole da frequentare.