Dopo dodici anni un padre ritorna dai suoi due figli Ivan e Andrej.
Duro e silenzioso, l’uomo non racconta nulla del passato. La madre, rassegnata, accetta che i bambini vadano ad una gita con lui. La gita diventa un viaggio verso un’isola disabitata in cui l’uomo deve prendere qualcosa, ma la sua lunga assenza nelle vite dei due ragazzi fa sì che più che un genitore sia diventato un vero e proprio fantasma.
Esordio alla regia per Andrej Petrovič Zvjagincev che con Il ritorno si è portato a casa parecchi premi in varie manifestazioni tra cui il Leone d’Oro a Venezia 2003.
Beh, per essere la prima volta che il regista si metteva dietro ad una mdp non si può che fargli i complimenti. Sarà anche l’ambientazione così affascinante simile a L’isola (2006), ma i sinuosi movimenti di macchina accompagnati da una fotografia plumbea e – soprattutto nella prima parte – spettrale, danno un tono enigmatico, oscuro, misterioso alla pellicola.
D’altronde anche il regista lo ha detto: “Il film accumula in sé una ricchezza di contenuti simbolici, di suggestioni, di indizi, di schegge di eternità, tutti ruotanti attorno a un unico corpo unificante che è quello del mistero.” E tale mistero si identifica con la figura del padre: non si sa cosa abbia fatto per tutto questo tempo, non si sa cosa contenga quella scatoletta da lui disseppellita in un vecchio casolare, non si sa nemmeno se sia realmente lui il vero padre. Ovviamente, facendo fede ad un tipo di cinema lontanissimo dal voler-spiegare-ad-ogni-costo, non viene chiarito nessuno di questi punti, depositando il dubbio nello spettatore.
Se il padre è il personaggio più sfuggente, i due ragazzini sono i veri protagonisti con il loro viaggio.
Il viaggio è spesso metafora del cambiamento: incontrando ci si scontra, scontrandosi ci si incontra. Il viaggio, che su un piano pratico può essere inteso come un movimento attraverso lo spazio e il tempo, è sempre un “passaggio” in se stessi oltre che nei luoghi visitati.
Il viaggio implica lo spostamento (i due bambini che si allontanano da casa); l’errare – nel duplice significato di vagare e di sbagliare – ( il continuo muoversi da un posto all’altro e la disobbedienza dei due fratelli agli ordini del padre); l’esperienza dell’inizio e della fine (dove l’inizio, qui, non è da collocare con la partenza del trio ma con il piccolo Ivan che non vuole buttarsi dalla torre di legno. Considerando l’intero film come un viaggio – interiore – la fine si riallaccia all’inizio, ma dentro se stessi i ragazzi sono cambiati).
Sebbene il padre appaia l’ingranaggio su cui si muove il film, in realtà è la tras-formazione dei due ragazzi ad essere la spina dorsale della storia. Nell’ottica del viaggio come cambiamento si nota di come poco prima del drammatico finale ci sia un simbolico passaggio di testimone: il padre dona il suo orologio ad Andrej; un viaggiatore che smarrisce il tempo termina di essere tale, e infatti dopo poco morirà. Ironicamente si potrebbe dire che era giunta la sua ora, seriamente dico che nel contesto filmico era “solo” una componente volta a cambiare (leggi: trasformare) la vita dei suoi figli.
Menzione speciale (e triste) per i due giovinetti che nella locandina assomigliano tanto al Viandante sul mare di nebbia (1818) di Friedrich per la stessa intensità contemplativa dell’infinito pur essendo di spalle. Triste perché Vladimir Garin, l’interprete di Andrej, morì a soli sedici anni poco dopo la fine delle riprese de Il ritorno. Che peccato, qui è stato bravissimo come suo “fratello” Ivan Dobronravov, deliziosamente imbronciato per tutta la durata di questo meritevole film.
Duro e silenzioso, l’uomo non racconta nulla del passato. La madre, rassegnata, accetta che i bambini vadano ad una gita con lui. La gita diventa un viaggio verso un’isola disabitata in cui l’uomo deve prendere qualcosa, ma la sua lunga assenza nelle vite dei due ragazzi fa sì che più che un genitore sia diventato un vero e proprio fantasma.
Esordio alla regia per Andrej Petrovič Zvjagincev che con Il ritorno si è portato a casa parecchi premi in varie manifestazioni tra cui il Leone d’Oro a Venezia 2003.
Beh, per essere la prima volta che il regista si metteva dietro ad una mdp non si può che fargli i complimenti. Sarà anche l’ambientazione così affascinante simile a L’isola (2006), ma i sinuosi movimenti di macchina accompagnati da una fotografia plumbea e – soprattutto nella prima parte – spettrale, danno un tono enigmatico, oscuro, misterioso alla pellicola.
D’altronde anche il regista lo ha detto: “Il film accumula in sé una ricchezza di contenuti simbolici, di suggestioni, di indizi, di schegge di eternità, tutti ruotanti attorno a un unico corpo unificante che è quello del mistero.” E tale mistero si identifica con la figura del padre: non si sa cosa abbia fatto per tutto questo tempo, non si sa cosa contenga quella scatoletta da lui disseppellita in un vecchio casolare, non si sa nemmeno se sia realmente lui il vero padre. Ovviamente, facendo fede ad un tipo di cinema lontanissimo dal voler-spiegare-ad-ogni-costo, non viene chiarito nessuno di questi punti, depositando il dubbio nello spettatore.
Se il padre è il personaggio più sfuggente, i due ragazzini sono i veri protagonisti con il loro viaggio.
Il viaggio è spesso metafora del cambiamento: incontrando ci si scontra, scontrandosi ci si incontra. Il viaggio, che su un piano pratico può essere inteso come un movimento attraverso lo spazio e il tempo, è sempre un “passaggio” in se stessi oltre che nei luoghi visitati.
Il viaggio implica lo spostamento (i due bambini che si allontanano da casa); l’errare – nel duplice significato di vagare e di sbagliare – ( il continuo muoversi da un posto all’altro e la disobbedienza dei due fratelli agli ordini del padre); l’esperienza dell’inizio e della fine (dove l’inizio, qui, non è da collocare con la partenza del trio ma con il piccolo Ivan che non vuole buttarsi dalla torre di legno. Considerando l’intero film come un viaggio – interiore – la fine si riallaccia all’inizio, ma dentro se stessi i ragazzi sono cambiati).
Sebbene il padre appaia l’ingranaggio su cui si muove il film, in realtà è la tras-formazione dei due ragazzi ad essere la spina dorsale della storia. Nell’ottica del viaggio come cambiamento si nota di come poco prima del drammatico finale ci sia un simbolico passaggio di testimone: il padre dona il suo orologio ad Andrej; un viaggiatore che smarrisce il tempo termina di essere tale, e infatti dopo poco morirà. Ironicamente si potrebbe dire che era giunta la sua ora, seriamente dico che nel contesto filmico era “solo” una componente volta a cambiare (leggi: trasformare) la vita dei suoi figli.
Menzione speciale (e triste) per i due giovinetti che nella locandina assomigliano tanto al Viandante sul mare di nebbia (1818) di Friedrich per la stessa intensità contemplativa dell’infinito pur essendo di spalle. Triste perché Vladimir Garin, l’interprete di Andrej, morì a soli sedici anni poco dopo la fine delle riprese de Il ritorno. Che peccato, qui è stato bravissimo come suo “fratello” Ivan Dobronravov, deliziosamente imbronciato per tutta la durata di questo meritevole film.
bè,scrivi recensioni(o impressioni tue,forse come definizione ti piace di più) piuttosto interessanti.hai poi trovato sokurov e tarr?
RispondiEliminaciao
Sì, meglio "impressioni", non foss'altro perché le recensioni le scrive un critico, genere a cui evidentemente non appartengo.
RispondiEliminaHo dato un'occhiata alle filmografie di entrambi e ho visto/letto qualche foto/commento dei loro film. Mi pare di capire che sono registi molto impegnativi, e purtroppo ora fra Herzog, Tsukamoto e Von Trier non ce la faccio a cimentarmi in cotante visioni. Ma a parte 'ste cazzate c'ho anche una pseudovita da trascinare avanti :D
Vedrò qualcosa, promesso.
Ciao!!
Avevo letto giorni fa il tuo post e mi hai convinto a vederlo (ce l'avevo abbandonato a impolverarsi), bè significa che le tue impressioni sono piuttosto importanti. ;)
RispondiEliminaDirei che è stata una bellissima sorpresa, la regia veramente ottima. Ma poi ho amato tutte le citazioni pittoriche partendo da quella del Cristo di Mantegna... suggestionatissima. I due ragazzini con quell'ombra crepuscolare e malinconica in viso, mi hanno veramente toccato. Premio meritatissimo.
RIP Vladimir Garin (che tra l'altro ho letto che è morto sul set e la notizia è stata a lungo trattenuta per non influenzare la giuria al festival)
Sempre a tua disposizione ;)
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