Martin, professore di filosofia fresco di divorzio e stressato dalla vita, incontra nella casa di un pittore defunto la giovane Cecilia. Com’è come non è, cominciano a frequentarsi. Lei, che dell’ingenuità fa la sua arma inconsapevole, rende pazzo lui che sempre più nevrotico e possessivo sospetta un suo tradimento. Avrà ragione perché Cecilia se la spassa anche con un certo Momo, a questo punto Martin dovrà decidere se proseguire la relazione oppure troncarla definitivamente. Sceglierà la prima opzione.
Non avendo letto l’omonimo libro di Alberto Moravia non potrò far altro che descrivere le mie impressioni legate alla pellicola. Impressioni tutto sommato buone perché a fronte di un inizio stentato in cui la personalità schizzata del professore non emerge e tutto è parecchio piatto, con il prosieguo, grazie all’accendersi della passione, ecco che l’irrequietezza di Martin prende il sopravvento diventando persino simpatico nel suo logorarsi.
Il rapporto tra lui e Cecilia è esclusivamente carnale, scevro di un qualunque sentimentalismo (anche se Martin non riesce a capirlo), e connotato da una forma univoca di possessione: lui vuole lei, ma più che lei in sé vuole il suo corpo; è disposto addirittura a “dividerla” con Momo piuttosto che non averla del tutto. E pensandoci su, mi vien quasi da dire che non è Martin ad avere Cecilia ma il contrario, e quindi è sì una forma univoca di possessione ma inversa, è lei, sfuggente, ad aver lui… perché si sa che in amor vince chi fugge! Lasciando da parti questi detti banali, in questa storia non c’è amore, solo l’illusione di sfuggire alla vita che indifferente oscilla come un pendolo tra il dolore e la noia.
La noia. Avendo l’onere e l’onore di essere il titolo dell’opera mi aspettavo che avesse un ruolo più centrale nel film. La noia ritengo sia una forma costitutiva dell’uomo, come la paura. La paura dell’incontro è paragonabile alla noia dell’abitudine. Abituarsi ad una persona è noioso, lo dice anche Cecilia a Martin, eppure a volte non se ne può fare a meno. Curioso. Non si può decidere se annoiarsi o meno come non si può scegliere se avere paura o no, e se si cerca di combattere la noia si finisce sempre nelle sue braccia invisibili. Ed essa ci cinge portando alla disperazione, la stessa di Martin il quale non riesce a capire che il suo amore ossessivo fatto di continue domande deriva da una condizione esistenziale incerta, fragile, dolorosa. Ma come lo stesso professore ricorda nella lettera alla sua ex-moglie: “… adesso non credo più che si debba morire di disperazione, anzi credo che si debba nutrire questa disperazione invece di volerne sempre morire, bisogna viverne. Credo che si debba vivere ad ogni costo.”
Buon lavoro del protagonista principale, Charles Berling, inquieto al punto giusto, e della co-protagonista Sophie Guillemin, bambola di ceramica dalle forme ipnotiche (grandi grandi tette) che sprigiona indifferenza verso tutto e tutti, anche per suo padre morente.
Un po’ lunghetto, ma abbastanza fruibile.
Questo è il secondo adattamento cinematografico del libro di Moravia, il primo risale al 1963 ad opera di Damiano Damiani sempre col titolo La noia.
Non avendo letto l’omonimo libro di Alberto Moravia non potrò far altro che descrivere le mie impressioni legate alla pellicola. Impressioni tutto sommato buone perché a fronte di un inizio stentato in cui la personalità schizzata del professore non emerge e tutto è parecchio piatto, con il prosieguo, grazie all’accendersi della passione, ecco che l’irrequietezza di Martin prende il sopravvento diventando persino simpatico nel suo logorarsi.
Il rapporto tra lui e Cecilia è esclusivamente carnale, scevro di un qualunque sentimentalismo (anche se Martin non riesce a capirlo), e connotato da una forma univoca di possessione: lui vuole lei, ma più che lei in sé vuole il suo corpo; è disposto addirittura a “dividerla” con Momo piuttosto che non averla del tutto. E pensandoci su, mi vien quasi da dire che non è Martin ad avere Cecilia ma il contrario, e quindi è sì una forma univoca di possessione ma inversa, è lei, sfuggente, ad aver lui… perché si sa che in amor vince chi fugge! Lasciando da parti questi detti banali, in questa storia non c’è amore, solo l’illusione di sfuggire alla vita che indifferente oscilla come un pendolo tra il dolore e la noia.
La noia. Avendo l’onere e l’onore di essere il titolo dell’opera mi aspettavo che avesse un ruolo più centrale nel film. La noia ritengo sia una forma costitutiva dell’uomo, come la paura. La paura dell’incontro è paragonabile alla noia dell’abitudine. Abituarsi ad una persona è noioso, lo dice anche Cecilia a Martin, eppure a volte non se ne può fare a meno. Curioso. Non si può decidere se annoiarsi o meno come non si può scegliere se avere paura o no, e se si cerca di combattere la noia si finisce sempre nelle sue braccia invisibili. Ed essa ci cinge portando alla disperazione, la stessa di Martin il quale non riesce a capire che il suo amore ossessivo fatto di continue domande deriva da una condizione esistenziale incerta, fragile, dolorosa. Ma come lo stesso professore ricorda nella lettera alla sua ex-moglie: “… adesso non credo più che si debba morire di disperazione, anzi credo che si debba nutrire questa disperazione invece di volerne sempre morire, bisogna viverne. Credo che si debba vivere ad ogni costo.”
Buon lavoro del protagonista principale, Charles Berling, inquieto al punto giusto, e della co-protagonista Sophie Guillemin, bambola di ceramica dalle forme ipnotiche (grandi grandi tette) che sprigiona indifferenza verso tutto e tutti, anche per suo padre morente.
Un po’ lunghetto, ma abbastanza fruibile.
Questo è il secondo adattamento cinematografico del libro di Moravia, il primo risale al 1963 ad opera di Damiano Damiani sempre col titolo La noia.
ricordo questo film.insomma,non mi piacque granchè..e non faccio paragoni col libro,perchè per principio non lo faccio mia..son 2 forme troppo diverse di rappresentazione,per cui non creo possibile mai metterle a confronto..comunque non era nulla di che nemmeno il libro
RispondiEliminaAh, pensavo che il libro fosse fico.
RispondiEliminaSe il film fosse durato un po' meno l'opinione ne avrebbe giovato, non è tutto da buttare comunque, per me.
piuttosto,di sokurov che pensi?la trilogia del male(moloch,taurus e il sole)è strepitosa,secondo me
RispondiEliminaCaro Brazzz, tu non devi più commentare il mio blog, mi fai sentire ignorante!
RispondiEliminaOvviamente scherzo perché è proprio questo il bello della rete. Non conosco Sokurov, ma avevo "orecchiato" in passato i titoli da te citati.
Il cinema russo, o affine ad esso tipo quello ceco o ungherese, mi piace molto perché è lontano anni luce da quello che viene solitamente proposto nelle sale.
allora se non lo conosci guardati moloch,è un film del 1999,vincitore a cannes(ma forse ricordo male)
RispondiEliminaparlando di cinema dell'est,anche quello rumeno è vivacissimo
Uhm, qualche nome di cinema rumeno? :D
RispondiEliminaCiao, volevo farti i complimenti per il blog. Scrivi senza alcun tipo di presunzione, senza nasconderti dietro frasi arzigogolate che alla fine non vogliono dire nulla come fanno alcuni critici. Alla fine, prima dei tecnicismi, conta quello che ci trasmette un'opera d'arte.
RispondiEliminaNon sono un esperto di cinema, ho dei buchi clamorosi, però mi piace vedere i film e spero di poter contribuire con qualche commento interessante :-)
Intanto confermo... Sokurov è un grande!
Io della trilogia ne ho visto due, "Moloch" (su Hitler) e "Il Sole" (sull'imperatore giapponese Hirohito), poi ho visto anche "Madre e figlio" e "Alexandra".
"Il Sole" è il mio preferito, "Madre e figlio" visivamente è un capolavoro (non mi ricordo dove ho letto un accostamento coi quadri di C.D. Friedrich), però riconosco di averlo trovato incredibilmente pesante, un'ora scarsa che sembrano quattro...
Saluti
sicuramente cristian mungiu,il regista del film che ha vinto a cannes anno scorso..film assolutamente strepitoso..poi,ma è ungherese..tarr bela..che è semplicemente magico
RispondiEliminaAaaah Bela Tarr sì che lo conosco anche se non ho ancora avuto il piacere di guardare un suo film. Però, curiosa coincidenza, il prossimo post tratterà proprio un film ungherese in cui lui ha dato una mano in vesti non ufficiali.
RispondiEliminaCia Valentino!
Come dico sempre i complimenti sono il miglior carburante. E stai tranquillo che di buchi clamorosi ne ho anche io!
E vabbè, ho capito che 'sto Sokurov dovrò vedermelo prima o poi...
Grazie e a presto ;)