giovedì 30 dicembre 2021

His Master’s Voice

Come per il collega e connazionale Kornél Mundruczó, in tempi recenti pure György Pálfi ha fatto il salto continentale girando il suo primo film in lingua inglese, certo, anche ad un occhio poco avvezzo a notare le sottigliezze la differenza che c’è tra Pieces of a Woman (2020) e His Master’s Voice (2018) è notevole ed è costituita dai soldi che Netflix ha messo a disposizione per KM rispetto a quelli racimolati da GP, però il buon Pálfi ha cercato di far necessità virtù e alla fine l’opera che ha partorito, nella traiettoria sbilenca percorsa, nella pseudo-artigianalità che la modella, nell’invasione di spazi disallineati dalla traccia principale, ha a mio avviso una dignità che si rafforza nel non prendersi troppo sul serio, in una autoironia che medica le slabbrature, le velleità, i timidi tentavi, dopotutto l’ho trovato un titolo divertente, perlomeno molto di più della fatica precedente Free Fall (2014). Ok, il diletto derivante da una proiezione non è un metro di giudizio consono, diciamo allora che parliamo di un oggetto... vivace, un po’ come le sgargianti camicie indossate dal protagonista, e questa vivacità è sfaccettata in approcci e tecniche diverse che confermano lo spirito d’inventiva che caratterizza l’ungherese fin dagli albori (chi si ricorda Hukkle [2002]?). Abbiamo un cospicuo uso di computer grafica (vedere le iper-regressioni nel prologo e nell’epilogo), una trasversalità di generi (dramma famigliare, fantascienza, mockumentary) e aperture su una surrealtà abbastanza spinta (l’apparizione del gigante mi è parso un tributo al dipinto di Francisco Goya Saturno che divora i suoi figli), insomma l’aria che spira è frizzantina, e dato che al film, in fondo, con sfrontatezza non importa di finire per mostrarsi goffo e pasticciato, il mio sentimento di benevolenza si è alzato di una tacca. Giusto per fare un parallelo non richiesto, alcuni esemplari della filmografia di Gabriel Abrantes si avvicinano a Az Úr hangja, sebbene il portoghese stazioni ad un livello consapevolmente al di là del concetto di postmoderno.

La trama elaborata dal magiaro, che si basa su un libro di Stanislaw Lem (ma a leggere in giro pare non gli sia stato particolarmente fedele), mette o vorrebbe farlo (la discriminante del gradimento si situa qui), in connessione il macroscopico con il microscopico, credo che le due sequenze che fanno da contenitore alla pellicola siano in tal senso significative, è tutta una faccenda di atomi e molecole, di legami consanguinei che vanno a creare corpi, entità, organismi all’interno di un involucro più grande che a sua volta sta dentro ad un altro ancora maggiore e così via fino all’infinito. Sicché la vicenda di una famiglia che indubbiamente è per i suoi componenti il centro di una vita intera, diventa in realtà soltanto un piccolo filo dell’immenso ordito dell’universo, e infatti durante il finale la comparsa sullo schermo di un epocale albero genealogico è lì a ricordarlo, siamo solo granelli di sabbia in un deserto sconfinato o al massimo i simboli numerici di un codice binario proveniente dalle stelle che un ragazzo diversamente abile è impegnato a decrittare. Ecco, questa chiamiamola tensione tra l’essere umano e le sue pene in rapporto ad una struttura misteriosa che lo sovrasta è il nocciolo del film, poi a fare da contorno Pálfi inserisce parecchia altra roba che sovraccarica la visione. Le sensazioni di una progressione sbrindellata e di una mancanza di equilibrio possiamo zittirle a patto di allinearci al mood strampalato che aleggia, solo così si potranno digerire le innumerevoli fuoriuscite dal seminato (le parentesi spaziali: si accettano interpretazioni) al pari delle ingenuità che, ad una lettura razionale, indeboliscono alcuni passaggi narrativi (la “vendetta” di Zsolt). Poi un frullato composto da messaggi extraterrestri, un alter ego da b-movie di Michael Moore, combustioni spontanee e orge immotivate io lo ingollo senza grossi patemi. Menzione speciale alla scena sul motoscafo.

martedì 28 dicembre 2021

Terra de ninguém

Piacere di conoscerti Salomé Lamas, ho letto che sei nata nel 1987 in un Paese che dagli anni ’10 in poi è diventato un centro gravitazionale del cinema autoriale contemporaneo, il Portogallo, che hai studiato a Lisbona, Praga e Amsterdam, che la tua visione artistica non si riduce solo ai film, che hai allestito mostre fotografiche e video installazioni in alcuni dei più importanti musei del globo, che Terra de ninguém (2012) è uno dei tuoi primi lavori, e io sono ben felice di entrare in contatto con queste possibili nuove prospettive, ad occhio e croce direi che le opere seguenti potrebbero meritare attenzione, nel frattempo concentriamoci su No Man’s Land per descrivere subito a che cosa andiamo incontro: un piccolo parallelo lo si può avanzare con El Sicario, Room 164 (2010), anche qui si ha una pellicola che vive nella frontalità di un’intervista, e anche qui l’intervistato è un uomo che ha ucciso, senza provare rimorso perché era il suo lavoro, si tratta di Paulo de Figueiredo, un all’apparenza comune pensionato portoghese con i baffi che, a detta sua, è stato invece un feroce mercenario al soldo di varie organizzazioni che lo “affittavano” per liquidare qualche malcapitato. La differenza col sicario di Rosi è che quello della Lamas parla di sé a volto scoperto e ci racconta di un’esistenza turbolenta iniziata nelle colonie africane, proseguita nelle file del GAL (un gruppo paramilitare istituito illegalmente in terra spagnola per fronteggiare i terroristi dell’ETA) e arrivata perfino oltre l’Atlantico nella guerrilla di El Salvador, una lunga scia di sangue, di memorie che scorrono di fronte alla mdp della regista, sebbene non sia facilissimo orientarsi tra nomi di politici, fazioni, e qualunque altro riferimento alle tensioni dell’epoca, arriva, più o meno nitidamente, una narrazione atipica, ovviamente terribile e ancora più ovviamente affascinante. 

Nel colloquio le domande di Salomé sono state tagliate dal montaggio finale (sentiamo solo le sue riflessioni in voce over che scandiscono gli incontri avvenuti con de Figueiredo tra il 2011 ed il 2012 strutturati poi attraverso una sequenza di ottantotto brevissimi capitoli), però si evince che al di là del cronachistico si tenta di scendere in profondità sbrogliando questioncine giusto un poco esorbitanti perché non dobbiamo scordarci che chi abbiamo di fronte è un assassino e quindi sarebbe interessante capire il punto di vista di un professionista del settore omicidi & affini in merito alla religione, all’etica, all’empatia. Ma l’uomo seduto sullo sgabello con dietro un telo nero appeso in un ambiente spoglio, abbandonato, di cui vediamo un paio di frame e che risulta una cornice a dir poco perfetta, non si sbottona granché, è un tizio disilluso dalla vita, cinico, con ancora un barlume di umanità solo quando parla della sua famiglia che un giorno vorrebbe riabbracciare, per il resto non c’è nessun rimpianto, nessuna intenzione di redimersi, verso la fine dice che di tutte le persone che ha fatto fuori non ce n’è stata nemmeno una in grado di togliergli il sonno. È una testimonianza truce, cruda, diretta, forse perfino rara, e in un certo senso sarebbe stata sufficiente a tenere in piedi la baracca, eppure la Lamas negli ultimi dieci minuti di Terra de ninguém ci fa imboccare un’altra strada, lascia la casa diroccata per seguire un senzatetto di colore, si allontana da de Figueiredo per insinuare un dubbio, enorme, che riguarda la verità, quella che il sessantaseienne ci ha detto senza però che venisse avvalorata da nessun documento, nessuna controprova [1]. Poi, il signor Paulo, compare in video scherzando con il barbone, ed è qui che il film termina, in un punto interrogativo, nell’ambiguità di un racconto che oscillando tra la sincerità e la menzogna soddisfa chi è arrivato fino lì perché l’incertezza è sempre meglio della certezza. 
A presto Salomé, sono sicuro che ci sentiremo spesso. 
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[1] Facendo una rapida ricerca spunta un articolo di El Pais del 1991 dove si attesta il suo effettivo arresto (link).

domenica 26 dicembre 2021

Manoman

Qui (Oh Willy... del 2012) e là (Edmond del 2015), si ritrova qualcosa in Manoman (2015), però meglio non farsi trarre in inganno dall’apparato realizzativo, infatti il regista britannico Simon Cartwright, a differenza dei colleghi del settore, non usa lo stop-motion, o almeno non in maniera preponderante, il suo allestimento è fatto di un mix tra marionette di cui vediamo i bastoncini che le sorreggono e digitale usato per dare espressività ai pupazzi (occhi e forse anche bocche) e, impressione personale di uno che ignora abbastanza, maggiore profondità ad alcuni ambienti. Poco cambia comunque perché ad arrivarci è nuovamente quella piacevolissima sensazione di artigianalità che oltrepassa lo schermo (e il mostrare allegramente i supporti dei pupi, utilizzandoli addirittura per schiaffeggiare un malcapitato, è una dichiarazione di ludica consapevolezza) insieme ad un ingegno che si manifesta nei soliti dettagli tutti da gustare. Ok, la smetto di incensare il comparto tecnico perché ormai risulto un disco rotto quando si tratta di corti animati, piuttosto vale la pena spendere due parole sulla storia contenuta nei dieci minuti di girato, di fatto, e non è una novità, agli animatori contemporanei piace porre al centro della scena personaggi fragili, timidi, solitari, un identikit che combacia perfettamente con Glenn, il protagonista di Manoman, il quale è suo malgrado fautore di un cambio marcia narrativo nel momento in cui Cartwright decide di far vomitare fuori dall’omino la sua parte oscura che gli si annidava nello stomaco.

Il folleggiare del duo in una metropoli notturna è molto spassoso perché è altrettanto spassosa (e anche weird) l’anatomia del doppio maligno, praticamente un diavoletto dannydevitesco che ne combina di ogni, ovvero: combina ciò che Glenn, in un luogo recondito del suo essere, vorrebbe fare, che è un liberarsi, scatenarsi, e lo intuiamo senza ricevere informazioni cospicue, è sufficiente vederlo nella stanza della terapia di gruppo per comprendere la vita infelice e appartata che fin lì ha condotto. L’obiettivo di Cartwright non è però il mostrarci una specie di riabilitazione esistenziale, il folletto irsuto è una proiezione distorta di sentimenti sbagliati, difatti la prima e unica azione “cattiva” di Glenn lo distrugge dentro spingendolo al gesto più estremo in assoluto. Ecco che Manoman, alla fine, accantona la sua spinta mattoide per annerirsi quel che tanto che basta, un suicidio è un suicidio, anche in un oggettino misconosciuto, e le motivazioni che lì conducono possono essere un invito a riflettere, al pari delle ultimissime immagini dove la folla, dal nulla, si mette a idolatrare il demone ignudo che, in piedi sul tetto di un grattacielo, insagomato controluce da un sole sorgente, piscia loro in testa. È il male a vincere sempre?

venerdì 24 dicembre 2021

Caja cerrada

Salire a bordo di un peschereccio, nel bel mezzo di un mare nero e sconosciuto (in realtà è il Mediterraneo ma questa è un’informazione che estrapoliamo dagli schermi dei radar, a conti fatti potremmo essere ovunque), assistere ad una battuta di pesca con queste reti che sembrano enormi ovuli ricolmi di pesci scodanti, ascoltare le conversazioni dell’equipaggio marocchino e il loro arabo danzante, ecco dove è arrivato Martín Solá, ecco dove, di riflesso, siamo arrivati noi, e certo che messa così sembrerebbe di poterci trovare al cospetto di un’altra indimenticabile cinesperienza come fu quella di Leviathan (2012), e l’impressione è condivisibile sebbene Caja cerrada (2008) si fermi un paio di passi prima, più o meno nelle stesse zone di Dead Slow Ahead (2015) ma con minore propensione estetizzante, il che, comunque, non leva nulla all’esordio di Solá. Chi scrive si è goduto al massimo l’immersione salina offerta, un’apnea visiva che funziona grazie ad un dispositivo documentaristico da vero e silente testimone sul campo, da sguardo che scruta e che scrutando trova angoli e scorci che trascendono il genere di riferimento, come per il capolavoro di Castaing-Taylor e Verena Paravel l’oceano fa paura perché è la dimora di incubi sguscianti che vivono nell’oscurità ondulante dell’acqua, nel buio si aprono rettangoli abitati da novelli Cappuccetto Rosso e Giallo che manovrano intricati orditi da spedire negli abissi. Il fatto è solo uno: la suggestione, una forza stimolante che insemina il vedere, che lo spinge oltre le immagini a cui assistiamo per richiamarne altre. È il cinema, baby.

Oltre ad una tale potenza evocatica c’è un’altra questione dentro a Caja cerrada, ovvero l’aderenza al film successivo del regista argentino: The Chechen Family (2015), il parallelo parrebbe impossibile vista la distanza che sussiste tra le due ambientazioni di ripresa e gli argomenti toccati, invece, che ci crediate o meno, è assolutamente una roba concreta la sovrapponibilità concettuale tra le due proposte. Non ci sono molte informazioni in giro su Solá, non si sa bene chi sia e cosa faccia, però da questa coppia di doc recante la sua firma emerge la capacità di trasportarci in uno stato ipnotico-meditativo di rara intensità. Se arrivare a suddette altezze è forse più facile occupandosi di un rituale religioso, lo stesso, in teoria, non si potrebbe dire di pescatori che svuotano le reti dentro a delle cassette di legno, eppure le cose stanno proprio così: il blocco centrale di Caja cerrada, lungo, reiterativo, praticamente una catena di montaggio, ci fa compiere un viaggio filmico in prima classe dove la ripetitività lavorativa unita al formicolante sbattacchiare dei pesci nelle casse deborda in un rapimento audio-visivo da cui non è contemplata alcuna via di fuga, e meno male!, l’imperativo è lasciarsi invadere dal mantra ittico, dalle colate di squame e fauci boccheggianti, dalle manciate di sale, in loop continuo e incessante. Poi, dopo, ci sarà anche una chiusura (tra l’altro l’ultimissima istantanea vede un cielo albeggiante attraversato da gabbiani in volo che fa molto Leviathan), ma è il prima che si scolpisce negli occhi e nelle orecchie, in modo, lasciatemi ancora crogiolare nell’entusiasmo a caldo, indelebile.

lunedì 20 dicembre 2021

This Magnificent Cake!

Perché non accogliere la proposta di artisti che fino ad un certo punto razzolavano nel sottobosco dell’animazione e poi ad un altro di punto decidono di lanciarsi in un’opera più lunga e quindi più strutturata? La domanda ha risposta ovvia, soprattutto se i registi in questione sono Emma De Swaef e Marc James Roels, chi?!, domanderete voi accigliati, ma ovviamente gli autori di un ottimo corto animato che rispondeva al nome di Oh Willy... (2012), adesso per il duo è diventato il momento di diventare “grandi”, o almeno di crescere quel tanto che basta per staccarsi dal mordi e fuggi del cortometraggio, il risultato è Ce magnifique gâteau! (2018) un oggetto che sta in bilico tra il medio ed il lungo e che, per impostazione narrativa, si fa apprezzare: occhio, non è il cosa ma il come: ri-occhio, il film è suddiviso in capitoli brevi tutti riguardanti la realtà ottocentesca delle colonie belga in Africa, non abbiamo connessioni dirette, cause, concause e relativi effetti, ma leggere epifanie, rimandi trasparenti che uniscono, a modo loro, l’essenza episodica di This Magnificent Cake!. Ma se stiamo parlando di animazione, quella bella, in stop-motion, zeppa di inventiva e trovate pregevoli, allora le tattiche del racconto utilizzate, alla fin fine, non interessano nemmeno troppo, difatti è molto più appagante ammirare il lavoro manuale dei filmmaker che si traduce sullo schermo in un ricercato affresco “casalingo” inevitabilmente di maggior impatto rispetto al titolo precedente. Ancora lana e feltro sia per ometti dalle guance rosse che per ambienti esterni quali grotte o giungle, però con cura e maestria ulteriore, nelle luci, nella fluidità dei pupazzi, nelle angolazioni di ripresa, ora esagero: a tratti quasi ci si scorda di stare guardando un prodotto animato.

Vero che mettersi a dissertare sulla scrittura di Ce magnifique gâteau! potrebbe apparire la diluizione del brodino recensionistico (… potrebbe?), tuttavia questa scrittura sembra che un messaggio voglia recapitarcelo, e forse anche più di uno. Il primo, il maggiormente constatabile, si riferisce ad una sorta di critica al colonialismo europeo, non è una ramanzina né un perentorio j’accuse, c’è piuttosto dell’ironia, sardonica (qualcosa che, alla lontana, non sarebbe una bestemmia associare a Seidl) e scorretta, i bianchi vengono dipinti come beoti che se ne fottono di chi hanno intorno (è un’immagine triste e al contempo crudele quella del pigmeo usato come posacenere umano). Comunque sia la chiave di lettura del mettere alla berlina il vile sistema delle colonie occidentali nel continente nero attraverso la derisoria caricatura dei suoi interpreti non sembra essere il fine ultimo di De Swaef e Roels perché un altro tipo di feeling viene ad instaurarsi, ed è dovuto ad un maneggiare argomenti che lambiscono l’abisso, come la morte, e ce ne sono parecchie in tre quarti d’ora, anche violente, o come il sogno, tanto che diventa impossibile capire dove finisce e dove inizia la dimensione onirica (si guardi la succosa scenetta weird con la lumaca), e perciò si ritorna sempre al fascino del bizzarro, marcato o meno, di codesti esemplari cinematografici, alla forza che ogni volta possiedono nel ripresentarsi così, oscuri, indecifrabili, teneri, elusivi, e al sentimento di benevolenza che, complice la loro realizzazione, è automatico provare.

mercoledì 8 dicembre 2021

A Lack of Clarity

Di sicuro il senso che si annida in A Lack of Clarity (2020) fa fede al suo titolo, questa “mancanza di chiarezza” aleggia in effetti per i venti e spiccioli minuti che compongono il cortometraggio sotto esame firmato da un ragazzo danese di nome Stefan Kruse Jørgensen. Guardiamo le cose più facili proprio perché legate al guardare: l’apparato estetico scelto dal regista in realtà, come dire, non è una sua scelta diretta, tutto il materiale che compone il film proviene dal sistema di telecamere di sorveglianza appartenenti ad un’azienda situata a Las Vegas, d’inverso la manipolazione formale offerta presumo sia farina del suo sacco e concorre ad astrarre immagini di schietto realismo per trasportarle in una zona ibrida, indefinita, dove anche un etereo sound design contribuisce a gettare banali squarci urbani in un limbo simil-onirico. Pensando a qualche possibile similitudine l’impatto visivo che il corto ha potrebbe assomigliare vagamente alla patina in negativo di Noite Sem Distância (2015) oppure, ancor più vagamente, alle angolazioni aeree di Dene wos guet geit (2017), però, nel concreto, mancando qui qualsiasi riferimento ad una drammaturgia, ad un testo, il lavoro di Kruse si distacca abbastanza nettamente dagli esempi sopraccitati. Complice una voce fuori campo che sembra quasi provenire da un telefono posto nell’aldilà, l’opera ha una presa sullo spettatore, suscita interesse e, se non vero e proprio magnetismo, qualcosa che gli si avvicina.

Il che, ovvero la suddetta morsa nei riguardi di chi assiste, è un aspetto curioso perché non è per nulla semplice dire di che si occupa A Lack of Clarity. Il commento over dà delle imbeccate, parrebbe che si voglia porre alla nostra attenzione una situazione specificatamente contemporanea, l’inondazione di luce che caratterizza le metropoli moderne (si cita Parigi), luce per vedere, per controllare. Il controllo globale mi sembra che sia il tema al centro del discorso, il fatto di essere gli attori involontari di un “cinema panottico” registrato dalle videocamere a circuito chiuso e relative evoluzioni (si pone l’accento su quelle termiche, e forse le riprese adottano tale tecnologia, però in bianco e nero, giusto per disorientare un altro po’) dovrebbe istituire domande di ordine sociale, etico e politico, questioni di privacy, di riconoscimento facciale, di tracciamento. Argomenti intriganti e urgenti, l’approccio del filmmaker verso di essi non è propriamente frontale e ciò confonde, il portamento quasi sperimentale inghiotte le tesi filmiche, e non mi sento affatto di considerarlo come un difetto. Da rivedere con la massima cautela.

lunedì 6 dicembre 2021

In Purgatorio

Spesso l’esterofilia imperante ci fa vedere il bello solo oltre i nostri confini nazionali, molte volte è così ma per le restanti altre ci sono dei Giovanni Cioni da scoprire, non che sia garantito automaticamente l’apprezzamento ma almeno il riconoscere dei tentativi che vanno al di là del solito cinema è un atto, nei panni di spettatori con il cervello acceso, doveroso. Cioni, nato a Parigi nel ’62 e transitato in vari altri Paesi europei dove ha affinato la propria professione, sembra un tipo a cui non piace stare con le mani in mano, basta farsi un giro sul suo sito ufficiale per farsene un’idea (link), e questo movimento, questo passaggio continuo, lo si percepisce anche dentro In Purgatorio (2009), un documentario che esplora in maniera semplice ma ben strutturata (divisione in capitoletti; didascalie arricchenti apposte dal regista) la pasta magica di una Napoli sacra e profana, e lo fa arruolando persone che sono personaggi, cantastorie, ladruncoli, poveracci, esseri umani interpreti di sé stessi in una commedia neo-neorealista. Come da titolo, si comprende l’attenzione che la città e chi la abita ripone verso una forma di credenza che non so nemmeno se può essere definita “religione”, almeno non nel concetto moderno che si ha di essa, perché c’è qualcosa di arcaico nei culti popolari che vediamo, nell’affidarsi a morti senza nome, a mucchietti di ossa accatastati da secoli nel cimitero delle Fontanelle, è una fede pagana che si mescola in un folklore squisitamente partenopeo dove sentendo le varie confessioni sullo schermo emerge una filosofia di strada che non ha niente da invidiare a quella accademica, una saggezza immersa in una dimensione ritualistica, calata nel presente e al contempo intrisa di antiche superstizioni.

Più si va avanti, più In Purgatorio lascia che nel topic principale si innestino altre tematiche, legate e slegate al culto dei trapassati. È il caso dei sogni, premonitori o meno che siano (il defunto sognato ha i piedi sulla battigia, significa che nella bara è entrata dell’acqua e bisogna andare ad asciugarla), ed è il caso, anche, dei cosiddetti “assistiti”, ovvero individui che suggeriscono i numeri del lotto da giocare. Un tale rimbalzare da parte di Cioni in contesti che lambiscono frontiere non così terrene e il rapportarsi con soggetti che Matteo Garrone scritturerebbe seduta stante in un suo film (la voce dell’anziano che paragona un cimitero alla Fiat di Torino, solo che la voce, incatramata, dialettale, è storia a sé), fanno dell’opera in esame il pregevole ritratto di una Napoli ricolma di amichevoli ombre (che cosa si può dire della banda che gioca a carte in cucina? Sarebbe piaciuta a Monicelli), di attori della vita che vivono, di anime in attesa, perché a conti fatti la Napoli di Cioni è un piccolo grande Purgatorio in equilibrio tra le fiamme dell’Inferno e il nitore del Paradiso.