Qui (Oh Willy... del 2012) e là (Edmond
del 2015), si ritrova qualcosa in Manoman
(2015), però meglio non farsi trarre in inganno dall’apparato
realizzativo, infatti il regista britannico Simon Cartwright, a
differenza dei colleghi del settore, non usa lo stop-motion, o almeno
non in maniera preponderante, il suo allestimento è fatto di un mix
tra marionette di cui vediamo i bastoncini che le sorreggono e
digitale usato per dare espressività ai pupazzi (occhi e forse anche
bocche) e, impressione personale di uno che ignora abbastanza,
maggiore profondità ad alcuni ambienti. Poco cambia comunque perché
ad arrivarci è nuovamente quella piacevolissima sensazione di
artigianalità che oltrepassa lo schermo (e il mostrare allegramente
i supporti dei pupi, utilizzandoli addirittura per schiaffeggiare un
malcapitato, è una dichiarazione di ludica consapevolezza) insieme
ad un ingegno che si manifesta nei soliti dettagli tutti da gustare.
Ok, la smetto di incensare il comparto tecnico perché ormai risulto
un disco rotto quando si tratta di corti animati, piuttosto vale la
pena spendere due parole sulla storia contenuta nei dieci minuti di
girato, di fatto, e non è una novità, agli animatori contemporanei
piace porre al centro della scena personaggi fragili, timidi,
solitari, un identikit che combacia perfettamente con Glenn, il
protagonista di Manoman,
il quale è suo malgrado fautore di un cambio marcia narrativo nel
momento in cui Cartwright decide di far vomitare fuori dall’omino
la sua parte oscura che gli si annidava nello stomaco.
Il
folleggiare del duo in una metropoli notturna è molto spassoso
perché è altrettanto spassosa (e anche weird)
l’anatomia del doppio maligno, praticamente un diavoletto
dannydevitesco che ne combina di ogni, ovvero: combina ciò che
Glenn, in un luogo recondito del suo essere, vorrebbe fare, che è un
liberarsi, scatenarsi, e lo intuiamo senza ricevere informazioni
cospicue, è sufficiente vederlo nella stanza della terapia di gruppo
per comprendere la vita infelice e appartata che fin lì ha condotto.
L’obiettivo di Cartwright non è però il mostrarci una specie di
riabilitazione esistenziale, il folletto irsuto è una proiezione
distorta di sentimenti sbagliati, difatti la prima e unica azione
“cattiva” di Glenn lo distrugge dentro spingendolo al gesto più
estremo in assoluto. Ecco che Manoman,
alla fine, accantona la sua spinta mattoide per annerirsi quel che
tanto che basta, un suicidio è un suicidio, anche in un oggettino
misconosciuto, e le motivazioni che lì conducono possono essere un
invito a riflettere, al pari delle ultimissime immagini dove la
folla, dal nulla, si mette a idolatrare il demone ignudo che, in
piedi sul tetto di un grattacielo, insagomato controluce da un sole
sorgente, piscia loro in testa. È il male a vincere sempre?
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