domenica 26 dicembre 2021

Manoman

Qui (Oh Willy... del 2012) e là (Edmond del 2015), si ritrova qualcosa in Manoman (2015), però meglio non farsi trarre in inganno dall’apparato realizzativo, infatti il regista britannico Simon Cartwright, a differenza dei colleghi del settore, non usa lo stop-motion, o almeno non in maniera preponderante, il suo allestimento è fatto di un mix tra marionette di cui vediamo i bastoncini che le sorreggono e digitale usato per dare espressività ai pupazzi (occhi e forse anche bocche) e, impressione personale di uno che ignora abbastanza, maggiore profondità ad alcuni ambienti. Poco cambia comunque perché ad arrivarci è nuovamente quella piacevolissima sensazione di artigianalità che oltrepassa lo schermo (e il mostrare allegramente i supporti dei pupi, utilizzandoli addirittura per schiaffeggiare un malcapitato, è una dichiarazione di ludica consapevolezza) insieme ad un ingegno che si manifesta nei soliti dettagli tutti da gustare. Ok, la smetto di incensare il comparto tecnico perché ormai risulto un disco rotto quando si tratta di corti animati, piuttosto vale la pena spendere due parole sulla storia contenuta nei dieci minuti di girato, di fatto, e non è una novità, agli animatori contemporanei piace porre al centro della scena personaggi fragili, timidi, solitari, un identikit che combacia perfettamente con Glenn, il protagonista di Manoman, il quale è suo malgrado fautore di un cambio marcia narrativo nel momento in cui Cartwright decide di far vomitare fuori dall’omino la sua parte oscura che gli si annidava nello stomaco.

Il folleggiare del duo in una metropoli notturna è molto spassoso perché è altrettanto spassosa (e anche weird) l’anatomia del doppio maligno, praticamente un diavoletto dannydevitesco che ne combina di ogni, ovvero: combina ciò che Glenn, in un luogo recondito del suo essere, vorrebbe fare, che è un liberarsi, scatenarsi, e lo intuiamo senza ricevere informazioni cospicue, è sufficiente vederlo nella stanza della terapia di gruppo per comprendere la vita infelice e appartata che fin lì ha condotto. L’obiettivo di Cartwright non è però il mostrarci una specie di riabilitazione esistenziale, il folletto irsuto è una proiezione distorta di sentimenti sbagliati, difatti la prima e unica azione “cattiva” di Glenn lo distrugge dentro spingendolo al gesto più estremo in assoluto. Ecco che Manoman, alla fine, accantona la sua spinta mattoide per annerirsi quel che tanto che basta, un suicidio è un suicidio, anche in un oggettino misconosciuto, e le motivazioni che lì conducono possono essere un invito a riflettere, al pari delle ultimissime immagini dove la folla, dal nulla, si mette a idolatrare il demone ignudo che, in piedi sul tetto di un grattacielo, insagomato controluce da un sole sorgente, piscia loro in testa. È il male a vincere sempre?

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