venerdì 30 giugno 2017

Undress Me

Quanto poco ci sarebbe da dire al cospetto di una nullità come Ta av mig (2012)! Davvero, c’è da meravigliarsi di come un corto del genere sia riuscito ad essere presentato al Festival di Berlino ’13, ma tant’è è successo e l’orgoglio cinefilo che alberga in ognuno di noi non può che urlare vendetta: quale raccomandazione avrà avuto lo svedese Victor Lindgren per accedere alla manifestazione teutonica a scapito di qualche suo collega più meritevole di lui? La risposta, oltre che superflua, come è giusto che sia non interessa a nessuno, d’altronde dal quarto d’ora di Undress Me possiamo al massimo arricchirci sul piano geometrico, è incredibile infatti di quanto il cinema, e quindi l’arte in movimento della contemporaneità, possa risultare a volte piattissimo e sottilissimo, davvero stupefacente! E a questa unidimensionalità si aggiunge un processo di imbalsamazione degno di un maestro tassidermista, si partorisce un film già morto qui, non c’è vagito alcuno per Undress Me: ma stiamo scherzando? Di seguito la celebrazione del funerale.

Non potendone parlare bene di quando era in vita perché l’esistenza (artistica) non è una condizione che appartiene a Ta av mig, rimane la sua profonda bruttezza in tutti i campi percorribili. Ad una banalità estetica corrisponde il grado zero dell’intento concettuale. Non si comprende il perché di un approccio alla transessualità come quello di Lindgren, un’azione con modi e tempi che hanno provocato a chi scrive un malessere fisico ed una rinnovata sfiducia verso la maggior parte di questi personaggi che riescono a bazzicare palcoscenici ambiti. Ad essere buoni si potrebbe vedere nel titolo un suggerimento laterale dove dietro allo spogliarsi effettivo di Mikaela si celerebbe l’intimità di un difficile passaggio corporale, ma ad essere realisti quello che lo schermo ci mostra è solo un idiota che fa domande idiote ad una tizia che ha cambiato sesso. L’atteggiamento di Han è seriamente quello di un imbecille e probabilmente (o almeno lo spero) Lindgren ha cercato di esasperare il modo di porsi del ragazzo rendendolo una sorta di impersonificazione dell’uomo medio a cui interessa vedere una fica e un paio di tette in un fisico androgino. Il punto nodale è che non c’era il minimo bisogno di tutto ciò, siamo al di là della prevedibilità, direttamente nell’area della constatazione a priori, ci sono altre modalità per tematizzare questioni del genere, e le prime che mi sovvengono da esempio sono quelle di Lifshitz in Wild Side (2004), ma l’elenco è ovviamente infinito e io stesso ne sono quasi totalmente all’oscuro. Che Lindgren studi ancora va’.

lunedì 26 giugno 2017

Seigi no tatsujin: Nyotai tsubo saguri

Seigi no tatsujin: Nyotai tsubo saguri (2000) è stata la prima, nonché l’unica (correggetemi se sbaglio [1]), sortita di Sion Sono nel pinku eiga. Coetaneo di Utsushimi questo film della durata di un’ora mi pare un raro esempio in cui un genere di riferimento, e in questo caso parliamo di softcore, sia riuscito ad imbrigliare l’esuberanza artistica del giapponese. Beninteso, non sono affatto un esperto in materia perché ho visto solo un altro pink movie (Underwater Love [2011] che a sua volta sconfinava in ulteriori territori), però presumo che le linee guida portino, come nella pornografia, sempre e comunque ad unico obiettivo: la catarsi della sessualità, e poco importa come si arriva alla meta, ogni svincolo para-narrativo si fa pretesto per esibire libidine et lussuria. Sono ‘sta volta subisce un po’ troppo i precetti dell’etichetta, nel senso: quello che nel suo lavoro si verifica è quanto ci si aspettava che ci fosse, il film dura un’ora, e di quest’ora almeno quaranta minuti sono dedicati a gente che scopa. Dal Signore del Caos, un terremotatore come pochi altri nel settore, si pretendeva un’argomentazione maggiormente spiazzante.

A ben vedere e compiendo non pochi sforzi si potrebbero rintracciare anche dei segnali personali perché subito, dal parlato in camera di uno dei protagonisti, sono balzati alla mente altri titoli firmati da Sono in cui c’è proprio un dare del tu, una voglia di narrare la propria storia allo spettatore parlandogli in faccia, purtroppo il discorso, a parte qualche breve parentesi, non viene più ripreso optando per un flusso maggiormente consono alla tipologia di cinema rappresentata. Un’altra questione che epifanicamente compare e scompare nella filmografia del regista e che in qualche modo si ripresenta anche qua è la bislacca messa in scena della creazione artistica con un accentramento tra il creatore ed il creato [2]. Nel già citato Utsushimi una tale riflessione assumerà contorni ben definiti, in Seigi no tatsujin una voglia a non approfondire il tutto sembra prendere il sopravvento insieme ad un’aria canzonatoria che pare fare il verso ai critici d’arte. C’è da dire che la trama in sé diverte e per l’aria di sregolatezza che spira può spingerci a dire che sì, è un film di Sono Sion, resta fermo il punto che i possibili avvisi di stile impiantati in una storia fuori di cranio si mettono al servizio del diktat categoriale, tutto converge verso l’ostensione dell’erotismo, e se mettiamo in conto l’immaturità di Sono e la povertà di mezzi a disposizione, il risultato è evitabile, a meno che non vi siate messi in testa la strampalata idea di visionare l’intero suo curriculum.
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[1] Mi correggo da solo, al momento di questo scritto non era ancora uscito Antiporno (2016), film che però già dal titolo sembra poter essere dell’altro.

[2] Vieppiù che Sono stesso si mette nei panni di un vecchio scultore ormai impotente: autoironia o messaggio da interpretare? Si propende per la prima ipotesi perché dal 2000 a oggi ha ampiamente fornito prova della sua virilità registica.

venerdì 23 giugno 2017

El resto del mundo

A parte l’ipnotico incipit sulla spiaggia (che ricorda un po’ la finestra lisergico-balneare di Post Tenebras Lux, 2012), El resto del mundo (2014) non possiede una cifra di rispettabile ricerca che invece caratterizzerà le opere successive di Pablo Chavarría Gutiérrez, è altrettanto vero però che qui il regista messicano si dimostra già un sabotatore della narrazione, ne consegue che un’esplorazione di territori altri non viene nuovamente meno con annesso godimento dello spettatore. L’idea che sorreggerebbe il film è quella di raccontarci il flash famigliare tra un padre (è il “solito” Alejandro Alva) e la propria figlia (presumibilmente tale anche fuori dal set), ciò che PCG estrapola da questa stringata sinossi è un filo pieno di strappi e riannodamenti affiancato dallo sbocciare esistenziale che si consuma nel territorio circostante, non è, evviva, una visione propriamente agevole (e ce lo aspettavamo visto il curriculum dell’autore) e non è nemmeno, forse, un lavoro che tocca i picchi a cui eravamo abituati, rimane ad ogni modo l’evidente presenza di un talento artistico che muovendosi oltre i fragili confini del documentario si diletta nel rimodellare il girato giungendo ad una sostanza che, come avevo già sottolineato per il meraviglioso Las letras (2015), è un qualcosa di indefinibile e, probabilmente, di incomprensibile, ma, e si ritorna al punto più nodale di tutti, di sentibile, tanto da dare al cinema di Chavarría Gutiérrez un profondo e ammirabile segno distintivo.

La tierra aún se mueve (2017) è un miraggio apocalittico ancora lontano per il Pablo del 2014, tuttavia in El resto del mundo si aprono delle brecce spaesanti che in qualche modo ci trasmettono un carnet di sensazioni accostabili al magnum opus del ragazzo di Monterrey, ciò accade grazie ad una serie di escamotage tecnici su cui svetta l’utilizzo dell’impianto sonoro che stordisce per davvero e che altera, modifica e intensifica le immagini sullo schermo. E le immagini: come di consueto il digitale di Chavarría Gutiérrez è di una potenza rara e sa restituirci con la stessa energia sia il dettaglio di una lucertola verdognola che l’imponente campo totale di una montagna baciata dalle nuvole con in sottofondo le parole della bambina protagonista, inoltre il dialogo che si crea tra Kiara e una voce off che dovrebbe appartenere a Chavarría stesso (il quale compare fugacemente nella diegesi rivelandosi l’amante di una donna inserita nella storia) si dimostra l’aspetto più unificante, nonché il più florido per tentare un’interpretazione logica, dell’intero film poiché dall’innocenza infantile che si apre come un fiorellino alle nostre orecchie si evince tutta la parabola umana non descritta (poiché non descrivibile: è PCG stesso ad autoammutolirsi quando la sua fidanzata gli chiede di cosa tratta il film che sta facendo) che emerge sotto docili spinte fatte di sussurri e ricordi, ingredienti che ci auguriamo di trovare sempre in quegli emblemi di cinema che sanno disarmarci, un’élite comprendente tutte le pellicole di Pablo Chavarría Gutiérrez perché, è ora che lo si dica a gran voce, stiamo parlando di un tizio che ad appena trent’anni è già uno dei migliori al mondo.

mercoledì 21 giugno 2017

Sudd

Aiuto! Il mondo sta sparendo.

Lavoretto svedese con alcune pretese metaforiche: a differenza di quanto si possa pensare in prima battuta, questo obiettivo a voler illustrare una possibile parabola attraverso il concetto della “cancellazione” non è nemmeno così urticante, la confezione che il regista Erik Rosenlund offre è una sottobranca del cinema di Guy Maddin, certo c’è meno consapevolezza del mezzo, meno tendenza ludica, meno ricerca estetica e zero studio linguistico, però dire che il regista canadese sia una meta a cui Rosenlund ha mirato per il suo Sudd (2011) appare un’affermazione condivisibile. Constatata la lontana parentela, rimane da cogitare sul nucleo dell’opera che vorrebbe renderci partecipi dello scontro primordiale che caratterizza l’umanità: abbiamo chi opprime e abbiamo chi resiste, dentro queste due istanze si profila il senso di Sudd, un proposito nobile veicolato da una messa in scena costellata da frammenti animati (il regista non è nuovo all’animazione nei suoi cortometraggi) che lentamente prendono sempre più campo. Dinanzi a noi si delinea dunque l’idea di un male serpeggiante e pandemico, un virus che non si può debellare e che ha una trovata abbastanza piacevole nella traslazione teorica di una realtà divorata dal nulla, da un blob di lapis che si appropria di tutto (degli affetti: il gatto; di noi stessi: il corpo) e che non esita a sguinzagliare i propri agenti Smith per coronare l’annichilente disegno.

Ma quanto desunto proviene da un piccolo esemplare dove il cinema, quello che più apprezziamo, latita oltremodo. Non è in un ambiente filmico del genere che si può risultare efficaci nel trattare argomenti universali come bene/male, no, purtroppo per Rosenlund la sensibilità del sottoscritto, che comunque riconosce un minimo di tatto e di intraprendenza allo svedese, necessita di più densità, meno orpelli e più verità. Ad ogni modo onore delle armi al regista, il finale annerente, sebbene inespresso a livello di potenziale, ha perlomeno il pregio di non soccombere sotto un fetente happy end qualunque, anzi la fotografia di una resa in mezzo al finimondo lascia un percettibile retrogusto amarognolo.

lunedì 19 giugno 2017

Nessun Fuoco Nessun Luogo

Il titolo che elenca una duplice assenza acquista più valore se si è consci del suo originario significato francese, sostituendo alla parola “fuoco” quella di “focolare” la doppia negazione vieta due concetti intrinseci come caldo e casa, come tepore e riparo, due cardini esistenziali così dovuti da passare completamente assodati, sottostimati, normali, basi che invece i clochard genovesi di Nessun Fuoco Nessun Luogo (2014) non possono dare per già stabilite al pari di tutti gli altri senzatetto del mondo, e forse un punto centrale del duo registico Carla Grippa e Marco Bertora, recidivi in quanto ad immersioni nel capoluogo ligure (Per Vie Traverse - Racconti dal Ghetto di Croce Bianca, 2011), è esattamente quello di aver tracciato un segno che seppur vivente nel particolare respira a pieni polmoni nell’universale, d’altronde è spesso riportato nei vari commenti in Rete di come il documentario avrebbe potuto svolgersi in qualunque altra città del globo e questo perché l’intenzione di non didascalizzare il girato è la scelta giusta per fare del cinema un forum del reale e non un allestimento di scontata finzione, pertanto l’avvicinamento che lo spettatore vive nel corso della proiezione è davvero aderente ad un’esperienza che può essere definita quotidiana: qui non ci sono nomi né drammatizzazioni facili, non esiste il “c’era una volta” né la biografia illustrata, ci sono solo estratti fugaci, pezzi di vite che scorrono per qualche minuto, avvistamenti distratti, proprio come se camminassimo in centro e soprapensiero dessimo uno sguardo al barbone rannicchiato in un angolo.

E così, sebbene privi di storie certe e definite, una storia comunque intensa prende a narrarsi da sola, ed è un concerto diversificato composto da voci opposte ed attratte le cui fondamenta ci restituiscono dopotutto una scintilla di vitalità che nemmeno noi, esseri civilizzati, abbiamo, una scintilla di vitalità perché la condizione di indigenza in cui versano i protagonisti dell’opera è una forma di alta resistenza, silenziosa, umile e senza la minima eco. Del resto il cinema ha spesso accolto chi non ha più niente per donargli l’aura santa degli ultimi, e infatti ogni film del genere passato da queste parti si è sempre rivelato una potente ierofania: le folgorazioni post-sovietiche di In Memory of the Day Passed By (1990) o Le palme delle mani (1994) e L’ultimo posto sulla Terra (2001), od anche il putridume metropolitano di Dark Days (2000), al di là di essere manifestazioni artistiche oltre i canoni della consuetudine, sono anche emanatori di solidarietà umana ed efficaci sensibilizzatori perché non denunciano né catechizzano, semplicemente filmano quello che è davanti a loro: ancora delle persone con una dignità. Nessun Fuoco Nessun Luogo contiene nella sua pancia tale capacità di captare la realtà fuori e dentro gli uomini che sfiora nel cammino filmico, una traiettoria che sa contemplare con misura, che accosta (forse in modo un po’ “comodo”) il nevroticismo urbano e l’invisibilità presente dei paria, che sa eternare i libri più belli osservabili su uno schermo: le facce della gente, crocicchi di rughe, bocche-Tavernello, denti eremitici, non è così ovvia la capacità di estrapolare la bellezza dalla repellenza. Finale dolce e alato, diluizione in un mare che, per vostra inutile conoscenza, è anche il mio.

mercoledì 14 giugno 2017

Prima di noi

Ho conosciuto Mark nel 2011 con Get Lost, si era appena trasferito a Portland e viveva in una topaia insieme ad una tipa che sembrava la groupie di qualche rock band degli anni ’70, non mi aveva detto molto della sua vita precedente a Cleveland, a parte che suo papà tremava, tremava sempre, ed ogni sera lui gli chiedeva se stava bene, se aveva freddo, se voleva coricarsi, ma il padre non rispondeva, chinava la testa sul tavolo e taceva scosso dai tremiti, ed io a queste parole ero rimasto in silenzio, perso in altri pensieri, con la fronte appoggiata al freddo vetro della finestra mentre in strada un barbone spingeva la propria casa-carrello. Non so cosa abbia fatto Mark negli ultimi sei anni, probabilmente avrà suonato in qualche festival semideserto e alla fine di ogni concerto si sarà fatto parecchie canne in compagnia di gente sconosciuta a cui però avrà voluto subito bene, o forse avrà pensato di farsi una famiglia con quella tipa sciamannata, oppure […], chissà!, certo, quando pochi giorni fa l’ho rivisto avrei potuto chiederglielo ma l’unica cosa che sono riuscito a dirgli è che anche mio padre, adesso, trema tutte le sere e io non riesco a fare nulla per impedirlo. Ha annuito con quel viso ossuto che si ritrova, poi ha preso la chitarra per suonare un pezzo. È stato bello, è stato emozionante, come in una poderosa regressione visiva l’immagine di noi due seduti sul divano sgualcito è diventata un puntino così come il palazzo in cui ci trovavamo, al pari dell’Oregon, dell’America e della Terra, nell’estatica sospensione del vuoto c’era solo la ricchezza dei suoni che lievitano, la malia degli accordi che si intrecciano, l’ipnosi delle melodie che ritornano, e i nostri papà, due dèi che muovevano l’intero universo.

Poi, giusto un paio di ore fa, Mark mi invia su WhatsApp questo video.
 
Mark McGuire – Ideas of Beginnings

domenica 11 giugno 2017

Sieranevada

Forse non è deontologicamente corretto, ma è invitante nonché quasi inevitabile avvicinarsi a Sieranevada (2016) usando come metro di paragone Un padre, una figlia (2016), i due film, infatti, presentati a Cannes ’16 e impastati nella società rumena contemporanea che fa sempre i conti con quella passata, hanno entrambi come protagonisti due dottori alle prese con i problemi della vita, c’è però una grossa differenza tra queste due figure mediche, uno scarto che è conseguenza immediata del metodo utilizzato da Cristi Puiu, in generale si può affermare che il padre di Mungiu risultava, al pari di tutta la vicenda in cui era coinvolto, una pedina impostata e costruita per asservire una narrazione predeterminata, il Lary di Puiu è invece percepibile come un uomo e non tanto come un attore, una persona qualunque che per puro caso si è trovata una mdp alle calcagna durante una riunione famigliare, ciò accade semplicemente per via del fatto che il regista nato a Bucarest lavora sul reale fin dai tempi di Marfa şi banii (2001) e negli anni si è ormai guadagnato i gradi di maestro in relazione a tale approccio, la divergenza tra il cinema di Mungiu e quello di Puiu è quindi lampante ed è scontato sottolineare dove lo spettatore, in caso di indecisione, debba posare gli occhi: Sieranevada è una delle migliori opere partorite dalla nouvelle vague rumena.

La scintilla utilizzata dall’autore è quella di una particolare commemorazione del padre defunto in cui l’intera famiglia si riunisce per ricordare il caro estinto e dove il figlio più giovane deve indossare i vestiti del genitore scomparso (ma l’abito è troppo grande, fuori taglia, come se il fantasma paterno fosse una presenza ingombrante anche dall’aldilà), da qui Puiu imbastisce un complesso tableau vivant occluso, al pari di moltissimi altri oggetti filmici sotto il segno del tricolorul, in uno spazio casalingo che si trasforma in un alveare brulicante di esseri che entrano ed escono da una scena delimitata dalle barriere architettoniche della casa, e ammirando l’abilità di Puiu nella concertazione globale (compresa la fase di montaggio che ci si immagina parecchio lunga) si può dire che non sia una passeggiata stare dietro all’impetuoso flusso dialogico emesso dai numerosi personaggi sul set, ma al contempo, una volta arrivati in fondo, l’impressione è che il film abbia tenuto un andamento ottimale per le sue due ore e quarantasei minuti di proiezione.

E comunque, pur accettando una sfida visiva come Sieranevada che comporta, tra l’altro, una serie di riferimenti specifici alla nazione di appartenenza non proprio commestibili per gli spettatori stranieri, il movimento teorico di Puiu è piuttosto chiaro, il regista mette in stretta correlazione dei topic di discussione che mirano all’alterità (c’è il figlio minore che è attento ai complottismi internettiani sull’undici settembre o sui recenti fatti di Charlie Hebdo) con situazioni impeciate nell’intimità, quella parentale, consanguinea, e l’accostamento, assolutamente vincente, genera una pregevole implosione domestica che sembra risolversi in un afflato ironico (la pellicola è foriera di ironia [la ragazza croata ubriaca, l’irruzione terremotante del vecchio Toni], e non per niente si chiude con una risata che ha del catartico) in cui è possibile desumere una forma di monito che tracima nell’universale: è difficile comprendere quello che ci circonda, soprattutto in epoca massmediale, se prima non si è capito chi siamo noi stessi e chi ci sta accanto. Sieranevada è un film sulle persone e sui fili invisibili che le attraggono e le respingono, ma di sicuro non in modo banale come può suonare la frase che avete appena letto.

Curiosità: durante la preparazione del pranzo possiamo udire distintamente le note di Dolcenera e Maledetta primavera.

venerdì 9 giugno 2017

Into the Silent Sea

Un ingegnere siciliano intercetta la richiesta di aiuto da parte di un astronauta russo abbandonato nello spazio.

Ultraclassicissimo cortometraggio bazzicante i territori del cinema americano firmato da un giovane svedese di nome Andrej Landin trasferitosi negli Stati Uniti per studiare alla Chapman University dove si laureerò portando come tesi proprio Into the Silent Sea (2013). Landin struttura il suo lavoro attraverso un’alternanza tra il presente e la memoria del protagonista facendo così affiorare, non senza uno smielato sentimentalismo, tracce e stralci vissuti con la bella Tanya. In odore di Malick, sensazione confermata da un’intervista al regista (link), per via del tentativo - chiaramente fallito - di liricizzare gli ultimi ricordi amorosi di Alexander, e quindi abbondano flash di Tanya ripresa dalle spalle che cammina su un prato verdeggiante battuto dal vento, e in subodore spielberghiano per via di un certo ritrattismo storico e di un’appena accennata realtà della guerra fredda che però gioca un ruolo basilare per lo sviluppo della vicenda, Into the Silent Sea, con la tendenza nel fare riferimento ai suddetti modelli, non può che rappresentare un’idea di cinema distante dagli esemplari che solitamente prendono residenza da queste parti. A Landin uno come il sottoscritto non può dire niente di costruttivo, in fondo il suo film ha tutta una propria dignità e se si pensa come opera giovanile in riferimento alla dimensione a cui tende, quella a stelle e strisce, nel piccolo recinto della medietà un oggetto del genere può starci perfettamente. Ma per me, e penso anche per voi, la visione del corto in questione può essere interessante solo per cogliere il logorio di certe grammatiche narrative ed estetiche, un’usura che finisce per appiattire istanze gigantesche come la morte e l’amore, qui ridotte al solito bigino elementare.

giovedì 1 giugno 2017

ULTIMO ACCESSO 20/11/2015

Era questo, come era tutt’altro, in una città al centro dell’Europa affacciata sul mare, di sabato, pomeriggio, nel vociare della gente che fa shopping con i cani al guinzaglio (il locale, angusto e verticale, è soppalcato e al piano di sopra c’è un letto spoglio con un cuscino, un oblò fa filtrare della luce dall’esterno), ho vicino un fantasma che mi segue e mi dice cosa fare, poi in una storia che non c’entra sono nella casa di campagna dove nacque il mio bisnonno e mentre dormo due ragni dalle lunghe e sottili zampe si mettono a ballare il tango sulla mia testa e io nel frattempo sogno di camminare per delle strade così piene di vita, strade strette, sporche e sante, piene di cristi risorti (nelle mani ho ancora il tuo odore, non posso dire che sia un profumo, è il risultato di una pelle esposta per lunghi periodi ai fumi delle sigarette e, ogni tanto, ai vapori di qualche essenza dozzinale), di palazzi le cui fondamenta scendono fino al nucleo della Terra che è un globo lucente e… mi sveglio e i ragni ascendono verso il soffitto e nella storia che conta il fantasma accarezza la mia spalla sussurrando: “non ti preoccupare, passerà”, una coppia si avvicina per salutarmi, hanno due gemelli, so che il marito ha tentato più volte di suicidarsi, lei dentro è devastata, tempo fa l’ho vista partire per una vacanza da sola con i bimbi, quando lui mi stringe la mano il suo cervello proietta nell’aria l’entrata di una grotta umida, il plic-plic delle stalattiti è come una goccia di sangue che stilla da un polso, c’è ancora un’altra storia, accessoria ed inessenziale, ambientata sull’isola di Kos, in una spiaggia chiamata Therma, io sono lì, con l’amico che diventerà il mio fantasma, e ci allontaniamo dall’arenile per entrare in quello che sembra un hotel abbandonato, per terra ci sono miriadi di palline di merda capresca, una cassa di coca-cola impolverata, il pavimento di legno scricchiola al nostro passaggio, saliamo per una scala pericolante e ci ritroviamo in un corridoio dove tutte le porte che vi si affacciano sono aperte: tranne una, che apriamo per accedere in uno spazio lindo, bianco, dove qualcuno ha appoggiato delle candele e dei santini proprio sotto la finestra, fuori una donna litiga in tedesco con il compagno (dici di venire da Santo Domingo, deve essere un bel posto, ma non ti stringo la mano e perciò non riesco vedere le diapositive della tua testa, immagino che ci sia della sabbia e dell’erba e una bicicletta rotta e un fratellino con il moccio al naso), io devo bere, ordino due negroni, uno non lo berrai tu amico mio perché il tuo esofago è sotto tre metri di terra vermicolante, ma affianco a me ci sono due vecchi un po’ strani, guardano le belle ragazze che passano e bofonchiano qualcosa di comprensibile solo a loro, uno ha una palla di carne dietro al collo, gli chiedo che cosa sia e lui mi risponde che quando era nella pancia della mamma aveva un fratellino attaccato dietro la testa e che una volta nati il dottore li aveva subito divisi ma soltanto lui era sopravvissuto, poi col passare degli anni dalla cicatrice si era creata una bugna al cui interno, lo poteva percepire chiaramente, si era sviluppato un altro fratellino che lì viveva come se fosse di nuovo nel grembo materno, però, in realtà, non chiedo niente al signore e questa storia, come tutte le altre, è un racconto che si accende nella mia fantasia, e quindi l’amico-ectoplasma sottolinea che è giunto il momento, e prima di alzarmi dal tavolino cerco di ricordare l’ultima volta che l’ho visto, era giugno, no no, faceva freddo, era ottobre, ottobre è il mese perfetto per perdere qualcuno, ho nitida la tua figura di schiena che si allontana, una giacca di pelle nera, gli occhiali da sole alzati sui capelli, “combattiamo la banalità” avevi detto poco prima, “distinguiamoci dal piattume, dalle ovvietà, dall’orizzontalità che ci incarcera, pensiamo agli alberi! Pensiamo al loro svettare, al loro nutrirsi di sole e acqua, al fatto che riescono a toccare il cielo e la terra contemporaneamente, e che la foglia e la radice sono la stessa cosa perché la terra, se lo vuoi, può farsi cielo, e se comprenderai tutto ciò non sarai mai come loro, mai”, eri bello quando parlavi così, libero (il tuo corpo è sodo, compatto, e di ciò sono molto meravigliato, la tua pelle è velluto bruno, e ora che ti sto stringendo le natiche riesco finalmente a vedere il film che hai dentro: un piercing fatto nel retrobottega di un’estetista creola, un aereo che ti porta a Oviedo in una camera condivisa con altre ragazze, un pullman che dopo svariate notti ti fa arrivare in Italia, uno schiaffo, un calcio, sei piegata in due nel cesso di un monolocale del cazzo dove sei finita a vivere e non sai perché, un messaggio di tua mamma: “te echo de menos. ¿Cuando regresas?”), poi: ULTIMO ACCESSO 20/11/2015, e non ci sei stato più.

È una guerra sanguinaria, atroce, bestiale, la combattiamo ogni giorno senza quasi rendercene conto, noi, i soldati della vita: è questo, e nient’altro, che siamo, un esercito di esseri che vorrebbe solo prossimità, vicinanza, calore, c’è un’ultima superflua storia che è successa giusto ieri sera in un locale sul lungomare, dove più mi guardavo intorno e più vedevo persone che camminavano con un grosso specchio appiccicato alla fronte lungo fino ai piedi, interagivano con gli altri, parlavano e ridevano ma parlavano e ridevano solo con se stessi compiacendosi della loro grazia esteriore e io mi sentivo morire perché avrei voluto urlare a tutti che non è così che si può andare avanti, che sarebbe così semplice aprirsi davvero agli altri, che… gli alberi quando sono mossi dal vento danzano composti e timidi il ballo di Dio, ma ovviamente ho taciuto e mi sono appallottolato come un’Ave Maria, uno di quegli insetti che per proteggersi diventano delle biglie grigie, e una volta minuscolo e insignificante sono stato l’addome panciuto dei ragni tangheri, la goccia tonda nella caverna psichica dell’aspirante suicida, la sferetta di sterco delle capre greche, il micro-gemello che vive dietro la nuca del fratello maggiore, ma alla fine il piede di un tizio mi ha involontariamente spiaccicato sull’impiantito del locale e come niente, come te, sono sparito. Imbocco il vicolo scuro e so che tu, fraterno fantasma, non proseguirai perché mi vuoi ancora bene e sai che per combattere questa maledetta solitudine non c’è più alcuna patetica morale che possa reggere, mentre tu, invece, aspetti me, al pari di qualsiasi altro me, sulla soglia (forse dico qualcosa di stupido andandomene, tipo “come sono ripide queste scalette”, lascio trenta euro vicino al televisore e una volta fuori mi dissolvo come un’aspirina in un bicchiere d’acqua).