lunedì 19 giugno 2017

Nessun Fuoco Nessun Luogo

Il titolo che elenca una duplice assenza acquista più valore se si è consci del suo originario significato francese, sostituendo alla parola “fuoco” quella di “focolare” la doppia negazione vieta due concetti intrinseci come caldo e casa, come tepore e riparo, due cardini esistenziali così dovuti da passare completamente assodati, sottostimati, normali, basi che invece i clochard genovesi di Nessun Fuoco Nessun Luogo (2014) non possono dare per già stabilite al pari di tutti gli altri senzatetto del mondo, e forse un punto centrale del duo registico Carla Grippa e Marco Bertora, recidivi in quanto ad immersioni nel capoluogo ligure (Per Vie Traverse - Racconti dal Ghetto di Croce Bianca, 2011), è esattamente quello di aver tracciato un segno che seppur vivente nel particolare respira a pieni polmoni nell’universale, d’altronde è spesso riportato nei vari commenti in Rete di come il documentario avrebbe potuto svolgersi in qualunque altra città del globo e questo perché l’intenzione di non didascalizzare il girato è la scelta giusta per fare del cinema un forum del reale e non un allestimento di scontata finzione, pertanto l’avvicinamento che lo spettatore vive nel corso della proiezione è davvero aderente ad un’esperienza che può essere definita quotidiana: qui non ci sono nomi né drammatizzazioni facili, non esiste il “c’era una volta” né la biografia illustrata, ci sono solo estratti fugaci, pezzi di vite che scorrono per qualche minuto, avvistamenti distratti, proprio come se camminassimo in centro e soprapensiero dessimo uno sguardo al barbone rannicchiato in un angolo.

E così, sebbene privi di storie certe e definite, una storia comunque intensa prende a narrarsi da sola, ed è un concerto diversificato composto da voci opposte ed attratte le cui fondamenta ci restituiscono dopotutto una scintilla di vitalità che nemmeno noi, esseri civilizzati, abbiamo, una scintilla di vitalità perché la condizione di indigenza in cui versano i protagonisti dell’opera è una forma di alta resistenza, silenziosa, umile e senza la minima eco. Del resto il cinema ha spesso accolto chi non ha più niente per donargli l’aura santa degli ultimi, e infatti ogni film del genere passato da queste parti si è sempre rivelato una potente ierofania: le folgorazioni post-sovietiche di In Memory of the Day Passed By (1990) o Le palme delle mani (1994) e L’ultimo posto sulla Terra (2001), od anche il putridume metropolitano di Dark Days (2000), al di là di essere manifestazioni artistiche oltre i canoni della consuetudine, sono anche emanatori di solidarietà umana ed efficaci sensibilizzatori perché non denunciano né catechizzano, semplicemente filmano quello che è davanti a loro: ancora delle persone con una dignità. Nessun Fuoco Nessun Luogo contiene nella sua pancia tale capacità di captare la realtà fuori e dentro gli uomini che sfiora nel cammino filmico, una traiettoria che sa contemplare con misura, che accosta (forse in modo un po’ “comodo”) il nevroticismo urbano e l’invisibilità presente dei paria, che sa eternare i libri più belli osservabili su uno schermo: le facce della gente, crocicchi di rughe, bocche-Tavernello, denti eremitici, non è così ovvia la capacità di estrapolare la bellezza dalla repellenza. Finale dolce e alato, diluizione in un mare che, per vostra inutile conoscenza, è anche il mio.

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