Il titolo che elenca una
duplice assenza acquista più valore se si è consci del suo
originario significato francese, sostituendo alla parola “fuoco”
quella di “focolare” la doppia negazione vieta due concetti
intrinseci come caldo e casa, come tepore e riparo, due cardini
esistenziali così dovuti da passare completamente assodati,
sottostimati, normali, basi che invece i clochard genovesi di
Nessun Fuoco Nessun Luogo (2014) non possono dare per già
stabilite al pari di tutti gli altri senzatetto del mondo, e forse un
punto centrale del duo registico Carla Grippa e Marco Bertora,
recidivi in quanto ad immersioni nel capoluogo ligure (Per Vie
Traverse - Racconti dal Ghetto di Croce Bianca, 2011), è
esattamente quello di aver tracciato un segno che seppur vivente nel
particolare respira a pieni polmoni nell’universale, d’altronde è
spesso riportato nei vari commenti in Rete di come il documentario
avrebbe potuto svolgersi in qualunque altra città del globo e questo
perché l’intenzione di non didascalizzare il girato è la scelta
giusta per fare del cinema un forum del reale e non un allestimento
di scontata finzione, pertanto l’avvicinamento che lo spettatore
vive nel corso della proiezione è davvero aderente ad un’esperienza
che può essere definita quotidiana: qui non ci sono nomi né
drammatizzazioni facili, non esiste il “c’era una volta” né la
biografia illustrata, ci sono solo estratti fugaci, pezzi di vite che
scorrono per qualche minuto, avvistamenti distratti, proprio come se
camminassimo in centro e soprapensiero dessimo uno sguardo al barbone
rannicchiato in un angolo.
E così, sebbene privi di
storie certe e definite, una storia comunque intensa prende a
narrarsi da sola, ed è un concerto diversificato composto da voci
opposte ed attratte le cui fondamenta ci restituiscono dopotutto una
scintilla di vitalità che nemmeno noi, esseri civilizzati, abbiamo,
una scintilla di vitalità perché la condizione di indigenza in cui
versano i protagonisti dell’opera è una forma di alta resistenza,
silenziosa, umile e senza la minima eco. Del resto il cinema ha
spesso accolto chi non ha più niente per donargli l’aura santa
degli ultimi, e infatti ogni film del genere passato da queste parti
si è sempre rivelato una potente ierofania: le folgorazioni
post-sovietiche di In Memory of the Day Passed By (1990) o Le palme delle mani (1994) e L’ultimo posto sulla Terra
(2001), od anche il putridume metropolitano di Dark Days (2000),
al di là di essere manifestazioni artistiche oltre i canoni della
consuetudine, sono anche emanatori di solidarietà umana ed efficaci
sensibilizzatori perché non denunciano né catechizzano,
semplicemente filmano quello che è davanti a loro: ancora delle
persone con una dignità. Nessun Fuoco Nessun Luogo contiene
nella sua pancia tale capacità di captare la realtà fuori e dentro
gli uomini che sfiora nel cammino filmico, una traiettoria che sa
contemplare con misura, che accosta (forse in modo un po’ “comodo”)
il nevroticismo urbano e l’invisibilità presente dei paria, che sa
eternare i libri più belli osservabili su uno schermo: le facce
della gente, crocicchi di rughe, bocche-Tavernello, denti eremitici,
non è così ovvia la capacità di estrapolare la bellezza dalla
repellenza. Finale dolce e alato, diluizione in un mare che, per
vostra inutile conoscenza, è anche il mio.
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