mercoledì 21 giugno 2017

Sudd

Aiuto! Il mondo sta sparendo.

Lavoretto svedese con alcune pretese metaforiche: a differenza di quanto si possa pensare in prima battuta, questo obiettivo a voler illustrare una possibile parabola attraverso il concetto della “cancellazione” non è nemmeno così urticante, la confezione che il regista Erik Rosenlund offre è una sottobranca del cinema di Guy Maddin, certo c’è meno consapevolezza del mezzo, meno tendenza ludica, meno ricerca estetica e zero studio linguistico, però dire che il regista canadese sia una meta a cui Rosenlund ha mirato per il suo Sudd (2011) appare un’affermazione condivisibile. Constatata la lontana parentela, rimane da cogitare sul nucleo dell’opera che vorrebbe renderci partecipi dello scontro primordiale che caratterizza l’umanità: abbiamo chi opprime e abbiamo chi resiste, dentro queste due istanze si profila il senso di Sudd, un proposito nobile veicolato da una messa in scena costellata da frammenti animati (il regista non è nuovo all’animazione nei suoi cortometraggi) che lentamente prendono sempre più campo. Dinanzi a noi si delinea dunque l’idea di un male serpeggiante e pandemico, un virus che non si può debellare e che ha una trovata abbastanza piacevole nella traslazione teorica di una realtà divorata dal nulla, da un blob di lapis che si appropria di tutto (degli affetti: il gatto; di noi stessi: il corpo) e che non esita a sguinzagliare i propri agenti Smith per coronare l’annichilente disegno.

Ma quanto desunto proviene da un piccolo esemplare dove il cinema, quello che più apprezziamo, latita oltremodo. Non è in un ambiente filmico del genere che si può risultare efficaci nel trattare argomenti universali come bene/male, no, purtroppo per Rosenlund la sensibilità del sottoscritto, che comunque riconosce un minimo di tatto e di intraprendenza allo svedese, necessita di più densità, meno orpelli e più verità. Ad ogni modo onore delle armi al regista, il finale annerente, sebbene inespresso a livello di potenziale, ha perlomeno il pregio di non soccombere sotto un fetente happy end qualunque, anzi la fotografia di una resa in mezzo al finimondo lascia un percettibile retrogusto amarognolo.

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