venerdì 23 giugno 2017

El resto del mundo

A parte l’ipnotico incipit sulla spiaggia (che ricorda un po’ la finestra lisergico-balneare di Post Tenebras Lux, 2012), El resto del mundo (2014) non possiede una cifra di rispettabile ricerca che invece caratterizzerà le opere successive di Pablo Chavarría Gutiérrez, è altrettanto vero però che qui il regista messicano si dimostra già un sabotatore della narrazione, ne consegue che un’esplorazione di territori altri non viene nuovamente meno con annesso godimento dello spettatore. L’idea che sorreggerebbe il film è quella di raccontarci il flash famigliare tra un padre (è il “solito” Alejandro Alva) e la propria figlia (presumibilmente tale anche fuori dal set), ciò che PCG estrapola da questa stringata sinossi è un filo pieno di strappi e riannodamenti affiancato dallo sbocciare esistenziale che si consuma nel territorio circostante, non è, evviva, una visione propriamente agevole (e ce lo aspettavamo visto il curriculum dell’autore) e non è nemmeno, forse, un lavoro che tocca i picchi a cui eravamo abituati, rimane ad ogni modo l’evidente presenza di un talento artistico che muovendosi oltre i fragili confini del documentario si diletta nel rimodellare il girato giungendo ad una sostanza che, come avevo già sottolineato per il meraviglioso Las letras (2015), è un qualcosa di indefinibile e, probabilmente, di incomprensibile, ma, e si ritorna al punto più nodale di tutti, di sentibile, tanto da dare al cinema di Chavarría Gutiérrez un profondo e ammirabile segno distintivo.

La tierra aún se mueve (2017) è un miraggio apocalittico ancora lontano per il Pablo del 2014, tuttavia in El resto del mundo si aprono delle brecce spaesanti che in qualche modo ci trasmettono un carnet di sensazioni accostabili al magnum opus del ragazzo di Monterrey, ciò accade grazie ad una serie di escamotage tecnici su cui svetta l’utilizzo dell’impianto sonoro che stordisce per davvero e che altera, modifica e intensifica le immagini sullo schermo. E le immagini: come di consueto il digitale di Chavarría Gutiérrez è di una potenza rara e sa restituirci con la stessa energia sia il dettaglio di una lucertola verdognola che l’imponente campo totale di una montagna baciata dalle nuvole con in sottofondo le parole della bambina protagonista, inoltre il dialogo che si crea tra Kiara e una voce off che dovrebbe appartenere a Chavarría stesso (il quale compare fugacemente nella diegesi rivelandosi l’amante di una donna inserita nella storia) si dimostra l’aspetto più unificante, nonché il più florido per tentare un’interpretazione logica, dell’intero film poiché dall’innocenza infantile che si apre come un fiorellino alle nostre orecchie si evince tutta la parabola umana non descritta (poiché non descrivibile: è PCG stesso ad autoammutolirsi quando la sua fidanzata gli chiede di cosa tratta il film che sta facendo) che emerge sotto docili spinte fatte di sussurri e ricordi, ingredienti che ci auguriamo di trovare sempre in quegli emblemi di cinema che sanno disarmarci, un’élite comprendente tutte le pellicole di Pablo Chavarría Gutiérrez perché, è ora che lo si dica a gran voce, stiamo parlando di un tizio che ad appena trent’anni è già uno dei migliori al mondo.

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