mercoledì 1 giugno 2016

Utsushimi

Di fronte ad un’opera così inclassificabile come Utsushimi (2000) l’umile recensore in prima battuta non può far altro che sondare i recinti dentro i quali Sion Sono ha edificato il suo film, e quindi ecco la dicitura che subito si profila: “documentario”, che, forse non dovrei neanche sottolinearlo, non è nemmeno per un istante un documentario per antonomasia, diciamo che piuttosto si avvale di certi criteri della categoria per esporre taluni passaggi; poi c’è “commedia sentimentale”, talmente basica, puerile, assurda ed eccessiva, da apparire, come nella più classica tradizione sononiana, molto più vera e sincera della maggior parte delle rom-com in circolazione; infine c’è l’ingranaggio metatestuale, che si riallaccia agli intenti documentaristici, dove il regista giapponese sembra orientato a voler scardinare la finzione attraverso una de-strutturazione (qualcosa verrà riacciuffato con Into a Dream [2005] per giungere all’apice Why Don’t You Play in Hell?, 2013) che svela i marchingegni della macchina: il dietro le quinte della sceneggiatura, la ripresa degli operatori e dei microfoni a giraffa nell’inquadratura.

Da una tale fusione non poteva che nascere un film proteiforme e tentacolare, ostinato e destinato a distinguersi (al di fuori e al di dentro della filmografia di Sono), artigianale per certi versi (livello estetico comunque basso), anche sperimentale (non quanto Keiko desu kedo, 1997), ma soprattutto straripante, nelle sue smaccate imperfezioni e limitatezze, però sì, debordante, investente, e ciò rincuora visto che agli inizi del secolo Sono era un perfetto sconosciuto, evidentemente il Signore del Caos aveva già un’idea di cinema abbastanza precisa ruotante attorno ad alcuni capisaldi poi sviscerati in lungo e in largo, non è un caso se all’inizio di Utsushimi Sono ci presenta la sua famiglia (madre-padre-sorella) come a voler stringere un patto confidenziale con noi, un darci del tu che apre le porte ad un mix di tematiche (/ossessioni) da prendere e portare a casa. La forza biografica che Sono riesce ad imprimere nei suoi personaggi non viene meno neanche qui, il lui e la lei di questo film sono i tipici soggetti sballottati tra la pudicizia e la carnalità, tra l’Amore e il Sesso, estremi che ci riconducono al titolo e al nucleo originario: il corpo, contenitore in perenne divenire (la trasformazione è un altro marchio di fabbrica dell’autore), moto incessante (si ama correndo, e viceversa), cavo e pronto a compenetrarsi (il rapporto sessuale a bordo del carretto è qualcosa di epico).

In questo marasma audio(colonne sonore slogate: Guantanamera)-visi (pene e vagina XL)- narrativo, Sono inforca un’altra strada che potrebbe essere quella riguardante una riflessione sullo stato dell’artista che maneggia il summenzionato Corpo, dal fotografo allo stilista, dall’insegnante di danza al regista, le pedine mosse dal folle giapponese disegnano una cartina geografica dai confini nulli, tutto si fonde, si ammassa in un piacevolissimo tripudio orgiastico (i danzatori e le modelle ammucchiate) che sembra la traslazione puntuale della natura del film stesso. Il flusso di informazioni – che comprende riferimenti alla sub-cultura del paese (Hachikō e un odore di pink-film con annessi upskirt) – è massiccio e per niente incanalato, è cinema imbizzarrito quello di Sono, un esemplare di vitalità artistica che non ha pari: se non riuscite a domarlo, lasciatevi travolgere.

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