Di fronte ad un’opera
così inclassificabile come Utsushimi (2000) l’umile
recensore in prima battuta non può far altro che sondare i
recinti dentro i quali Sion Sono ha edificato il suo film, e quindi
ecco la dicitura che subito si profila: “documentario”, che,
forse non dovrei neanche sottolinearlo, non è nemmeno per un
istante un documentario per antonomasia, diciamo che piuttosto si
avvale di certi criteri della categoria per esporre taluni passaggi;
poi c’è “commedia sentimentale”, talmente basica,
puerile, assurda ed eccessiva, da apparire, come nella più
classica tradizione sononiana, molto più vera e sincera
della maggior parte delle rom-com in circolazione; infine c’è
l’ingranaggio metatestuale, che si riallaccia agli intenti
documentaristici, dove il regista giapponese sembra orientato a voler
scardinare la finzione attraverso una de-strutturazione (qualcosa
verrà riacciuffato con Into a Dream [2005] per giungere all’apice Why Don’t You Play in Hell?, 2013) che svela i marchingegni della
macchina: il dietro le quinte della sceneggiatura, la ripresa degli
operatori e dei microfoni a giraffa nell’inquadratura.
Da una tale fusione non
poteva che nascere un film proteiforme e tentacolare, ostinato e
destinato a distinguersi (al di fuori e al di dentro della
filmografia di Sono), artigianale per certi versi (livello estetico
comunque basso), anche sperimentale (non quanto Keiko desu kedo,
1997), ma soprattutto straripante, nelle sue smaccate imperfezioni e
limitatezze, però sì, debordante, investente, e ciò
rincuora visto che agli inizi del secolo Sono era un perfetto
sconosciuto, evidentemente il Signore del Caos aveva già
un’idea di cinema abbastanza precisa ruotante attorno ad alcuni
capisaldi poi sviscerati in lungo e in largo, non è un caso se
all’inizio di Utsushimi Sono ci presenta la sua famiglia
(madre-padre-sorella) come a voler stringere un patto confidenziale
con noi, un darci del tu che apre le porte ad un mix di tematiche
(/ossessioni) da prendere e portare a casa. La forza biografica che
Sono riesce ad imprimere nei suoi personaggi non viene meno neanche
qui, il lui e la lei di questo film sono i tipici soggetti
sballottati tra la pudicizia e la carnalità, tra l’Amore e
il Sesso, estremi che ci riconducono al titolo e al nucleo
originario: il corpo, contenitore in perenne divenire (la
trasformazione è un altro marchio di fabbrica
dell’autore), moto incessante (si ama correndo, e viceversa), cavo
e pronto a compenetrarsi (il rapporto sessuale a bordo del carretto è
qualcosa di epico).
In questo marasma
audio(colonne sonore slogate: Guantanamera)-visi
(pene e vagina XL)- narrativo, Sono inforca un’altra strada che
potrebbe essere quella riguardante una riflessione sullo stato
dell’artista che maneggia il summenzionato Corpo, dal fotografo
allo stilista, dall’insegnante di danza al regista, le pedine mosse
dal folle giapponese disegnano una cartina geografica dai confini
nulli, tutto si fonde, si ammassa in un piacevolissimo tripudio
orgiastico (i danzatori e le modelle ammucchiate) che sembra la
traslazione puntuale della natura del film stesso. Il flusso di
informazioni – che comprende riferimenti alla sub-cultura del paese
(Hachikō e un odore di pink-film con annessi upskirt)
– è massiccio e per
niente incanalato, è cinema imbizzarrito quello di Sono, un
esemplare di vitalità artistica che non ha pari: se non
riuscite a domarlo, lasciatevi travolgere.
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