Seconda e consecutiva
incursione di Serhij Volodymyrovyč Loznycja nel campo della fiction, dopo il cupo
My Joy (2010) il documentarista nato in Bielorussia
ma cresciuto in Ucraina prosegue un lavoro di immersione storica e
relativa ricostruzione; a differenza del film precedente il passato
in V tumane (2012) non è più una parentesi all’interno
della storia ma diventa, fondamentalmente, La Storia, quella
dell’Unione Sovietica nel 1942, del nazismo, dei partigiani.
Loznycja pur impostando la propria opera su binari più classici,
struttura il racconto attraverso un’alternanza tra la fuga dei tre
uomini e le vicende che li hanno portati ad essere nelle condizioni
in cui si trovano, tale avvicendamento, segnalato sempre da una
dissolvenza in nero, permette alla pellicola di acquisire uno
spessore morale che va obbligatoriamente sottolineato; perché questo
è un film sulla guerra che accantona i gangli politici per
focalizzarsi su delle “inutili” pedine che si muovono sopra ad
una scacchiera funerea, viti di un meccanismo che li sovrasta, e dei
loro tormenti Loznycja ci fornisce un quadro più che convincente,
scolpito nel rimorso, nella vendetta e nella codardia, un labirinto
che si tramuta in ginepraio da dove non c’è un’uscita di
sicurezza che non sia la morte (Sushenya che ormai ha perso la
speranza di essere creduto perfino da sua moglie).
V tumane per vari
motivi non è quel tipo di cinema che infiamma il sottoscritto e
penso nemmeno voi che state leggendo, anche in relazione a My Joy
che era decisamente crudo e votato ad una brutalità non facilmente
dimenticabile, In the Fog si offre con meno impeto data la
tendenza di affidarsi a lunghe sequenze prive di “azione”, anche
dialogica. Il che contrasta con le tematiche affrontate e ne rende
automaticamente più difficile la conseguente assimilazione, da una
parte gli orrori bellici che a loro volta contengono quelli personali
e dall’altra un andamento felpato che trattiene ogni possibile
catarsi emotiva, c’è da pazientare un poco ma parallelamente
riconoscere che anche questo è comunque un metodo per raggiungere un
fine, d’altronde la rappresentazione di un conflitto può anche
avvalersi della psicologia e dell’etica se vuole restituire
sfumature ulteriori a quelle stampate sui libri di Storia. Ad ogni
modo il (finto) torpore del film è scosso da stralci che scuotono
(il viso tumefatto di Sushenya nell’interrogatorio, sempre Sushenya
costretto a trascinarsi un peso sulle spalle che ha un che di
sinistramente simbolico) oltre ad un finale in grado di dire
moltissimo pur senza mostrare alcunché, dove un fenomeno
meteorologico è figurativamente il sipario che dissolve nel nulla le
anime di tre uomini e della loro piccola storia.
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