martedì 14 giugno 2016

Uku ukai

Un gruppo di persone non più giovanissime che si dedica ad attività di fitness: chi fa footing, chi nuota, chi fa ginnastica, chi sghignazza steso sull’erba, chi fa minuscoli esercizietti nel proprio appartamento.

Uku ukai (2006) è un cortometraggio lituano totalmente disinteressato alla narrazione, oggetto non identificato di natura concettuale che il regista Audrius Stonys, uno principalmente dedito al documentario con un’unica incursione attoriale in Three Days (1992) di Bartas, modella seguendo l’ispirazione estetica, quella che si genera dal fascino dell’immagine indipendente, la suggestione visuale che subisce l’osservatore. Incollando in successione una serie di diapositive del genere, si tenta di costruire un’idea (sempre anti-narrativa) della vecchiaia come zona di transito e non soltanto di capolinea, il gruppo di anziani si tiene in forma e se la spassa (anche se quelle risate suonano un po’ forzate) e sembra che tutto vada alla grande. Stonys però prova a creare una dissonanza inserendo nel contesto filmico una vecchina che si sveglia e si addormenta in solitudine anch’essa alle prese con faccende ginniche; la pista si biforca, qualche interrogativo sorge: che cosa sta a significare questa duplice faccia del tenersi in forma? Che gli esercizi in solitaria sono altrettanto efficaci di quelli in compagnia? Che, di contro, l’uomo-anziano può ancora avere momenti di socialità occupandosi del benessere fisico? Impossibile dare una risposta anche perché Stonys è parecchio più interessato a far palpitare l’occhio che qualunque altra porzione anatomica dello spettatore, e in un’occasione ci riesce: la ripresa iperrealista e ravvicinata della pelle umana è veramente degna di nota, poi sbraca senza chiedere scusa: già l’incipit, dopo arriva un cane, una ballerina e un mantra fuori campo dall’indecifrabile funzione.

Ci si perde in questa mezz’oretta di girato, ma non è uno smarrimento estatico, anzi seppur di breve durata il corto riesce ad avere un effetto respingente figlio di un avviluppamento interno che denuncia un’attenzione alla forma troppo occupata a specchiarsi. Quando il narcisismo è la culla della sterilità.

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