Un gruppo di persone non
più giovanissime che si dedica ad attività di fitness:
chi fa footing, chi nuota, chi fa ginnastica, chi sghignazza steso
sull’erba, chi fa minuscoli esercizietti nel proprio appartamento.
Uku ukai (2006) è
un cortometraggio lituano totalmente disinteressato alla narrazione,
oggetto non identificato di natura concettuale che il regista Audrius
Stonys, uno principalmente dedito al documentario con un’unica
incursione attoriale in Three Days (1992) di Bartas, modella
seguendo l’ispirazione estetica, quella che si genera dal fascino
dell’immagine indipendente, la suggestione visuale che subisce
l’osservatore. Incollando in successione una serie di diapositive
del genere, si tenta di costruire un’idea (sempre anti-narrativa)
della vecchiaia come zona di transito e non soltanto di capolinea, il
gruppo di anziani si tiene in forma e se la spassa (anche se quelle
risate suonano un po’ forzate) e sembra che tutto vada alla grande.
Stonys però prova a creare una dissonanza inserendo nel
contesto filmico una vecchina che si sveglia e si addormenta in
solitudine anch’essa alle prese con faccende ginniche; la pista si
biforca, qualche interrogativo sorge: che cosa sta a significare
questa duplice faccia del tenersi in forma? Che gli esercizi in
solitaria sono altrettanto efficaci di quelli in compagnia? Che, di
contro, l’uomo-anziano può ancora avere momenti di socialità
occupandosi del benessere fisico? Impossibile dare una risposta anche
perché Stonys è parecchio più interessato a far
palpitare l’occhio che qualunque altra porzione anatomica dello
spettatore, e in un’occasione ci riesce: la ripresa iperrealista e
ravvicinata della pelle umana è veramente degna di nota, poi
sbraca senza chiedere scusa: già l’incipit, dopo arriva un
cane, una ballerina e un mantra fuori campo dall’indecifrabile
funzione.
Ci si perde in questa
mezz’oretta di girato, ma non è uno smarrimento estatico,
anzi seppur di breve durata il corto riesce ad avere un effetto
respingente figlio di un avviluppamento interno che denuncia
un’attenzione alla forma troppo occupata a specchiarsi. Quando il
narcisismo è la culla della sterilità.
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