La confezione è di
livello, Eva Sørhaug, norvegese al secondo lungometraggio,
giostra in modo più che accettabile le componenti estetiche
del film, dalla fotografia allo studio delle inquadrature 90
minutter (2012) offre un catalogo visivo che non è affatto
spiacevole sfogliare ed ecco primi piani stretti e senso di oppressione
nonostante gli ambienti siano ben illuminati, il che contribuisce ad
alimentare il fattore meglio gestito di tutto il film: l’attesa. La
Sørhaug, autrice anche della sceneggiatura, riesce a tenere
sulle spine l’attenzione optando con discreta sagacia su un
accumulo tensiogeno sottile ed indefinito erogato da situazioni
diegetiche di ben poco conto, quisquilie narrative che però
riescono a suggerire il di lì a poco manifestarsi di un
qualcosa di brutto e cattivo. Esempi: la prima volta che appare
l’uomo pelato la regia si concentra nel riprenderlo in attività
inessenziali all’interno dell’abitazione, si avverte che nel giro
di qualche minuto il quadretto domestico verrà inzuppato di
pece; oppure: al ritorno del marito in carriera per la cena coniugale
viene dato uno spazio considerevole ai preparativi culinari, anche
qui si è colti dall’impressione che da quel tavolo uno dei
due non si alzerà più (ce lo ricorda anche quel
coltello che minaccioso sfiletta la carne). La tendenza è
perciò quella di creare i presupposti necessari per una e più
manifestazioni di bruta violenza, presupposti che, attenzione, non
hanno alcuna direzione esplicativa, nessun spiegazionismo
pesudo-psicologico atto a giustificare il gesto, sono piuttosto
premesse “sensoriali”, percezioni di un’incombente tragedia.
Quando però queste
tragedie si verificano, l’opera che aveva toccato quote di
inquietudine sopra la media, decresce sensibilmente. Provo a spiegare
il perché: in un film che tratta il tema della violenza
domestica e del femminicidio (si generalizza, non è
esattamente ciò che c’è in 90 Minutes) è
inevitabile che vengano esposti casi appartenenti alla categoria di
riferimento, vi è quindi una percentuale di predizione che
risulta impossibile da soffocare, per controbilanciare le suddette
conoscenze aprioristiche ci sarebbe bisogno di una metodologia capace
di rendere “nuovo” lo scontato, di sorprendere, di toglierci la
sicurezza di sapere che non ci sarà un lieto fine. Per chi
scrive niente di tutto questo si verifica, la regista
appropinquandosi alla conclusione si fa prendere la mano dalla ferocia dei
suoi protagonisti e pecca in un eccessivo mostrare, soprattutto nel
chiudere la storia della madre seviziata il girato diventa esibizione
di calci, pugni, sangue e forbiciate in pieno petto. Il fatto è
che una siffatta evidenziazione della crudeltà dei tre uomini
(con parziale esclusione di quello più anziano) non è
additabile in quanto tale, ovvero non è biasimevole
l’efferatezza dell’azione, quello che non va è il volersi
affidare esclusivamente a scene di impatto scioccante per coronare il
proprio discorso teorico: per rappresentare il Male non sussiste la
necessità di metterlo forzatamente in vetrina, la Sørhaug
a tale assioma non è riuscita ad arrivare, per delucidazioni
la invitiamo a citofonare al sig. Reygadas.
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