sabato 11 giugno 2016

90 Minutes

La confezione è di livello, Eva Sørhaug, norvegese al secondo lungometraggio, giostra in modo più che accettabile le componenti estetiche del film, dalla fotografia allo studio delle inquadrature 90 minutter (2012) offre un catalogo visivo che non è affatto spiacevole sfogliare ed ecco primi piani stretti e senso di oppressione nonostante gli ambienti siano ben illuminati, il che contribuisce ad alimentare il fattore meglio gestito di tutto il film: l’attesa. La Sørhaug, autrice anche della sceneggiatura, riesce a tenere sulle spine l’attenzione optando con discreta sagacia su un accumulo tensiogeno sottile ed indefinito erogato da situazioni diegetiche di ben poco conto, quisquilie narrative che però riescono a suggerire il di lì a poco manifestarsi di un qualcosa di brutto e cattivo. Esempi: la prima volta che appare l’uomo pelato la regia si concentra nel riprenderlo in attività inessenziali all’interno dell’abitazione, si avverte che nel giro di qualche minuto il quadretto domestico verrà inzuppato di pece; oppure: al ritorno del marito in carriera per la cena coniugale viene dato uno spazio considerevole ai preparativi culinari, anche qui si è colti dall’impressione che da quel tavolo uno dei due non si alzerà più (ce lo ricorda anche quel coltello che minaccioso sfiletta la carne). La tendenza è perciò quella di creare i presupposti necessari per una e più manifestazioni di bruta violenza, presupposti che, attenzione, non hanno alcuna direzione esplicativa, nessun spiegazionismo pesudo-psicologico atto a giustificare il gesto, sono piuttosto premesse “sensoriali”, percezioni di un’incombente tragedia.

Quando però queste tragedie si verificano, l’opera che aveva toccato quote di inquietudine sopra la media, decresce sensibilmente. Provo a spiegare il perché: in un film che tratta il tema della violenza domestica e del femminicidio (si generalizza, non è esattamente ciò che c’è in 90 Minutes) è inevitabile che vengano esposti casi appartenenti alla categoria di riferimento, vi è quindi una percentuale di predizione che risulta impossibile da soffocare, per controbilanciare le suddette conoscenze aprioristiche ci sarebbe bisogno di una metodologia capace di rendere “nuovo” lo scontato, di sorprendere, di toglierci la sicurezza di sapere che non ci sarà un lieto fine. Per chi scrive niente di tutto questo si verifica, la regista appropinquandosi alla conclusione si fa prendere la mano dalla ferocia dei suoi protagonisti e pecca in un eccessivo mostrare, soprattutto nel chiudere la storia della madre seviziata il girato diventa esibizione di calci, pugni, sangue e forbiciate in pieno petto. Il fatto è che una siffatta evidenziazione della crudeltà dei tre uomini (con parziale esclusione di quello più anziano) non è additabile in quanto tale, ovvero non è biasimevole l’efferatezza dell’azione, quello che non va è il volersi affidare esclusivamente a scene di impatto scioccante per coronare il proprio discorso teorico: per rappresentare il Male non sussiste la necessità di metterlo forzatamente in vetrina, la Sørhaug a tale assioma non è riuscita ad arrivare, per delucidazioni la invitiamo a citofonare al sig. Reygadas.

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