Aveva visto miliardi di
cose inquiete, pronte al cambiamento continuo, aveva visto come
dialogavano tra loro severamente senza capo né coda, ognuno
per conto proprio; miliardi di relazioni, miliardi di storie,
miliardi, ma si riducevano continuamente a una sola, che conteneva
tutte le altre: la lotta tra ciò che resiste e ciò che
tenta di sconfiggere la resistenza.
(László
Krasznahorkai, Melancolia della resistenza;
Zandonai 2013)
Dopo
tanto peregrinare il ritorno nel vecchio continente di Peter Brosens
e Jessica Woodworth giova alla loro idea di cinema. La
cinquième saison (2012),
rispetto ai due film precedenti Khadak
(2006) e Altiplano (2009), ha
un respiro nettamente più “europeo” pregno di riferimenti
artistici che Manuel Billi ha prontamente riportato nella sua
disamina (link) e a cui aggiungerei anche alcuni lavori di Bruno
Dumont (per somiglianza di contesto più che di testo), il che
non ci pone più davanti a lavori dove emergeva una dissonanza
(voluta) tra sguardo occidentale e materia estera che per chi scrive
non soddisfaceva in toto la compresenza di talune, incerte, dicotomie
(da un lato l’esuberanza estetica dall’altro l’ostinazione di
inserire delle tracce eco-ambientaliste sottotestualmente
paraboliche). Qui potremmo dire che tutto l’impianto filmico si
presenta in modo più asciutto (ma non di certo
quell’asciuttezza tipica di un certo cinema autoriale, lo
sottolineo) o perlomeno maggiormente incanalato nell’esposizione.
Sarà la natura programmatica dell’opera, l’avvertibile
ciclicità che conduce ad un declino inesorabile, il senso di
Fine partorito da piccoli inquietanti segnali, fatto sta che uno dei
pregi che emerge con più vigore è la solidità,
quella robustezza propria delle Opere che mancava alle due pellicole
passate. Nonostante, comunque, Brosens & Woodworth continuino ad
affidarsi ad un velo allegorico pullulante di figurazioni e segni,
quello che cambia è che ne La quinta stagione
tale abbondanza non produce un disorientamento irreversibile né
si ode l’eco di un virtuosismo sterile, ciò che c’è
e che vediamo è parte integrante di un percorso senza
biglietto di ritorno.
Premettendo
che negli ultimi anni il “cinema della Fine” ha avuto
manifestazioni molto più alte di questa (citare Tarr è
necessario), è indubbia la bravura della coppia registica
nell’imbastire formalmente il prodotto sotto esame riuscendo a
sedurre l’occhio come sempre più di rado accade nell’arte
narrativa, operando sulla geometria naturalistica (la verticalità
[degli alberi e di quelle splendide rocce perpendicolari al lago] che
sminuisce la bassezza umana) e la profondità paesaggistica
senza scivolare nella stucchevolezza, anzi: insaporendo di continuo
lo scontro architrave Uomo-Natura, mostrando la dipendenza del primo
nei confronti dell’altra (il mondo si adombra, la coscienza anche)
fino al crollo ineluttabile della categoria ritenuta superiore.
C’è dell’altro ad ogni modo, un coacervo di segnali che
non verranno approfonditi (per farlo si rimanda ancora a Billi) dove
spicca un’incomunicabilità di fondo tra noi
e il resto, tanto che
l’episodio del gallo muto è paradigma di un’afasia
linguistica dell’uomo nei confronti dell’ambiente sottovalutata
eppure terribilmente urgente, si noti che gli unici in grado di
comunicare al di là della parola con richiami animaleschi sono i
tre ragazzini, in una sintonia, dunque, che gli altri abitanti non hanno. A
ben vedere, allora, anche La quinta stagione
ha un substrato non privo di una certa morale, il punto fondamentale
è che non siamo in presenza di una lezioncina indottrinante,
più che denunciare B&W constatano, sollevato il filtro
simbolico, rimane il dato di fatto del nostro tempo.
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