lunedì 6 giugno 2016

Reindeerspotting: Escape from Santaland

Un po’ di informazioni su Reindeerspotting - pako Joulumaasta (2010): Joonas Neuvonen, il regista, fino al momento in cui non ha preso la videocamera in mano e ha iniziato ad immortalare l’amico Jani intento a iniettarsi del Subutex a più non posso, di regista in quanto tale non aveva niente; studente di fotografia, nato a Rovaniemi e poi vissuto in svariate capitali del mondo, una volta tornato nel territorio lappone ha deciso di ritrarre la realtà di alcuni giovani tossicodipendenti (dei quali Neuvonen stesso faceva all’incirca parte) alle prese con i problemi che tutti i tossici del globo devono risolvere per tirare avanti, con l’aggiunta non sottovalutabile della location, ovvero la città di Babbo Natale, e quindi: dipendenza, astinenza, delinquenza (che porta ad incontri spiacevoli con la legge), alienazione e così via. Il punto è che Neuvonen una volta partito non aveva un’idea precisa del progetto il quale oscillava nella sua mente tra un qualcosa di molto breve (tipo mini-clip da caricare on-line) a un qualcosa di più seriale, giunto però alla fine delle riprese si è accorto che la mole di materiale era così massiccia da poterne tirare fuori un film, allora insieme al montatore Sadri Cetinkaya si è messo a tagliare e incollare in un procedimento che ha richiesto ben cinque anni di lavoro. Passaggio a Locarno, dove si è portato a casa un premio, ed inizio di una “notorietà” che probabilmente renderà il documentario uno di quegli oggettini sub-culturali da non perdere.

A differenza di un Swansea Love Story (2009), il film di Neuvonen ha una forza ancora più rattristante perché non si deve curare di dover penetrare all’interno della cerchia lisergica, non ha bisogno di andare a scovare storie disumane da raccontare, e questo perché ne fa parte in primissima persona, l’occhio-cinema è parte integrante dei meccanismi deleteri riproposti poi sullo schermo (il regista ha dichiarato a Roberto Rippa di aver girato sotto l’effetto di stupefacenti: link), ergo non c’è niente di più doloroso che un documento-verità di tal fatta poiché nella discesa verso l’abisso di Jani assistere all’indulgenza dell’amico (Neuvonen) che invece di bloccare quella mano che incunea la siringa nella vena fotografa più e più volte tale gesto, divenendo testimonianza che raccoglie l’entusiasmo per un po’ di roba raccattata con poco sforzo o i lampi di lucidità trasognante, ci carica di una morale dal quale non possiamo esimerci: non serve additare l’abuso di sostanze esposto senza filtri, non c’è pornografia qui che non si possa rintracciare altrove, piuttosto lo spunto che il documentario in maniera inconsapevole offre è quello di una rete sociale incapace di contravvenire alle criticità del protagonista dove né le istituzioni (il carcere invece che un programma serio di disintossicazione) né la famiglia (totalmente assente) e men che meno gli amici (sulla medesima barca alla deriva) evitano lo sprofondare di Jani nelle sabbie mobili dell’assuefazione. Altrettanto inconsapevolmente (perché nessuno poteva sapere come sarebbe andato il viaggio oltre i confini finlandesi) la storia così montata suggerisce una visione scoraggiante della persona-Jani, nelle vesti di tossico (le uniche che può indossare) non ha modo di potersi sentire altro, la sua vita calibrata al raggiungimento dell’ennesimo trip sarà uguale a prescindere dalla collocazione geografica.

Note amare a margine: Jani Raappana si è impiccato nel 2010 in Cambogia dove si era recato proprio con Neuvonen, mentre quest’ultimo è stato condannato nel gennaio del 2013 a due anni e mezzo di reclusione per traffico di droga.

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