Un po’ di informazioni
su Reindeerspotting - pako Joulumaasta (2010): Joonas
Neuvonen, il regista, fino al momento in cui non ha preso la
videocamera in mano e ha iniziato ad immortalare l’amico Jani
intento a iniettarsi del Subutex a più non posso, di regista
in quanto tale non aveva niente; studente di fotografia, nato a
Rovaniemi
e poi vissuto in svariate capitali del mondo, una volta tornato nel
territorio lappone ha deciso di ritrarre la realtà di alcuni
giovani tossicodipendenti (dei quali Neuvonen
stesso faceva all’incirca parte) alle prese con i problemi che
tutti i tossici del globo devono risolvere per tirare avanti, con
l’aggiunta non sottovalutabile della location, ovvero la città
di Babbo Natale, e quindi: dipendenza, astinenza, delinquenza (che
porta ad incontri spiacevoli con la legge), alienazione e così
via. Il punto è che Neuvonen una volta partito non aveva
un’idea precisa del progetto il quale oscillava nella sua mente tra
un qualcosa di molto breve (tipo mini-clip da caricare on-line) a un
qualcosa di più seriale, giunto però alla fine delle
riprese si è accorto che la mole di materiale era così
massiccia da poterne tirare fuori un film, allora insieme al
montatore Sadri Cetinkaya si è messo a tagliare e incollare in
un procedimento che ha richiesto ben cinque anni di lavoro. Passaggio
a Locarno, dove si è portato a casa un premio, ed inizio di
una “notorietà” che probabilmente renderà il
documentario uno di quegli oggettini sub-culturali da non
perdere.
A differenza di un
Swansea Love Story (2009), il film di Neuvonen ha una forza
ancora più rattristante perché non si deve curare di
dover penetrare all’interno della cerchia lisergica, non ha bisogno
di andare a scovare storie disumane da raccontare, e questo perché
ne fa parte in primissima persona, l’occhio-cinema è parte
integrante dei meccanismi deleteri riproposti poi sullo schermo (il
regista ha dichiarato a Roberto Rippa di aver girato sotto l’effetto
di stupefacenti: link), ergo non c’è niente di più
doloroso che un documento-verità di tal fatta poiché
nella discesa verso l’abisso di Jani assistere all’indulgenza
dell’amico (Neuvonen) che invece di bloccare quella mano che
incunea la siringa nella vena fotografa più e più volte
tale gesto, divenendo testimonianza che raccoglie l’entusiasmo per
un po’ di roba raccattata con poco sforzo o i lampi di lucidità
trasognante, ci carica di una morale dal quale non possiamo esimerci:
non serve additare l’abuso di sostanze esposto senza filtri, non
c’è pornografia qui che non si possa rintracciare altrove,
piuttosto lo spunto che il documentario in maniera inconsapevole
offre è quello di una rete sociale incapace di contravvenire
alle criticità del protagonista dove né le istituzioni
(il carcere invece che un programma serio di disintossicazione) né
la famiglia (totalmente assente) e men che meno gli amici (sulla
medesima barca alla deriva) evitano lo sprofondare di Jani nelle
sabbie mobili dell’assuefazione. Altrettanto inconsapevolmente
(perché nessuno poteva sapere come sarebbe andato il viaggio
oltre i confini finlandesi) la storia così montata suggerisce
una visione scoraggiante della persona-Jani, nelle vesti di tossico
(le uniche che può indossare) non ha modo di potersi sentire
altro, la sua vita calibrata al raggiungimento dell’ennesimo trip
sarà uguale a prescindere dalla collocazione geografica.
Note amare a margine:
Jani Raappana si è impiccato nel 2010 in Cambogia dove si era
recato proprio con Neuvonen, mentre quest’ultimo è stato
condannato nel gennaio del 2013 a due anni e mezzo di reclusione per
traffico di droga.
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