Dalla steppa della
Mongolia alle Ande del Perù passando per il Belgio:
l’infaticabile duo Brosens-Woodworth rimbraccia la macchina da
presa dall’altra parte del globo e subito troviamo una forte
continuità con Khadak (2006): in Altiplano
(2009) la coppia alla regia esplora di nuovo il folklore del luogo
regalandoci cartoline di valido impatto visivo, allo stesso tempo fa
scontrare la tradizione con l’innovazione mostrando gli squilibri
che questa collisione partorisce (l’epidemia di cecità
frutto – forse – delle attività minerarie), i due non si
astengono poi dall’innervare la vicenda con un’altra storia
sentimentale striata di epico eroismo (Ignacio che muore per una
prova d’amore) e intrecciata a quella di un’ulteriore coppia che
ne diventa la relativa copia carbone. Intatte, anche se leggermente
meno in preda a scalmanate vibrazioni, le finestre surreali,
screziature auree molto vicine alla videoarte che, senza dubbio,
lasciano un’impronta e che elevano tutto un resto per nulla esente
da difetti che tra poco vedremo. Di novità che cosa c’è?
È evidente una sofisticatura tramica che si rispecchia nel
tentativo di dare una dimensione psicologica con flessioni morali
alla componente drammatica del film, il ruolo della fotografa e
quello della promessa sposa sembrano orientati verso un percorso di
autocoscienza non così dissimile dove si amalgamano senso di
colpa e volontà di riscatto (d’altronde il suicidio è
la presa di posizione più radicale possibile), una strada
binaria che nel finale troverà l’immancabile convergenza.
A fronte di cotanto
materiale, rintracciabile suppergiù anche in Khadak, il
cinema di Brosens e Woodworth continua a non soddisfarmi. È
vero che qui rispetto all’opera precedente vi è una maggiore
solidità del racconto, ma è anche vero, purtroppo, che
tale racconto verte su argomenti di scarsa presa, da manualetto
bignamesco: né il discorso relativo al sacrificio
dell’innocente a causa della cupidigia umana, né il
conseguente amore tranciato, men che meno le vessazioni sui deboli
sanno trasformarsi in aria fresca per i nostri polmoni, vieppiù
che l’ostentazione di una continua ricerca del metafisico con
imbottiture simboliche (la Vergine che si disintegra) e trovate
enigmatiche belle ma tanto compiaciute (i tipi mascherati),
lasciano Altiplano in un limbo che da una parte tende ad una
grammatica mainstream con tutta l’esosità che può
comportare (la scena della rivolta nei confronti dei minatori l’ho
trovata goffissima), mentre dall’altra galoppa sulle praterie di
un’autorialità prettamente estetica che comunque, sebbene
parecchio egocentrica, si fa(rà) ricordare. In breve, i primi
due film di Peter Brosens e Jessica Woodworth hanno qualità
tali da saper cibare adeguatamente l’occhio, oltre a quello però
la ciccia è veramente poca, e confusa.
Nessun commento:
Posta un commento