giovedì 9 giugno 2016

Blondie

La mamma compie settant’anni, le tre figlie ritornano nella casa materna per i festeggiamenti.

Non c’è niente da salvare nel film che Jesper Ganslandt ha portato a Venezia ’12, ed è un peccato perché questo regista svedese aveva fatto intravedere cose discrete nelle due opere precedenti (Falkenberg Farewell [2006] e The Ape [2009], soprattutto in quest’ultima, bel thriller dalla struttura ingegnosa), ma ahinoi Blondie (2012) si rivela un enorme passo indietro sotto tutti i punti di vista: per cominciare non si può che sbadigliare di fronte ad un’ennesima ed indesiderata riunione famigliare farcita di sonnolenti cliché: famiglia ricca (un campione non dissimile dai personaggi che popolavano Avalon, 2011) uguale a famiglia disunita, madre assente in passato, figli con problemi nel presente, modella in carriera cocainomane impavida, marito fannullone puntualmente cornificato, l’abbienza che non è sinonimo di felicità, e così via. Partendo da presupposti così incartapecoriti era inevitabile che la storia in sé uscisse fuori piatta, in un’accezione dove si registra una preoccupante mancanza di profondità, la lettura è talmente scontata (oltre che ritrita) da sfiorare l’indignazione; a contribuire negativamente alla monodimensionalità del film ci si mette una caratterizzazione dei ruoli impossibilitata ad avere uno sviluppo, una crescita, le tre sorelle sono manichini imbellettati e posizionati su binari che li conducono in risvolti narrativi di ordinaria fattura, a tal proposito il malore della madre non sorprende neanche un po’, al pari della riappacificazione che ne consegue (artefatta proprio perché scaturisce da una soluzione altamente prevedibile).

Non allieta nemmeno il tono usato da Ganslandt, anche perché non si capisce bene che tono sia, il suo tergiversare tra il ritratto leggero di una borghesia in frantumi e i piccoli drammi (inter)personali che punteggiano le tre donne (con una netta disparità di trattamento: la più giovane è una figurina accessoria, dei patemi che la affliggono poco o niente ci viene detto), non fa prendere nessuna delle due direzioni al film. Anzi, forse l’unico tono uniforme ed esteso dal primo all’ultimo minuto è quello di una messa in scena patinatissima dal sapore glamour, quindi effimero (nonché superficiale), come se ci trovassimo dentro il servizio fotografico di una firma dell’alta moda, e i finti fermo-immagine che scandiscono i capitoli richiamano con forza tale area. È un tentativo di aprirsi al pubblico meno esigente quello di Ganslandt (sarà un caso, ma l’attrice che impersona Elin, Carolina Gynning, è un personaggio televisivo piuttosto noto in Svezia avendo vinto il Grande Fratello anni fa), avvalendosi di un metodo che naviga troppo nel comune, affondando poi nella materia del racconto, esile manualetto di tormenti già visti in abbondanza. Qualche anno fa si era paventata la possibilità che Ganslandt dirigesse un film con Robert Pattinson protagonista, la cosa sembra andata a scemare ma potrebbe essere significativa in merito alla direzione che lo svedese voleva o vuole imboccare…

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