La mamma compie
settant’anni, le tre figlie ritornano nella casa materna per i
festeggiamenti.
Non c’è niente
da salvare nel film che Jesper Ganslandt ha portato a Venezia ’12,
ed è un peccato perché questo regista svedese aveva
fatto intravedere cose discrete nelle due opere precedenti
(Falkenberg Farewell [2006] e The Ape [2009],
soprattutto in quest’ultima, bel thriller dalla struttura
ingegnosa), ma ahinoi Blondie (2012) si rivela un enorme passo
indietro sotto tutti i punti di vista: per cominciare non si può
che sbadigliare di fronte ad un’ennesima ed indesiderata riunione
famigliare farcita di sonnolenti cliché: famiglia ricca (un
campione non dissimile dai personaggi che popolavano Avalon,
2011) uguale a famiglia disunita, madre assente in passato, figli con
problemi nel presente, modella in carriera cocainomane impavida,
marito fannullone puntualmente cornificato, l’abbienza che non è
sinonimo di felicità, e così via. Partendo da
presupposti così incartapecoriti era inevitabile che la storia
in sé uscisse fuori piatta, in un’accezione dove si registra
una preoccupante mancanza di profondità, la lettura è
talmente scontata (oltre che ritrita) da sfiorare l’indignazione; a
contribuire negativamente alla monodimensionalità del film ci
si mette una caratterizzazione dei ruoli impossibilitata ad avere uno
sviluppo, una crescita, le tre sorelle sono manichini imbellettati e
posizionati su binari che li conducono in risvolti narrativi di
ordinaria fattura, a tal proposito il malore della madre non
sorprende neanche un po’, al pari della riappacificazione che ne
consegue (artefatta proprio perché scaturisce da una soluzione
altamente prevedibile).
Non allieta nemmeno il
tono usato da Ganslandt, anche perché non si capisce bene che
tono sia, il suo tergiversare tra il ritratto leggero di una
borghesia in frantumi e i piccoli drammi (inter)personali che
punteggiano le tre donne (con una netta disparità di
trattamento: la più giovane è una figurina accessoria,
dei patemi che la affliggono poco o niente ci viene detto), non fa
prendere nessuna delle due direzioni al film. Anzi, forse l’unico
tono uniforme ed esteso dal primo all’ultimo minuto è
quello di una messa in scena patinatissima dal sapore glamour, quindi
effimero (nonché superficiale), come se ci trovassimo dentro
il servizio fotografico di una firma dell’alta moda, e i finti
fermo-immagine che scandiscono i capitoli richiamano con forza tale
area. È un tentativo di
aprirsi al pubblico meno esigente quello di Ganslandt (sarà un
caso, ma l’attrice che impersona Elin, Carolina Gynning, è
un personaggio televisivo piuttosto noto in Svezia avendo vinto il
Grande Fratello anni fa), avvalendosi di un metodo che naviga troppo
nel comune, affondando poi nella materia del racconto, esile
manualetto di tormenti già visti in abbondanza. Qualche anno
fa si era paventata la possibilità che Ganslandt dirigesse un
film con Robert Pattinson protagonista, la cosa sembra andata a
scemare ma potrebbe essere significativa in merito alla direzione che
lo svedese voleva o vuole imboccare…
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