venerdì 19 luglio 2013

Avalon

Le acque sotterranee svedesi si stanno muovendo: da qualche tempo, lassù, c’è un movimento, non ancora ufficialmente riconosciuto, che sta proponendo un cinema degno di nota. Certo, per adesso nulla di davvero eclatante, ma le idee esistono e in futuro c’è da voltare lo sguardo verso la penisola scandinava. I registi sono giovani e tutti sostenuti dalla Fasad, casa di produzione con sede a Stoccolma, che ha finanziato l’ultimo film di Ganslandt Blondie (2012), quello precedente, The Ape (2009), ma anche il coevo Burrowing progenie di quel Falkenberg Farewell (2006) che può essere considerato come l’inizio di tutto. A questi titoli si deve aggiungere Avalon (2011), pellicola diretta ancora una volta da un esordiente, Axel Petersén, che ha in comune con le opere sopraelencate lo stesso approccio realistico, una messa in scena cablata sui corpi delle persone, un pedinamento a strettissimo contatto con gli attori: la mdp sbuffa sul loro collo, li aggira, li avvolge e li incastra in una rappresentazione che comunque non disdegna aperture paesaggistiche (sempre camera-car e via di prati verdeggianti) in una zona geografica, siamo a Båstad, che sembra una meraviglia.

Invece ci si allontana per quanto riguarda lo strato fondante dell’opera che non è più un’esplorazione esistenziale bensì uno sguardo ad una precisa classe sociale alle prese con i suoi fantasmi. Il ceto preso in esame è di livello medio-alto, diciamo parecchio benestante, ma come insegna il proverbio i soldi non fanno la felicità così vediamo Janne, il protagonista, parecchio corrucciato anche quando le cose non sono ancora precipitate, si tratta più che altro di sensazioni che ben si sprigionano dal film: sia Janne che la sorella per non parlare del socio Klas, vivono in un mondo di plastica, sono persone di plastica: ad un’età che li dovrebbe vedere impegnati a far la coda in posta per ritirare la pensione, si preoccupano invece di locali (l’Avalon del titolo) opening party esclusivi, divanetti e superalcolici. Personalmente ritengo che sotto questo punto di vista il film faccia agevolmente il suo dovere immortalando non senza sarcasmo una generazione briatoresca dalle narici impolverate.

La sola radiografia dell’alta società svedese non avrebbe potuto tenere in piedi i tempi del lungometraggio, così Petersén si muove per antitesi ponendo sulla strada, o meglio, sulla retromarcia di Janne, un uomo che è la sua nemesi, un giovane poveretto. L’operazione è adibita a provocare un cortocircuito interno nell’animo di Janne e di conseguenza a far spiccare l’elevato grado di inumanità che, come si vedrà, risiede nel suo cuore. Però le intenzioni si scontrano con uno srotolamento narrativo che non convince mica tanto, ci sono aspetti non approfonditi (uno: come fa la fidanzata a capire chi è il responsabile dell’omicidio?) ed altri che si barcamenano tra l’enigmatico ed il superfluo (un altro: la sorella… il quadro? I palpeggiamenti nel bagno?; un altro ancora: Klas che aggredisce il tizio fuori dalla discoteca?), piccolezze la cui somma algebrica lascia l’idea che il tutto non sia stato impaginato a dovere.
Petersén sa far arrivare l’argomento azzeccando i punti salienti del suo discorso (la scena madre del party sintetizza perfettamente la fascia di popolazione presa in esame), ciò che deve migliorare è l’organicità complessiva, rifinire i bordi, appiattire le magagne e stuccare i buchi.
Gli stessi suggerimenti valgono anche per gli altri autori di questa combriccola, con un po’ di esperienza sulle spalle sapranno farci divertire, e non poco.

2 commenti:

  1. Caruccio, però non mi ha convinto: il protagonista idiota mi è sembrato più che altro abbozzato, stilizzato e, appunto, troppo paradigmatico in vista di una critica sociale più o meno condivisibile. Se poi però ci metti anche i cortocircuiti tramistici che sottolinei anche tu, il tutto mi dà l'impressione che, di fondo, ci sia soltanto un'idea, che si perde nel suo dispiegarsi.

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  2. Infatti... il cinema si sta spostando a nord-est. producono e sfornano film interessanti.

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