Agna niata (2004)
di Ektoras Lygizos tripartisce la narrazione alternando tre diverse
piste riconducibili però ad un unico corpo: la scuola. Sullo schermo le immagini di una commemorazione patriottica con tanto di platea,
palco e coro di bambini sullo sfondo si avvicendano con un pingpong
tra la classe di una maestra (nonché presentatrice della
celebrazione) e le numerose altre classi dove i docenti tramite una scala descrittiva illustrano ai
discenti quali sono gli effetti
percepibili di un terremoto.
L’impressione che a questo
cortometraggio greco manchi una propria organicità visto il suo procedere per binari paralleli a ridosso del finale, viene cassata, appunto, dalla
conclusione che qui non verrà apertamente svelata ma che, vista la
funzione fertilizzante, permette di dilungarci ancora un po’: con
la descrizione del terremoto e dei suoi devastanti effetti a cui
segue una simulazione all’interno dell’aula, Lygizos, ateniese
classe ’76, ci conduce fuori strada con le precauzioni per
contrastare un fenomeno invisibile e probabilmente inconcepibile per
i bambini (basta guardare i loro visini divertiti e innocenti durante
la prova) come è un sisma, ci pensa il gesto della maestra a donare
un significato denso ed oscuro al film, la rappresentazione di un
ulteriore fenomeno, presumibilmente endemico, che acquista valore nel
contesto in cui accade; dentro la scuola, secondo mattone dopo la
famiglia adibito a formare il futuro, chi dovrebbe guidare
all’avvenire compie l’atto più codardo di sempre, e così anche se
girato nel 2004 il cortometraggio appare di un’attualità
disarmante, come se fosse una profezia: quei bambini che scappano di
fronte all’orrore sono gli stessi che sette-otto anni dopo
scenderanno in piazza
Syntagma a graffiarsi la gola - e non solo quella - per la stessa patria
che commemoravano da piccoli, perché lo abbiamo imparato anche noi:
le radici di una crisi non sono mai soltanto economiche.
Bellissima recensione, anche se, a essere onesti, non definirei l'atto della maestra come il gesto più codardo di sempre, anzi: la disillusione e il distaccato sono radicate e, nel caso della Grecia, richieste da una certa realtà e da un certo modo di percepire quella realtà.
RispondiEliminaci sta, ma voglio ancora credere nella vita e non riesco a vedere il suicidio (soprattutto quello di questo film) come una risposta a certe realtà.
RispondiEliminaChe realtà?
EliminaScusa la domanda, non vorrei sembrare impertinente, ma sono perplesso: seguo Deleuze, lo studio, leggo i suoi libri eccetera, e lui si è suicidato, si è buttato dalla finestra perché temeva o non voleva finire come un suo amico, malato della stessa malattia, attaccato alle macchine. Anzi, ci fece pure una certa speculazione sulla vertigine, la vertigine come valorizzazione dell'alto, tant'è che alcuni leggono il suo suicidio come affermazione della vita... Pure Wallace si suicidò, e scrisse sul suicidio - scrisse che il suicidio è una maniera come un'altra per uscire dalla depressione, perché la depressione è ignavia, inazione, stasi, e il suicidio è un gesto, un volere eccetera. Ovvio, in questo caso il suicidio sarebbe la risposta a una data realtà, ma una risposta obbligata, necessaria, costretta.
mi piacerebbe molto parlare con te, davvero. Poi mi tiri in mezzo anche l'adoratissimo DFW (la biografia nuova di zecca è lì sul comodino, prima o poi riuscirò ad aprirla), perfetto. Ma ora non riesco ad andare oltre queste due righe.
RispondiEliminafra gli altri, fra i più amati da me: S. Plath, M. Cvetaeva, A. Pizarnik, P.Levi, C.Pavese, V. Majakovskij, S. Esenin, V. Woolf... poeti, scrittori, artisti suicidi. è complesso è inaccettabile e allo stesso tempo semplicemente reale, è, è crudele per chi resta, è la scelta per chi agisce. è azione reazione volontà. è complicato, come i suicidi politici nelle carceri di molti anarchici e rivoluzionari... non se ne può parlare qui ma in questo tuo blog spesso, per fortuna, si sente aria di altrove.
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