lunedì 1 aprile 2019

Dead Slow Ahead

I presupposti di Dead Slow Ahead (2015) sono davvero molto simili a quelli di Leviathan (2012), in fondo l’idea di base è la stessa: salire a bordo di una nave e fare di un documentario qualcosa che lo supera e che arriva in zone di cinema disorientanti, in un limbo dove la materia prima del reale si contamina in altri registri. L’iniziale accostamento tra i due film è subito seguito da un avvertibile distacco, del resto basta vedere come Mauro Herce apre il suo lavoro per comprendere che l’approccio specificatamente tecnico diverge dall’indimenticata proposta di Castaing-Taylor & Paravel; qui, infatti, tutto si genera dal doppio senso di una normale tenda che si fa sipario la quale una volta schiusa ci trasporta in un teatro dell’ascetico dove la natura marina e la natura meccanica si uniscono in una sinfonia ipnotica lenta ed ammaliante. Quindi a differenza di Leviathan che piazzando delle videocamere sul peschereccio lasciava che gli eventi si verificassero come tali, il regista spagnolo, già direttore di fotografia da molti anni, opta per un metodo di preciso rigore geometrico in cui gli spazi (sia esterni che interni) esaltano un’estetica in grado di colpire l’occhio anche quando riprende dei banali grovigli di tubi nella stiva.

Quest’attenzione alla forma da parte di Herce non sta ad indicare che Dead Slow Ahead sia un titolo privo di spessore concettuale. Intanto, sarà scontato dirlo, si ripresenta un canone che è ossigeno puro per il cinema che più si apprezza poiché l’ibridazione è la corretta via per la contemporaneità, in più l’opera sotto esame riesce comunque a sfondare certi muri fruitivi e lo fa proprio grazie alla sua ricerca stilistica, sicché bisogna ritornare a Leviathan e ad un decisivo riavvicinamento tra i due film, assistendo a DSA accade infatti che il reale davanti agli occhi dello spettatore si deformi grazie al cinema di Herce in altre declinazioni indipendenti che però suggestionano da morire: quello che viene registrato lo si avverte in un altro modo e allora l’immagine aerea di un operaio in mezzo al carico di sabbia diventa un astronauta solitario sul suolo marziano, o ancora: un banale momento di relax tra i marinai viene rimodellato attraverso uno stordente tappeto sonoro in una dislocante parentesi d’epilessia artistica. Quanto detto non fa che ricordarci di quali pazzesche potenzialità abbia la realtà che altro non è se non l’enorme recipiente che tutto contiene, dalle storie ai modi per raccontarle, e per un regista un buon modo per “fare-un-film” può essere quello di non fare niente che non sia posizionare il proprio attrezzo nel bel mezzo della vita che fluisce. Il cinema è là fuori, guardatelo.

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