I presupposti di Dead
Slow Ahead (2015) sono davvero molto simili a quelli di Leviathan
(2012), in fondo l’idea di base è la stessa: salire a bordo di una
nave e fare di un documentario qualcosa che lo supera e che arriva in
zone di cinema disorientanti, in un limbo dove la materia prima del
reale si contamina in altri registri. L’iniziale accostamento tra i
due film è subito seguito da un avvertibile distacco, del resto
basta vedere come Mauro Herce apre il suo lavoro per comprendere che
l’approccio specificatamente tecnico diverge dall’indimenticata
proposta di Castaing-Taylor & Paravel; qui, infatti, tutto si
genera dal doppio senso di una normale tenda che si fa sipario la
quale una volta schiusa ci trasporta in un teatro dell’ascetico
dove la natura marina e la natura meccanica si uniscono in una
sinfonia ipnotica lenta ed ammaliante. Quindi a differenza di
Leviathan che piazzando delle videocamere sul peschereccio
lasciava che gli eventi si verificassero come tali, il regista
spagnolo, già direttore di fotografia da molti anni, opta per un
metodo di preciso rigore geometrico in cui gli spazi (sia esterni che
interni) esaltano un’estetica in grado di colpire l’occhio anche
quando riprende dei banali grovigli di tubi nella stiva.
Quest’attenzione alla
forma da parte di Herce non sta ad indicare che Dead Slow Ahead
sia un titolo privo di spessore concettuale. Intanto, sarà
scontato dirlo, si ripresenta un canone che è ossigeno puro per il
cinema che più si apprezza poiché l’ibridazione è la corretta
via per la contemporaneità, in più l’opera sotto esame riesce
comunque a sfondare certi muri fruitivi e lo fa proprio grazie alla
sua ricerca stilistica, sicché bisogna ritornare a Leviathan
e ad un decisivo riavvicinamento tra i due film, assistendo a DSA
accade infatti che il reale davanti agli occhi dello spettatore si
deformi grazie al cinema di Herce in altre declinazioni indipendenti
che però suggestionano da morire: quello che viene registrato lo si
avverte in un altro modo e allora l’immagine aerea di un operaio in
mezzo al carico di sabbia diventa un astronauta solitario sul suolo
marziano, o ancora: un banale momento di relax tra i marinai viene
rimodellato attraverso uno stordente tappeto sonoro in una dislocante
parentesi d’epilessia artistica. Quanto detto non fa che ricordarci
di quali pazzesche potenzialità abbia la realtà che altro non è se
non l’enorme recipiente che tutto contiene, dalle storie ai modi
per raccontarle, e per un regista un buon modo per “fare-un-film”
può essere quello di non fare niente che non sia posizionare il
proprio attrezzo nel bel mezzo della vita che fluisce. Il cinema è
là fuori, guardatelo.
Come ti seguo su Mubi? 😊
RispondiEliminaNon puoi perché non ci sono :)
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