La centralità tematica è
data già dal titolo perché Die Frau des Polizisten (2013)
attraverso una generalizzazione dei soggetti (“una moglie”, “un
poliziotto”) mira all’eventualità del dovunque, siamo in
Germania ma potremmo essere in Italia o in Francia, quello che a
Philip Gröning interessa maggiormente è raccontare una storia che,
come i casi di cronaca nera ci insegnano tristemente, può accadere
in qualunque posto del mondo, per questo i suoi protagonisti sono
tratteggiati dal regista in un modo piuttosto basico, nonostante il
film duri quasi tre ore non c’è un approfondimento o uno sviluppo
psicologico nei riguardi della famiglia, ciò che regna è una sorta
di continua stasi che si avvicina per quello che può alla
rappresentazione di una vita che si potrebbe definire “normale”.
Non era semplice per Gröning riversare sullo schermo l’andamento
intorpidito dell’esistenza che ogni giorno viviamo, ma credo ci sia
riuscito ed il risultato finale è appagante proprio perché è in
grado di restituire allo spettatore un ritratto di violenza domestica
che si avvicina il più possibile ad un’idea di realtà. Dribblando
la facile demagogia ed il pericoloso barbaradursismo, l’autore de
Il grande silenzio (2005) fa sì che non vi siano
stigmatizzazioni di sorta illustrando un quadro famigliare che, con
uno stupore a cui comunque riusciamo a credere, alterna situazioni
idilliache, ordinarie, quotidiane, a moti sotterranei che feriscono e
che covano piccole esplosioni di violenza pronte ad eruttare.
Non ci sono sottotitoli
nell’assistere ad un padre-cattivo e ad una mamma-vittima, lo
scorrere delle cose che non scorre affatto ma che si costruisce
tramite i tanti mattoncini di questo muro doloroso, è dotato di una
naturalezza che rende traballante il concetto di finzione e che sa
farci sedere a tavola con il trio in scena. Grazie ad un uso
intelligente del digitale che sa esaltare l’estetica giungendo a
prospettive iperealistiche come le immagini radenti all’epidermide
angelica di Clara, Gröning modella il proprio racconto mescolando
ingredienti visivi antitetici eppure complementari, grazie ad una
persistente antiletteralità c’è un grosso scontro/incontro tra le
riprese casalinghe e quelle naturalistiche come se le due visioni
così lontane avessero comunque un loro motivo concomitante nell’area del sensibile, inoltre a scardinare la regolarità
narrativa ci pensano soluzioni non troppo convenzionali (almeno per
il cinema tradizionale) come la particolare attenzione verso gli
animali (vivi, morti, immaginari) o come i brevi inserti dedicati ad
un uomo anziano che ci appare molto solo di cui non sapremo niente
durante la proiezione, tutti elementi che contribuiscono ad
arricchire l’argomento principale tanto che in taluni frangenti La
moglie del poliziotto, pur mantenendo sempre un costante filo di
tensione al suo interno, sa anche essere, ad esempio, una delle
istantanee più tenere e sincere in fatto di rapporto tra madre e
figlia viste al cinema.
Con l’approssimarsi
della fine il regista ha comunque ceduto ad un’esibizione della
violenza che forse era più predicibile su un piano “classico”,
chi scrive avrebbe evitato un tale show paterno perché comunque
mostrare i lividi fa più male che mostrare le botte, ad ogni modo
non è una caduta poiché negli ultimi capitoli sembra che anche dopo
il fattaccio ogni cosa prosegua come prima (il bagno nella vasca),
anche se l’ultimo sguardo interrogatorio della piccola, al pari di
tutti gli sguardi dritti in camera, è scomodo e penetrante. Quanto
malessere ci hai suggerito Gröning, quanta molteplice sofferenza.
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