
Scrivendo di
Una luna chiamata Europa (2017)
vaticinavo la possibilità che Kornél Mundruczó approdasse in terra
statunitense perché il suo cinema si era di molto spettacolarizzato
rispetto a quello degli esordi. Tre anni dopo l’ipotesi prende
forma e concretezza però il regista che ritroviamo in Pieces
of a Woman (2020) è
un autore che si è messo in riga, quindi niente gente che vola né
cani dall’ambiguo comportamento ma un bel drammone scritto dalla
moglie Kata Wéber che sembra si sia ispirata ad un episodio del loro
vissuto di coppia. Qualcuno (?) ricorderà che anche in Pleasant Days (2002) una maternità
fungeva da miccia narrativa per l’intera vicenda, qui tutto è
ovviamente portato su un livello di altissima professionalità e non
mi sognerei minimamente di accostare le due pellicole, tuttavia
l’attenzione va a focalizzarsi su una non dissimile area di
interesse: le dinamiche relazionali, sociali e consanguinee, che si
generano da una gravidanza, per l’occasione virata al nero. I pezzi
del titolo sono appunto i cocci originati dal terribile impatto, dal
corpicino blu, dai piccoli polmoni inerti, e, nell’ottica della
bolla-Netflix, sicché nella prospettiva spettatoriale di un
contenitore filmico a largo consumo, l’opera in oggetto svolge
diligentemente il proprio compito, dissemina questi tasselli
femminili interconnessi da una sofferenza difficilmente medicabile,
espone i brandelli di una donna smarrita in un mondo che passo dopo
passo, per lei più di ogni altro, si stinge, disintegra Martha
(l’immagine allo specchio, ce ne sono tre, tre frammenti) nel campo
sentimentale (inutile rimarcare l’evidente progressione di
distaccamento col compagno Sean) e nel campo famigliare (questa cosa
della genitorialità muliebre è una roba forte che ha radici nel
passato come ricorda una notevole Ellen Burstyn in un intenso
monologo). Insomma, credo si possa dire che l’esame hollywoodiano
l’ungherese lo abbia passato, e lo ha fatto mettendosi al servizio
della digeribilità altrui riducendo un autorialismo che da quelle
parti non avrebbe trovato residenza in favore di un solido impianto
emotivo sorretto dalla sontuosa interpretazione di Vanessa Kirby,
probabile nuova stella del firmamento californiano.
Nel
tessuto realistico c’è anche spazio per una metafora lampante
incarnata dalla reiterata panoramica del ponte. Visto il mestiere di
LaBeouf ho pensato per buona parte della proiezione che le istantanee
frontali dell’infrastruttura in fase di costruzione
simboleggiassero un graduale riavvicinamento tra i genitori mancati.
Con la piega che la trama assume verso il finale dove si verifica la
totale estromissione dell’uomo, il completamento del viadotto si è
fatto chiaro per il sottoscritto: esso era soltanto una
raffigurazione della Martha spezzata, interrotta, che reincontra se
stessa una volta stretta la mano della madre, esattamente come due
estremi che tornano a toccarsi. C’è poi un’altra allegoria che
dà nerbo alla narrazione e che è rappresentata dai semini delle
mele, la loro germinazione si fa parallelo di una gestazione che ha
effettivo riscontro nella conclusione, finalmente l’inverno se ne è
andato e la vita, a quanto pare, ha fatto un nuovo giro, i titoli di
coda che scorrono, giustamente, su un melo rigoglioso trasmettono una
sensazione di speranza e positività. Mentre invece alcuni aspetti,
tutti legati alle costrizioni che le sceneggiature impongono e che
perciò non rientrano nei miei gusti, sono stati i seguenti: -
l’insistere sui bambini che la protagonista incrocia per strada,
nei negozi o sulla metro in modo da incrementare il suo dolore, una
mossa a mio parere un po’ banale; - i reciproci tradimenti
repentini e immotivati (soprattutto la scappatella con la cugina); -
il momento che sancisce il superamento del lutto e che squaderna
l’umanità di una mamma che ha visto la figlioletta morirle tra le
braccia è, per carità, toccante e pregno, ma molto (troppo?)
teatrale e ostentato (mi riferisco alla scena del processo):
costruito. Detto ciò, se guardo ai trascorsi di Mundruczó, escludendo Delta
(2008) non sono mai riuscito ad entrare in sintonia con i suoi
lavori, ben venga allora una dimensione più canonica se ciò lo
aiuta ad esprimersi meglio, e comunque il piano sequenza iniziale ha
il copyright magiaro addosso, del resto certe nobili origini è
doveroso sottolinearle.
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