lunedì 18 gennaio 2021

Pieces of a Woman

Scrivendo di Una luna chiamata Europa (2017) vaticinavo la possibilità che Kornél Mundruczó approdasse in terra statunitense perché il suo cinema si era di molto spettacolarizzato rispetto a quello degli esordi. Tre anni dopo l’ipotesi prende forma e concretezza però il regista che ritroviamo in Pieces of a Woman (2020) è un autore che si è messo in riga, quindi niente gente che vola né cani dall’ambiguo comportamento ma un bel drammone scritto dalla moglie Kata Wéber che sembra si sia ispirata ad un episodio del loro vissuto di coppia. Qualcuno (?) ricorderà che anche in Pleasant Days (2002) una maternità fungeva da miccia narrativa per l’intera vicenda, qui tutto è ovviamente portato su un livello di altissima professionalità e non mi sognerei minimamente di accostare le due pellicole, tuttavia l’attenzione va a focalizzarsi su una non dissimile area di interesse: le dinamiche relazionali, sociali e consanguinee, che si generano da una gravidanza, per l’occasione virata al nero. I pezzi del titolo sono appunto i cocci originati dal terribile impatto, dal corpicino blu, dai piccoli polmoni inerti, e, nell’ottica della bolla-Netflix, sicché nella prospettiva spettatoriale di un contenitore filmico a largo consumo, l’opera in oggetto svolge diligentemente il proprio compito, dissemina questi tasselli femminili interconnessi da una sofferenza difficilmente medicabile, espone i brandelli di una donna smarrita in un mondo che passo dopo passo, per lei più di ogni altro, si stinge, disintegra Martha (l’immagine allo specchio, ce ne sono tre, tre frammenti) nel campo sentimentale (inutile rimarcare l’evidente progressione di distaccamento col compagno Sean) e nel campo famigliare (questa cosa della genitorialità muliebre è una roba forte che ha radici nel passato come ricorda una notevole Ellen Burstyn in un intenso monologo). Insomma, credo si possa dire che l’esame hollywoodiano l’ungherese lo abbia passato, e lo ha fatto mettendosi al servizio della digeribilità altrui riducendo un autorialismo che da quelle parti non avrebbe trovato residenza in favore di un solido impianto emotivo sorretto dalla sontuosa interpretazione di Vanessa Kirby, probabile nuova stella del firmamento californiano.

Nel tessuto realistico c’è anche spazio per una metafora lampante incarnata dalla reiterata panoramica del ponte. Visto il mestiere di LaBeouf ho pensato per buona parte della proiezione che le istantanee frontali dell’infrastruttura in fase di costruzione simboleggiassero un graduale riavvicinamento tra i genitori mancati. Con la piega che la trama assume verso il finale dove si verifica la totale estromissione dell’uomo, il completamento del viadotto si è fatto chiaro per il sottoscritto: esso era soltanto una raffigurazione della Martha spezzata, interrotta, che reincontra se stessa una volta stretta la mano della madre, esattamente come due estremi che tornano a toccarsi. C’è poi un’altra allegoria che dà nerbo alla narrazione e che è rappresentata dai semini delle mele, la loro germinazione si fa parallelo di una gestazione che ha effettivo riscontro nella conclusione, finalmente l’inverno se ne è andato e la vita, a quanto pare, ha fatto un nuovo giro, i titoli di coda che scorrono, giustamente, su un melo rigoglioso trasmettono una sensazione di speranza e positività. Mentre invece alcuni aspetti, tutti legati alle costrizioni che le sceneggiature impongono e che perciò non rientrano nei miei gusti, sono stati i seguenti: - l’insistere sui bambini che la protagonista incrocia per strada, nei negozi o sulla metro in modo da incrementare il suo dolore, una mossa a mio parere un po’ banale; - i reciproci tradimenti repentini e immotivati (soprattutto la scappatella con la cugina); - il momento che sancisce il superamento del lutto e che squaderna l’umanità di una mamma che ha visto la figlioletta morirle tra le braccia è, per carità, toccante e pregno, ma molto (troppo?) teatrale e ostentato (mi riferisco alla scena del processo): costruito. Detto ciò, se guardo ai trascorsi di Mundruczó, escludendo Delta (2008) non sono mai riuscito ad entrare in sintonia con i suoi lavori, ben venga allora una dimensione più canonica se ciò lo aiuta ad esprimersi meglio, e comunque il piano sequenza iniziale ha il copyright magiaro addosso, del resto certe nobili origini è doveroso sottolinearle.

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