Non ci si può nascondere troppo, se A Casa (2012) e Casa Manuel Vieira (2013) avevano una dignità artistica fatta di rigore e coerenza, O Regresso, pur usando una grammatica pressoché identica, si stacca dalle due pellicole appena menzionate per una serie di motivi che conosciamo bene e che, per fortuna, non stufano mai pur essendo iper-utilizzati. È un incontro di ingredienti che si rifanno ad un vissuto biografico e del loro felice sposalizio sull’altare di una ruralità da dove traspira un senso archetipico, misterioso e ancestrale incastrato nella quotidianità e nella ciclicità contadina, è poesia, lineare ma profonda, che arriva fino alle radici senza dircelo (e, perdonatemi se c’entra zero, ma mi sovviene quella stupida sequenza di Sorrentino in cui una sorta di Madre Teresa di Calcutta mangia delle radici affermando che le suddette sono importanti...), e se ce lo dice, perché ce lo dice, comprendiamo come se stessimo ascoltando la serena voce di un anziano dell’inclusione che il film ci offre, l’accessibilità ad una storia che, e l’ho già ripetuto svariate volte, non è nostra pur essendolo nel nucleo fondativo, nel più piccolo atomo costituito dagli affetti e dalle reminiscenze. Questo non è tanto O Regresso, in fondo nient’altro che una goccia nell’oceano, bensì ciò che suscita e che le parole di Sebald potrebbero magnificamente descrivere così:
A mio giudizio, disse Austerlitz, noi non comprendiamo le leggi che regolano il ritorno del passato, e tuttavia ho sempre più l’impressione che il tempo non esista affatto, ma esistano soltanto spazi differenti, incastrati gli uni negli altri, in base a una superiore stereometria, fra i quali i vivi e i morti possono entrare e uscire a seconda della loro disposizione d’animo, e quanto più ci penso, tanto più mi sembra che noi, noi che siamo ancora in vita, assumiamo agli occhi dei morti l’aspetto di esseri irreali e visibili solo in particolari condizioni atmosferiche e di luce.
(W.G. Sebald - Austerlitz, Adelphi; 2001)
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