mercoledì 14 ottobre 2020

O Jogo

Su un campetto polveroso un gruppetto di ragazzini deve sfidare a calcio il bulletto della zona e i suoi compari. A causa di una defezione entra nella squadra Felix, coetaneo affetto dalla sindrome di Down.

Visionato Casa Manuel Vieira (2013) pensavo che il passato registico di Júlio Alves fosse meritevole di attenzione. Mi sbagliavo. Il curriculum non è proprio scarno e forse generalizzare non è un modo corretto per formulare un giudizio, però due indizi fanno una prova più o meno certa: prima 42,195 Km (2010) e ora questo O Jogo (2010) ci dicono di un cinema mediocre che persegue, alla lontana, una denuncia sociale incapace di attecchire la sfera emotiva e men che meno di intaccare la coscienza di chi assiste. In O Jogo la semplicità globale non può ricadere sotto la lista dei pregi, non è affatto uno di quei casi in cui con fare ossimorico il recensore asserisce “è una semplicità complessa”, no, qui si parla di elementarità, di somma algebrica così costituita: contesto urbano semi-povero abitato da adolescenti scapestrati (li stessi che stanno a cuore al connazionale João Salaviza) + descrizione sommaria di alcune dinamiche di gruppo (il “capo” decide i ruoli e le azioni) + tratteggio altrettanto sommario dell’emarginato, del diverso (Felix che gioca da solo) + scena apparecchiata per far convergere le istanze appena menzionate (la partita conclusiva) + finale che si trasforma in uno schemino sulla tolleranza e l’accettazione = La Banalità. Essa permea in profondità il settore dei significati e noi non possiamo che rispondere con un mastodontico sbadiglio. Al solito non c’è mai un messaggio sbagliato (e quello di O Jogo, sbagliato, non lo è di sicuro) quanto le modalità con cui lo si trasmette. Salvabili, invece, degli accenti sonori che sembrano partoriti dalla mente di qualche produttore di musica elettronica come Apparat e simili.

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