Visionato Casa Manuel Vieira (2013) pensavo che il passato registico di Júlio Alves fosse meritevole di attenzione. Mi sbagliavo. Il curriculum non è proprio scarno e forse generalizzare non è un modo corretto per formulare un giudizio, però due indizi fanno una prova più o meno certa: prima 42,195 Km (2010) e ora questo O Jogo (2010) ci dicono di un cinema mediocre che persegue, alla lontana, una denuncia sociale incapace di attecchire la sfera emotiva e men che meno di intaccare la coscienza di chi assiste. In O Jogo la semplicità globale non può ricadere sotto la lista dei pregi, non è affatto uno di quei casi in cui con fare ossimorico il recensore asserisce “è una semplicità complessa”, no, qui si parla di elementarità, di somma algebrica così costituita: contesto urbano semi-povero abitato da adolescenti scapestrati (li stessi che stanno a cuore al connazionale João Salaviza) + descrizione sommaria di alcune dinamiche di gruppo (il “capo” decide i ruoli e le azioni) + tratteggio altrettanto sommario dell’emarginato, del diverso (Felix che gioca da solo) + scena apparecchiata per far convergere le istanze appena menzionate (la partita conclusiva) + finale che si trasforma in uno schemino sulla tolleranza e l’accettazione = La Banalità. Essa permea in profondità il settore dei significati e noi non possiamo che rispondere con un mastodontico sbadiglio. Al solito non c’è mai un messaggio sbagliato (e quello di O Jogo, sbagliato, non lo è di sicuro) quanto le modalità con cui lo si trasmette. Salvabili, invece, degli accenti sonori che sembrano partoriti dalla mente di qualche produttore di musica elettronica come Apparat e simili.
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