Isabelle (2018) funziona nel metodo che usa per indagare un senso di colpa proprio perché si tratta di un “anti-metodo”, mi spiego: Mirko Locatelli, giunto al terzo lungometraggio, non si abbandona alla facile tragicità, al voler mostrare i tormenti di una donna/madre/scienziata, Isabelle non è mai durante il film un libro aperto, tutt’altro, la maschera cucita dal regista sul suo volto è difficilmente penetrabile, gli unici rintocchi di coscienza vengono sputati fuori dalla paura del figlio, per il resto di Isabelle non riusciamo a cogliere granché, la vediamo sempre decisa, ferma, pronta ad impartire ordini (ad Anna, a Jérôme), il suo ventaglio di sentimenti è un vero mistero, non capiamo se provi preoccupazione o meno, non capiamo se in generale provi qualcosa oltre la perfetta facciata che esibisce con gli altri. Per questo motivo il film regge anche quando si inoltra sull’ambiguo sentiero del rapporto con Davide, è arduo inquadrare la faccenda perché gli elementi in gioco potrebbero far pensare che ci sia un’effettiva tensione sessuale tra i due così come si può pensare che il ragazzo abbia intuito del coinvolgimento di Isabelle nell’incidente, in realtà è plausibile che, osservando il verificarsi degli eventi, entrambe le supposizioni siano accettabili, ma comunque permane un velo di incertezza che poi è una caratteristica del cinema di Locatelli che cerca di sfuggire dall’ammorbante didascalia, se i confini non sono netti (ad esempio c’è l’accenno sulla bisessualità di Jérôme che non avrà seguito) la storia raccontata si fa liquida, elude i paletti dell’interpretazione razionale per sollevare più domande che risposte, il che è sempre un’ottima cosa.
Isabelle funziona meno se si guarda l’apparato formale che lo costituisce. È un peccato perché mi è parso un passo indietro rispetto a I corpi estranei (2013) dove la componente finzionale veniva, per quanto possibile, asciugata delle rigidità che spesso tale canale di trasmissione comporta, soprattutto in ambito italico dove la nostra percezione è inevitabilmente più sensibile ad una certa legnosità. Purtroppo il sottoscritto di ingessature in Isabelle ne ha ravvisate parecchie, tutte le scene di raccordo vocate ad un’idea di realismo, quelle inessenziali che in un film “normale” non ci sarebbero per tempistiche e modalità, producono un involontario effetto opposto, c’è molto di impostato, nulla di strano perché nel cinema niente è vero, però a volte c’è chi riesce a farci credere del contrario, non ’sta volta però, la maggior parte delle situazioni ricreate davanti alla mdp, anche le più banali, non si scrollano di dosso un retrogusto soapoperistico, una plastificazione che cozza con l’intento estetico pensato da Locatelli. Una spinta in suddetta direzione è data anche dalla scelta di affiancare attori dal diverso grado di professionalità, se Ariana Ascaride è convincente nella sua inaccessibilità e Robinson Stévenin risulta in fin dei conti una buona spalla (i confronti tra loro sono i migliori momenti della pellicola), Lavinia Anselmi non appare ancora al livello dei colleghi mentre Samuele Vessio è decisamente lontano dall’attorialità che ci si aspetta (la risata forzata nella trattoria è alquanto... finta), il che crea una netta stonatura, forse voluta, chissà!, sullo schermo.
Comunque sia Locatelli non dispiace affatto per la selezione e la profondità delle tematiche che affronta, per lo sguardo semplice, e quindi, ovviamente, complesso che getta sul mondo e sulle persone che lo abitano. Continuo a considerare I corpi estranei un lavoro maggiormente compiuto rispetto a Isabelle, ciò non toglie il fatto che Mirko sia uno dei più francesi tra i nostri registi, e tenendo conto che la Francia è, insieme al Portogallo, la migliore scuola d’autore in Europa, l’augurio è di vederlo migliorare ancora nei progetti futuri.
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