lunedì 12 ottobre 2020

Queen of Diamonds

La terza opera di Nina Menkes datata 1991 prosegue sulla falsariga di quanto l’ha preceduta (The Great Sadness of Zohara [1983]) e di quello che verrà (Phantom Love [2007] e Dissolution [2010]), Queen of Diamonds è una visione ostica, non impossibile, ci mancherebbe, ma di certo non predisposta ad entrare in confidenza con chi assiste, il che, per l’occhio più navigato, dovrebbe essere accolto con pacata euforia. Il territorio dove la regista ci sfida è, solo in superficie, di stampo esistenziale, siamo a Las Vegas nella vita di una croupier, nei suoi grigi scorci lontani da un possibile vaticinio, alla Menkes preme maggiormente fornire un quadro di spiccata desolazione dell’ambiente piuttosto che occuparsi dei lustrini locali. La sintassi utilizzata azzera l’intreccio canonico, tuttavia non può essere nascosto che un intreccio sia presente, è la messa in serie delle immagini, delle molecole che vanno a comporre sequenze sghembe e, si direbbe, quasi indipendenti le une dalle altre, in verità, come spesso accade, il tratto unificante, oltre che dallo sguardo globale e, perché no, dalla ricerca extrafilmica di informazioni in Rete (non è sbagliato per chi scrive poter considerare Film anche la connessa accessibilità post-visione, la nostra epoca ci permette di fare ingresso nel manufatto da molteplici porte), è dato da una singolarità che si fa associativa, qui, pur afferrando al massimo qualche lampo narrativo, ritorna dallo schermo un senso di profondo e aggregante abbandono (è un tema di rilievo: la ragazza è sola perché il marito è scomparso, l’assenza dell’uomo si perpetua nel non detto: il finale col matrimonio e lo smarrimento nel buio), quindi, pur non orizzontandoci nei meccanismi del racconto (futili e superflui, sempre), captiamo il mood della protagonista (di nuovo Tinka Menkes) e della realtà che vive.

Per Queen of Diamonds non ci si può però fermare alla lettura di un mondo arido (l’insistenza sui paesaggi deserti suggerirà qualcosa no?), se prima parlavo di sfida, il vero cimento riguarda la strutturazione del film e la fruizione che ne consegue. La Menkes, come si suol dire, non inventa niente, eppure ogni volta non è facile adeguarsi a ritmi così antitetici dal comune vedere, è arduo empatizzare a livello epidermico sebbene, per inverso, sia molto più gratificante ad un livello concettuale. D’altronde trattandosi di un’autrice che non ha mai disdegnato puntate nella sperimentalità, in questa pellicola, al pari delle altre, si può maneggiare con letizia uno studio teorico dalla soddisfacente portata, e allora registriamo il fatto che per parlarci di una monotonia professionale Nina costruisce una lunghissima scena fuori dagli standard che ripete allo sfinimento un susseguirsi di azioni compiute dalla croupier sul tavolo verde, è un segmento di assoluta libertà che descrive, per paradosso, un moto costrittivo, una catena di montaggio che potrebbe andare avanti in eterno e che invece dopo un quarto d’ora termina inaspettatamente sul cadavere di un anziano: applausi. Nessuno si sognerebbe di affibbiare altisonanti aggettivazioni al cinema della Menkes poiché esso rientra in una fascia di “clandestinità” (suggerita anche e soprattutto dalla scarsa qualità delle copie rintracciabili nel Web) non troppo conciliabile con le più abbordabili manifestazioni d’essai, ma il suo pensiero si rivela vivo e tradotto in un’importante apparato formale oltre che da un tatto estetico, seppur costretto a fronteggiare le scarse risorse, ammirabile, e a tal proposito, vedendo il campo lungo della palma infuocata, ho pensato che se la medesima sequenza si fosse trovata in un film di Seidl o di Dumont l’avremmo rivista a iosa nei profili Facebook o Instagram dei cinefili di mezzo globo, questo per dire di come anche un oggetto abbondantemente sommerso, povero e snobbato dai più, possa contenere della Bellezza.

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