martedì 17 marzo 2020

The Great Sadness of Zohara

Catalogato come il primo lavoro di Nina Menkes (sebbene il sito della regista segnali anche un corto precedente dal titolo A Soft Warrior, 1981), The Great Sadness of Zohara (1983), girato durante un viaggio tra Israele e Marocco insieme alla sorella Tinka (è lei Zohara), è il precipitato, appunto, del Viaggio, e la scelta di non usare l’articolo indeterminativo è voluta: qui il movimento è sì geografico poiché assistiamo ad un girovagare tra le affollate strade di Gerusalemme (le stesse che poi torneranno in Dissolution, 2010) bilanciato da sortite ascetiche in un qualche deserto arabo, ma ciò a cui il film aspira, riuscendoci, è più che altro uno spostamento mentale, indefinito e nebuloso, ramingo!, muliebre ed anarchico. La grana dei 16mm aiuta a mesmerizzare lo sguardo, a gettare un ponte magnetico che prescinde dai piombi descrittivi preferendo la visione scentrata di quello che il nome dell’opera definisce “grande tristezza”, e pur non sapendo l’eziologia di tale sentimento ciò è proprio quanto si diffonde oltre lo schermo: vediamo una donna palesemente in contrasto con l’umanità circostante (inizialmente indossa degli abiti locali, dopo muta totalmente look) ed in fuga da fantasmi che le si contorcono dentro, ma noi non sapremo niente!, ed il tenerci così sulla corda, così attratti da un oggetto che in realtà sarebbe parecchio respingente, è uno di quei piccoli miracoli che a volte sbocciano dalle manifestazioni più nascoste ed ignorate.

Alla Menkes vanno fatti i complimenti soprattutto per la fase post-produttiva che attraverso dei dislocanti innesti sonori dà un altro senso alle riprese, quale sia il senso non lo si sa e non lo si vuole sapere, ma di certo si è testimoni di un altro viaggio nel viaggio: il materiale documentaristico, etnografico e naturalistico si trasforma in una realtà ulteriore, a tratti eterea (vi sono suadenti melodie arabeggianti) a tratti conturbante (vengono inseriti nello score gemiti e sospiri di matrice sessuale), ecco allora l’amato spaesamento di un cinema che si legge senza indice, è una breccia The Great Sadness of Zohara, il piccolo risultato di un’intraprendenza artistica che non può non attirarsi le considerazioni di uno spettatore accorto. Il finale, che coincide visivamente con l’inizio e che forse certifica il fatto che l’errabondare della ragazza si è realizzato solo nella sua testa, è un picco emotivo: c’è una nenia di sottofondo che sfuma nei titoli di coda per lasciare il posto allo scroscio della pioggia, niente di complesso si dirà, infatti è proprio la semplicità che a volte sa essere così bella.

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