Catalogato come il primo
lavoro di Nina Menkes (sebbene il sito
della regista segnali anche un corto precedente dal titolo A Soft
Warrior, 1981), The Great Sadness of Zohara (1983), girato
durante un viaggio tra Israele e Marocco insieme alla sorella Tinka
(è lei Zohara), è il precipitato, appunto, del Viaggio, e la scelta
di non usare l’articolo indeterminativo è voluta: qui il movimento
è sì geografico poiché assistiamo ad un girovagare tra le
affollate strade di Gerusalemme (le stesse che poi torneranno in
Dissolution, 2010) bilanciato da sortite ascetiche in un
qualche deserto arabo, ma ciò a cui il film aspira, riuscendoci, è
più che altro uno spostamento mentale, indefinito e nebuloso,
ramingo!, muliebre ed anarchico. La grana dei 16mm aiuta a
mesmerizzare lo sguardo, a gettare un ponte magnetico che prescinde
dai piombi descrittivi preferendo la visione scentrata di quello che
il nome dell’opera definisce “grande tristezza”, e pur non
sapendo l’eziologia di tale sentimento ciò è proprio quanto si
diffonde oltre lo schermo: vediamo una donna palesemente in contrasto
con l’umanità circostante (inizialmente indossa degli abiti
locali, dopo muta totalmente look) ed in fuga da fantasmi che le si
contorcono dentro, ma noi non sapremo niente!, ed il tenerci così
sulla corda, così attratti da un oggetto che in realtà sarebbe
parecchio respingente, è uno di quei piccoli miracoli che a volte
sbocciano dalle manifestazioni più nascoste ed ignorate.
Alla Menkes vanno fatti i
complimenti soprattutto per la fase post-produttiva che attraverso
dei dislocanti innesti sonori dà un altro senso alle riprese, quale
sia il senso non lo si sa e non lo si vuole sapere, ma di certo si è
testimoni di un altro viaggio nel viaggio: il materiale
documentaristico, etnografico e naturalistico si trasforma in una
realtà ulteriore, a tratti eterea (vi sono suadenti melodie
arabeggianti) a tratti conturbante (vengono inseriti nello score
gemiti e sospiri di matrice sessuale), ecco allora l’amato
spaesamento di un cinema che si legge senza indice, è una breccia
The Great Sadness of Zohara, il piccolo risultato di
un’intraprendenza artistica che non può non attirarsi le
considerazioni di uno spettatore accorto. Il finale, che coincide
visivamente con l’inizio e che forse certifica il fatto che
l’errabondare della ragazza si è realizzato solo nella sua testa,
è un picco emotivo: c’è una nenia di sottofondo che sfuma nei
titoli di coda per lasciare il posto allo scroscio della pioggia,
niente di complesso si dirà, infatti è proprio la semplicità che a
volte sa essere così bella.
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