venerdì 27 marzo 2020

Man in the Well

Proviamo a scindere ciò che è stato Bo Hu, che non ho idea di chi fosse perché finora non ho visto nient’altro di suo ma trattandosi pur sempre di un mio coetaneo che nel 2017 ha deciso di farla finita con questo mondo il bottone dell’empatia mi viene facile da schiacciare, da Jing li de ren (2016), e arrivo ad una prima e rapida constatazione così fatta: che il corto sotto esame, peraltro ornato dalla prestigiosa scritta “supervised by Béla Tarr” nei crediti d’apertura, non è nulla di essenziale, al momento sono ancora all’oscuro se il successivo An Elephant Sitting Still (2018) è davvero il fimone di cui si legge in giro, però rimanendo qui di segnali per un possibile exploit futuro non ce ne sono tantissimi, in generale questo lavoro breve si allinea ad altri simili che si occupano di post-apocalissi o situazioni equivalenti. Bo fa muovere due ragazzini in un classico mondo disastrato pieno di detriti e spazzatura, la camera a mano li segue bighellonare e lamentarsi per la fame che li attanaglia, il bianco/nero è, come si ama dire in casi del genere, sporco e l’atmosfera ricreata sullo schermo potrebbe anche essere accettabile se non fosse un’impalcatura estetica ampiamente diffusa e straproposta nel campo della settima arte. Annotata la resa formale, su Man in the Well si hanno dei problemi ad aggiungere qualcos’altro per rimpinguare un minimo il commento, diciamo che se si voleva instillare quella disperazione da ultimo-uomo-sulla-Terra si può affermare che delle particelle di angoscia filtrano, comunque sempre troppo poche e sempre troppo deboli per scalfire l’animo del navigato cinefilo.

Inoltre Man in the Well soffre di una sindrome che purtroppo attanaglia altri corti come lui, i sintomi si manifestano essenzialmente con l’arrivo del finale in cui il regista di turno deve avvertire una sorta di obbligo verso lo spettatore, una vera e propria autocoercizione che lo spinge a piazzare un colpo neanche di scena, piuttosto un sussulto, un piccolo ribaltamento. Certo, ci sono modi e modi per fare ciò ed il regista cinese non lo fa sicuramente in maniera spregiudicata, tuttavia a che pro soffermarsi sui volti dei bambini sporchi di sangue? E non mi riferisco al fatto che ok, sono sporchi di sangue perché l’uomo del titolo, probabilmente, invece che nel pozzo è finito poi nei loro stomaci, quello che penso si inscrive in una riflessione più ampia che mi spinge a considerare il cinema come un’entità multi-accessibile, stimolante, cava, divaricata ad ogni interpretazione plausibile e non, Jing li de ren non presenta caratteristiche così connotanti, alla resa dei conti viene suggerito (per carità, meglio suggerire che impartire) della condizione in cui versano i due protagonisti: in una realtà-pattumiera, slavata e laida, sono costretti a mangiarsi un proprio simile. Embè?

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