Proviamo
a scindere ciò che è stato Bo Hu, che non ho idea di chi fosse
perché finora non ho visto nient’altro di suo ma trattandosi pur
sempre di un mio coetaneo che nel 2017 ha deciso di farla finita con
questo mondo il bottone dell’empatia mi viene facile da
schiacciare, da Jing li de ren
(2016), e arrivo ad una prima e rapida constatazione così fatta: che
il corto sotto esame, peraltro ornato dalla prestigiosa scritta
“supervised by Béla Tarr” nei crediti d’apertura, non è nulla
di essenziale, al momento sono ancora all’oscuro se il successivo
An Elephant Sitting Still (2018)
è davvero il fimone di cui si legge in giro, però rimanendo qui di
segnali per un possibile exploit futuro non ce ne sono tantissimi, in
generale questo lavoro breve si allinea ad altri simili che si
occupano di post-apocalissi o situazioni equivalenti. Bo fa muovere
due ragazzini in un classico mondo disastrato pieno di detriti e
spazzatura, la camera a mano li segue bighellonare e lamentarsi per
la fame che li attanaglia, il bianco/nero è, come si ama dire in
casi del genere, sporco e l’atmosfera ricreata sullo schermo
potrebbe anche essere accettabile se non fosse un’impalcatura
estetica ampiamente diffusa e straproposta nel campo della settima
arte.
Annotata la resa formale, su Man
in the Well
si hanno dei problemi ad aggiungere qualcos’altro per rimpinguare
un minimo il commento, diciamo che se si voleva instillare quella
disperazione da ultimo-uomo-sulla-Terra si può affermare che delle
particelle di angoscia filtrano, comunque sempre troppo poche e
sempre troppo deboli per scalfire l’animo del navigato cinefilo.
Inoltre
Man in the Well
soffre di una sindrome che purtroppo attanaglia altri corti come lui,
i sintomi si manifestano essenzialmente con l’arrivo del finale in
cui il regista di turno deve avvertire una sorta di obbligo verso lo
spettatore, una vera e propria autocoercizione che lo spinge a
piazzare un colpo neanche di scena, piuttosto un sussulto, un piccolo
ribaltamento. Certo, ci sono modi e modi per fare ciò ed il regista
cinese non lo fa sicuramente in maniera spregiudicata, tuttavia a che
pro soffermarsi sui volti dei bambini sporchi di sangue? E non mi
riferisco al fatto che ok, sono sporchi di sangue perché l’uomo
del titolo, probabilmente, invece che nel pozzo è finito poi nei
loro stomaci, quello che penso si inscrive in una riflessione più
ampia che mi spinge a considerare il cinema come un’entità
multi-accessibile, stimolante, cava, divaricata ad ogni
interpretazione plausibile e non, Jing
li de ren non
presenta caratteristiche così connotanti, alla resa dei conti viene
suggerito (per carità, meglio suggerire che impartire) della
condizione in cui versano i due protagonisti: in una
realtà-pattumiera, slavata e laida, sono costretti a mangiarsi un
proprio simile. Embè?
Nessun commento:
Posta un commento