Sempre più
spinta, eccentrica ed esagerata, l’arte di Bertrand Mandico, se la
si osserva in modo distaccato, è, in ogni sua apparizione, cinema
che parla di sé, i suoi film esibiscono impavidi la propria natura
che è, ovviamente, fasulla, come del resto è l’essenza stessa del
cinema, o, se vogliamo essere più lirici, una natura illusoria, e
quindi questo pazzo francese spinge in tale direzione, che è
massimalista e al contempo destrutturante, è il mettere in scena i
meccanismi che di solito non si vedono ma di cui sappiamo
l’esistenza, è, in sostanza, ciò che potrebbe definirsi
post-moderno, ammesso che tale definizione, oggi, abbia un senso. E
Ultra pulpe (2018) ne è l’esemplare programmatico, certo, inevitabilmente
lo era anche The Wild Boys (2017),
e altrettanto inevitabilmente lo sarà anche, presumo, il prossimo
lavoro di Mandico o quello, chessò, di dieci anni fa. La coerenza è
di casa qui, al pari di un percorso concettuale e stilistico che
trasmigra di opera in opera diffondendo, ogni volta, dei marchi di
fabbrica distintivi dove spicca un erotismo deviato che per Mandico
non è solo la rappresentazione degli istinti sessuali umani ma la
rielaborazione, quasi nostalgica, di tutto quel cinema da bollino
rosso al confine col trash del quale il Nostro deve essere stato un
fan. Non che, se ci pensiamo, le trovate di Mandico siano
particolarmente raffinate, tutt’altro!, è chiaro però che qui,
sia in Ultra pulpe che
nel resto della filmografia, c’è la piena consapevolezza di ciò
che si fa, il dubbio, se non il cattivo gusto, è doppiato dall’estrosa
autorialità del regista che sguazza negli escamotage artigianali, negli
artifici evidenti e a basso costo.
Che
poi il sottoscritto, come già ampiamente ribadito, non si sente per
niente vicino a questo modo di vedere il cinema. All’addizione
preferisco la sottrazione, l’esasperazione delle varie componenti,
dalla recitazione agli scenari, sono aspetti che da molto tempo non
fanno più per me. Ultra pulpe è
uno show continuo ed
imperterrito di quanto appena detto, è una sbocciatura
incontrollabile di lacerti cinematografici che appaiano dinanzi ai
nostri occhi in vorticosa successione, si tratta di quadri incubici
partoriti dall’alter ego di Mandico sullo schermo, schegge di
morbosa follia in cui il femmineo prevale, seduce, subisce, si perde
su Marte, ritorna dall’aldilà, “storie di donne al crepuscolo”
dirà la regista, un tramonto glitteroso, sulfureo, stroboscopico. Ah
no, eh sì, sul piano dell’atmosfera, dell’impatto che le
immagini così curate, così... strane, producono, degli effetti che
rilasciano, effetti pruriginosi, lisergici e un pochino (-ino)
gasparnoéiani, non c’è granché da additare se ci si siede al
tavolo di Mandico accettando le sue regole, tanto è che, alla fine,
pur venendo colti da innumerevoli interrogativi (che cavolo è quella
cosa che sembra uscita da uno schizzo di Miyazaki strafatto di acidi
che vomita un liquido verde?), con qualche entrata musicale ad hoc
unita ad altisonanti linee di dialogo, tutto sembra andare nella
direzione voluta, da Mandico, ça va sans dire,
il quale ci farà asserire quanto è fuori di capoccia o quanto è bravo
o forte o geniale o bislacco o via dicendo, verissimo, per carità,
ma attenzione a ciò che comprate, i venditori di fumo sono
abilissimi a commerciare il proprio prodotto.
Nessun commento:
Posta un commento