Abbiamo già visto alcuni
film in passato simili a Costa Dulce (2013), non troppi, è
vero, ma abbastanza da poterli identificare in un macro insieme che
ha come base fondante la geografia di appartenenza, l’opera di
Enrique Collar, la terza in carriera per lui che è anche pittore,
alla stregua di altre che ne condividono la posizione sul globo
terracqueo, è il passaggio verso un mondo sudamericano con tratti
potentemente distintivi, su tutto la povertà, lo stato sociale in
cui sono impantanate le persone da più di una vita, ancor prima di
nascere, e in subordine la condizione lavorativa che in questo caso è
contadina e che quindi propaga quel sentore primigenio che la terra,
la giungla ed il fango esprimono quando c’è un cinema capace di
captarne l’assoluta portata, cosa che a Collar riesce in modo
dignitoso. Ecco dunque la cornice di Costa Dulce che
come di consueto annovera all’interno un piccolo esercito di esseri
ad un passo dal completo oblio, anche e soprattutto divino, che
tirano a campare tra una moglie sgraziata e una bisca dove perdere i
propri soldi. Nell’istante in cui si annota ciò, il regista
paraguaiano è abile nel mostrare con efficace semplicità la routine
di un ragazzo a cui quella vita marginale sta un po’ stretta (lo
sottolinea metaforicamente con la bella immagine di David che tenta
di riprodurre l’Uomo Vitruviano, come a dire che anche lui, in
qualche modo, può tendere alla perfezione), non vi sono né
accentuazioni né esibizioni, il canale di trasmissione è
tipicamente ben saldo sul reale concedendosi però aperture su
qualcosa che valica tale dimensione (il bimbo biondo abbandonato
nella foresta; la sagoma di una donna vestita di bianco nella notte).
Ripeto: niente di così nuovo, ma: niente che non valga la pena
essere rivisto un’altra volta.
La
sterzata narrativa voluta da Collar (la casuale consegna del metal
detector) non fa che esacerbare dei processi dormienti radicati nella
mente del protagonista che non è diversa da quella dei suoi
concittadini. Con modalità e tempistiche piuttosto slow il
regista accompagna lo spettatore in una storia che assomiglia minuto
dopo minuto ad un imbuto da dove si intuisce che non potrà mai
esserci un lieto fine, tutta la faccenda del tesoro nascosto è un
campanello di allarme che apicalizza il sentimento di rivalsa di
David su una comunità che non ha niente da offrire se non miti e
leggende proferite da una specie di santona o qualche snack
acquistabile in un chiosco fatiscente (che il giovane, una volta
arrichitosi, vorrebbe comprare in segno di sfregio al proprietario).
Forse Costa Dulce non
è solo il tentativo di riabilitazione del singolo individuo ma anche
il riscatto di una nazione intera schiacciata tra il Brasile e
l’Argentina, e il dialogo a tre dell’incipit con i due anziani
che fungono da memoria storica del Paese sembra lì a suggerirlo, ma
il punto è che se prendiamo David come sineddoche dello Stato a cui
appartiene, nell’inevitabile gioco che si instaura con chi guarda
la predizione del fallimento è una conclusione che si preannuncia
fatale, non è d’altronde così, ovvero seguendo una diceria, che
si possono cambiare le cose, così come il ritrovamento di
un’eventuale ricchezza non cambierebbe le sorti di una comunità,
anzi al contrario la bramosia dell’avere spingerebbe l’uomo ad essere
ancora più egoista (evento che infatti si verifica nel luttuoso
finale). Se pensate che le suddette interpretazioni possano risuonare
un po’ troppo moraleggianti assicuro che la materia da cui sono
dedotte non ha mire del genere, il film, se rapportato agli altri
esemplari del recinto cinematografico citato nel primo paragrafo, è
pressoché impeccabile ed un recupero lo merita indubitabilmente,
anche perché avrete l’occasione di udire la lingua guaraní,
sembrerà poco, ma il sottoscritto apprezza il cinema anche per
questa capacità che ha di donare piccole cose dall’immenso valore.
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