A fine
visione sono andato a spulciare il curriculum di Daniel Kwan &
Daniel Scheinert per scoprire che in realtà avevo già
inconsapevolmente incrociato il loro percorso artistico, è infatti
una produzione firmata Daniels il formidabile videoclip Tongues
dei Joywave
che al tempo mi impressionò parecchio, dopodiché ho dato una veloce
scorsa ad altre opere in ambito musicale girate dal duo e credo di
aver intuito che tutto l’esuberante talento messo in mostra in
Swiss Army Man
(2016) è il risultato di un tragitto che ha trovato nei video dei
piccoli laboratori dove la coppia ha dato sfogo ad una costante
creatività, non è per niente difficile infatti trovare similitudini
con il lungometraggio di debutto e pescando a caso ecco che ad
esempio in Turn Down for
What
abbiamo un altro pene “indipendente” o in Houdini
i Foster the People sono dei Manny redimorti
sul
palco, c’è quindi una continuità forte da parte dei Daniels che
sicuramente sarà implementata da ulteriori segnali che non ho avuto
il tempo di carpire (i cortometraggi: non li ho visti), tutto ciò è
utile per annotare di come il cinema, quello che tende ad un
intrattenimento fighetto ed hipsterico (non vi è alcuna accezione
polemica in questi due aggettivi da parte mia), può contare nel
vivaio dei registi videoclippari una apprezzabile via di fuga
dall’ordinarietà visiva, alcuni, tipo Spike Jonze, hanno fatto
carriera, altri, tipo Jonathan Glazer, hanno le carte in regola per
farla. Come i Daniels, credo.
Ma
com’è Swiss Army Man?
Mi è parso, sopra ogni cosa, un film vivo, nonostante abbia un flirt
di tutto rispetto con una dimensione mortuaria (la prima scena è un
tentativo di suicidio, e poi c’è Manny ovviamente), perché
diventa, attraverso un apparato che abbraccia una ricca gamma di
categorie, una sorta di abbecedario esistenziale che travolge e
stravolge (massì, esagero) certi canoni ammaestranti. Per il
sottoscritto non è granché importante capire chi sia la proiezione
mentale di chi, quello è un passaggio che a prescindere
dall’effettiva possibilità (magari ci sono indizi e occhiolini
verso una delle due direzioni che non ho colto) si dà più o meno
subito allo spettatore, mentre è molto più interessante, invece,
essere per l’appunto spettatori,
nel senso che, per una volta, si assiste ad un vero e proprio show in
cui si rappresenta quel vivere che conosciamo senza lesinare ardite
piroette come la turbo-scorreggia o sequenze ben centrate che i più
ricorderanno con piacere (la delicatezza insita nella scena
sull’autobus). Insomma, non ci si annoia di certo qui, i Daniels si
inseriscono in una scia battuta da colleghi come Wes Anderson, Jaco
Van Dormael o (in modo minore) il primo Julio Medem dove i “cattivi
non sono cattivi davvero” (perdonate la citazione musicale).
Personalmente
non sono riuscito a stabilire una connessione profonda con l’opera
sebbene affronti tematiche di rilevante entità in modo
allettante (è frizzante il
comparto dialogico tradotto alla grande da Dano e Radcliffe), sono rivolto altrove ed in quell’altrove cerco cose
diverse, però ne ho indubbiamente ammirato il fare pantagruelico e
l’energia che si sprigiona da ogni fotogramma, lo humor
intelligente e la voglia di avvicinare con notevole inventiva la
complessità dei sentimenti, dall’amicizia all’amore,
ingentilendo la narrazione con una vivacità ed una vitalità quasi
contagiose, ed è un bel paradosso se si pensa che sullo schermo vi
sono solo due personaggi di cui uno più morto che vivo. Sì,
scrivendo, che il modo migliore per dare una forma ordinata ai propri
pensieri, realizzo che Swiss
Army Man mi
ha divertito assai, e cazzo se la smorfia di Manny del finale non è
la degna conclusione del film.
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