lunedì 2 marzo 2020

Swiss Army Man - Un amico multiuso

A fine visione sono andato a spulciare il curriculum di Daniel Kwan & Daniel Scheinert per scoprire che in realtà avevo già inconsapevolmente incrociato il loro percorso artistico, è infatti una produzione firmata Daniels il formidabile videoclip Tongues dei Joywave che al tempo mi impressionò parecchio, dopodiché ho dato una veloce scorsa ad altre opere in ambito musicale girate dal duo e credo di aver intuito che tutto l’esuberante talento messo in mostra in Swiss Army Man (2016) è il risultato di un tragitto che ha trovato nei video dei piccoli laboratori dove la coppia ha dato sfogo ad una costante creatività, non è per niente difficile infatti trovare similitudini con il lungometraggio di debutto e pescando a caso ecco che ad esempio in Turn Down for What abbiamo un altro pene “indipendente” o in Houdini i Foster the People sono dei Manny redimorti sul palco, c’è quindi una continuità forte da parte dei Daniels che sicuramente sarà implementata da ulteriori segnali che non ho avuto il tempo di carpire (i cortometraggi: non li ho visti), tutto ciò è utile per annotare di come il cinema, quello che tende ad un intrattenimento fighetto ed hipsterico (non vi è alcuna accezione polemica in questi due aggettivi da parte mia), può contare nel vivaio dei registi videoclippari una apprezzabile via di fuga dall’ordinarietà visiva, alcuni, tipo Spike Jonze, hanno fatto carriera, altri, tipo Jonathan Glazer, hanno le carte in regola per farla. Come i Daniels, credo.

Ma com’è Swiss Army Man? Mi è parso, sopra ogni cosa, un film vivo, nonostante abbia un flirt di tutto rispetto con una dimensione mortuaria (la prima scena è un tentativo di suicidio, e poi c’è Manny ovviamente), perché diventa, attraverso un apparato che abbraccia una ricca gamma di categorie, una sorta di abbecedario esistenziale che travolge e stravolge (massì, esagero) certi canoni ammaestranti. Per il sottoscritto non è granché importante capire chi sia la proiezione mentale di chi, quello è un passaggio che a prescindere dall’effettiva possibilità (magari ci sono indizi e occhiolini verso una delle due direzioni che non ho colto) si dà più o meno subito allo spettatore, mentre è molto più interessante, invece, essere per l’appunto spettatori, nel senso che, per una volta, si assiste ad un vero e proprio show in cui si rappresenta quel vivere che conosciamo senza lesinare ardite piroette come la turbo-scorreggia o sequenze ben centrate che i più ricorderanno con piacere (la delicatezza insita nella scena sull’autobus). Insomma, non ci si annoia di certo qui, i Daniels si inseriscono in una scia battuta da colleghi come Wes Anderson, Jaco Van Dormael o (in modo minore) il primo Julio Medem dove i “cattivi non sono cattivi davvero” (perdonate la citazione musicale).

Personalmente non sono riuscito a stabilire una connessione profonda con l’opera sebbene affronti tematiche di rilevante entità  in modo allettante (è frizzante il comparto dialogico tradotto alla grande da Dano e Radcliffe), sono rivolto altrove ed in quell’altrove cerco cose diverse, però ne ho indubbiamente ammirato il fare pantagruelico e l’energia che si sprigiona da ogni fotogramma, lo humor intelligente e la voglia di avvicinare con notevole inventiva la complessità dei sentimenti, dall’amicizia all’amore, ingentilendo la narrazione con una vivacità ed una vitalità quasi contagiose, ed è un bel paradosso se si pensa che sullo schermo vi sono solo due personaggi di cui uno più morto che vivo. Sì, scrivendo, che il modo migliore per dare una forma ordinata ai propri pensieri, realizzo che Swiss Army Man mi ha divertito assai, e cazzo se la smorfia di Manny del finale non è la degna conclusione del film.

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