È il
“nostro tempo” perché è davvero il nostro,
sì, il mio ed il tuo, un tempo dove le relazioni, così come la
sessualità, sono fluide, a volte esondano, a volte rinculano, spesso
stagnano, e quando ri-stagnano si cerca ossigeno altrove, in altri
corpi, e quindi in altri profumi, aliti, puzze, in nuovi sguardi che,
come quelli che scorge Juan, sono gli stessi ricevuti in passato da
sua moglie la quale però, ora, li rivolge esattamente in
quell’altrove appena citato, ed è proprio il tempo che viviamo
quando il legame tra due persone è normato da devices elettronici
che scandiscono un sentimento, che può essere di desiderio (la
videochiamata), di gelosia (la ricerca di chiamate o sms da parte
dell’altro) o di distensione (le mail, surrogato di un confronto
diretto), e allora accade che una coppia equipaggiata per poter
vivere la vita nel migliore dei modi circondata da una famiglia
allargata all’interno di un ranch che regala orizzonti sconfinati,
una coppia brillante con una solida carriera alle spalle e un futuro
altrettanto in cassaforte, ecco, questo uomo, un poeta stimato e
gentile, e questa donna, manager della fattoria con i pantaloni, non
sono felici, non lo sono nemmeno sotto la cappa disfunzionale in cui
si sono rifugiati. Al pari di Silent Light (2007)
e, per brevi tratti anche di Post Tenebras Lux (2012),
il matrimonio per Reygadas è sempre in crisi e Nuestro
tiempo (2018) ne diventa quindi
l’aggiornamento degli anni ’20 dove la condizione critica è una
costante ormai ineliminabile.
Ma
è anche il “nostro tempo” perché, a conti fatti, è proprio il
loro, di Carlos,
Natalia e dei figli, tutti insieme (si) riversano sullo schermo,
definiscono il tempo esistenziale all’interno di un quadro
casalingo che, finzione o meno, si cuce addosso ai ruoli che
interpretano, ovvero se stessi, e l’essere ciò che si è, a
prescindere di quale delle due dimensioni stiamo parlando, se quella
fuori o dentro la diegesi, è un leitmotiv sottile che Reygadas
utilizza con sapienza, che sia Carlos o che sia Juan, lui rimane il
Regista, colui che non può fare a meno di vedere, è una pulsione
irrefrenabile, praticamente un istinto che sovrasta anche ciò che
sotto sotto gli spezza il cuore, lui deve avere la possibilità di
gestire la scena (il posizionamento delle luci), di controllare gli
attori (la lettera a Phil dove lo invita a seguire i suoi dettami; le
disposizioni che dà ad Esther), eppure sembra che il suo impegno e
la sua dedizione non siano sufficienti ad instradare le cose nella
direzione voluta, questo perché nel film che sta facendo, che è
intelligibile come il rapporto coniugale in sé, e quindi un film
sull’amore (che si vorrebbe) imperituro, nel suo disegno
complessivo, non tutti i componenti dell’orchestra suonano lo
stesso spartito, che sia Natalia (di mestiere montatrice) o che sia
Esther, emerge un contrasto, il progetto del regista collide con
quello del collaboratore, l’idea che il marito ha del matrimonio
stride con quella della moglie, è, come da prassi, un conflitto, che sia professionale o che sia sentimentale poco importa per
Reygadas, Esther dirà con decisione in videochiamata che è “un
processo suo” e Juan, pur tentando di comprendere, rimarrà
comunque nella sua posizione di fragile deus ex machina che fino
all’ultimo cercherà di riequilibrare la storia intima con un
abbraccio negato, perché le persone, e gli affetti, cambiano, i
nessi mutano, il tempo modifica le carte in tavola, non si può amare
una persona sempre nello stesso modo e non si può fare sempre lo
stesso film, per questo c’è un’inevitabile rottura, per questo,
ad esempio, Our Time non
è Japón (2002).
Ed è infine il “nostro tempo” perché è un tempo di immersione
della durata di tre ore, un’apnea dove dei tori si scornano nella
nebbia (è forse troppo banale considerare l’animale che nel finale
precipita dal dirupo il nostro Juan che ha incassato un colpo
fatale?), un eccesso che ingloba più del dovuto (la parte
introduttiva nel fiume paludoso), eppure questo fare totalizzante,
questa grondaia che raccoglie un nubifragio fatto di campi totali e
sequenze che si autoimprimono nella mente (le riprese aeree della
metropoli accompagnate dalla lettera/confessione di Esther; le
immagini che arrivano direttamente dal motore della macchina), è
bello che convogli (/che esploda) nel mondo privato di due esseri
umani, nel casino indefinito in cui il loro amore li ha trascinati
fino a logorarli.
E se qualcuno sapesse il nome della canzone che gli amici di Pablo intonano al suo capezzale, che lo dica per favore, è di un’intensità rara.
E se qualcuno sapesse il nome della canzone che gli amici di Pablo intonano al suo capezzale, che lo dica per favore, è di un’intensità rara.
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